LUDOVICO III Gonzaga, marchese di Mantova
Figlio primogenito di Gianfrancesco, marchese di Mantova, e di Paola Malatesta, nacque nel 1412; le fonti danno indicazioni incerte sul giorno e sul mese, oscillando fra il 5 giugno di Bonamente Aliprandi e il 5 luglio di Antonio Nerli (p. 14); gli studiosi concordano per il 5 giugno. A partire dal 1423 L. e i fratelli Carlo, Alessandro e Gianlucido e le sorelle Margherita e Cecilia furono educati nella Ca' Zoiosa alla scuola di Vittorino da Feltre.
Si trattò di una esperienza pedagogica di altissimo livello, cui i giovani Gonzaga parteciparono insieme con una serie cospicua di condiscepoli, sia mantovani sia stranieri, dalla quale uscirono uomini politici, prelati e umanisti di rilievo. Vittorino Rambaldoni infatti, giunto a Mantova dopo avere insegnato a Padova e a Venezia, fu una particolarissima figura di educatore. Lo sviluppo intellettuale dei suoi allievi, basato sull'apprendimento del latino e del greco, della dialettica e della retorica, della filosofia, della matematica, della musica, non andava infatti disgiunto nella sua dottrina da uno sviluppo armonioso del corpo e da un'educazione etica all'equilibrio, alla frugalità, a un retto sentire cristiano. Tale esperienza educativa andava condivisa fra tutti coloro che ne risultassero meritevoli, indipendentemente dal rango: in tal senso, i figli dei marchesi crebbero sobriamente e a contatto con compagni di varia origine, con cui sovente mantennero rapporti significativi per tutta la vita. In particolare L., che da Francesco Prendilacqua, discepolo e biografo di Vittorino, sappiamo fosse goffo, impacciato nei movimenti e tendente alla pinguedine, venne gradualmente educato a controllare il proprio regime di vita, abituando il corpo a una parca disciplina che lo caratterizzò anche negli anni maturi. Si trattò, per L., di un magistero di grande peso: grazie a Vittorino, il futuro marchese maturò non solo una educazione equilibrata e rigorosa, ma capacità intellettuali di prim'ordine e un amore peculiare per le discipline umanistiche.
L. nei primi anni Trenta iniziò a dare prova di sé come condottiero: le prime notizie che abbiamo di una condotta autonomamente stipulata risalgono al 1432. All'epoca il marchese Gianfrancesco era comandante in seconda dell'armata veneta agli ordini di Francesco Bussone conte di Carmagnola: nella primavera di quell'anno L. venne ingaggiato personalmente per sei mesi più sei "di rispetto" con un contingente di 200 lance, di cui 50 erano sottoposte alla sua diretta autorità e le restanti 150 rispondevano a più esperti capitani gonzagheschi. Si può ipotizzare che in tale condizione di stipendiato della Serenissima L. rimanesse almeno sino al 1436, anche considerato il fatto che il padre nel gennaio 1433 aveva vinto i propri indugi e aveva accettato di succedere al Carmagnola, giustiziato il 5 maggio 1432, come comandante generale delle armate veneziane.
Tra il 1432 e il 1433 maturò un evento di notevole peso nella storia dello Stato mantovano: l'imperatore Sigismondo eresse il dominio gonzaghesco in Marchesato, consentendo a Gianfrancesco di trasmettere lo Stato ai figli maschi secondo l'ordine naturale di successione. Nel contesto della politica di prestigio e di potenza perseguita da Gianfrancesco con questo titolo, ottenuto al prezzo non indifferente di 12.000 fiorini renani, va inserito anche il matrimonio di L., stipulato e celebrato nello stesso 1433, con Barbara di Hohenzollern, figlia di Giovanni margravio di Brandeburgo e nipote dell'elettore palatino Federico.
L'importanza che i Gonzaga attribuivano a questa unione è dimostrata dagli accordi nuziali, secondo i quali la Hohenzollern ricevette la dote non dal padre, ma dal futuro suocero: Gianfrancesco, infatti, promise di consegnare 25.000 fiorini renani ad alcuni mercanti tedeschi a Venezia perché li portassero al margravio e assegnò una somma equivalente a Barbara, come consorte del figlio, sulle rendite di Peschiera e Ostiglia. L'età degli sposi era assai diversa essendo nata Barbara, con buona probabilità, nel settembre 1422; la giovane principessa, che non parlava una parola di italiano, entrata in Mantova il 22 nov. 1433, fu dapprima affidata, probabilmente come allieva privata giacché non risulta fra quelli ordinari, a Vittorino da Feltre. Il matrimonio fu consumato dopo il compimento del dodicesimo anno d'età della sposa, alla fine del 1434.
Nel corso del 1436 L. maturò un colpo di scena che ebbe impreviste conseguenze: passò infatti, apparentemente all'insaputa di Gianfrancesco, al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti con un contingente di 300 lance, sottoscrivendo una condotta della durata di un anno più un anno "di rispetto", con la sola clausola di non combattere contro il padre.
Le cause di questa fuga e la sua stessa natura non sono chiare: la storiografia mantovana riconduce la rottura da parte di L. sia a un desiderio di maggiore autonomia sia a una radicata gelosia nei confronti del fratello minore, Carlo. Non è chiaro neppure se l'intera operazione fosse condotta realmente all'insaputa del padre: quello che sembra certo è che Gianfrancesco fece mostra di adirarsi moltissimo con il primogenito a causa della situazione ambigua in cui il suo comportamento lo aveva posto nei confronti dei sospettosi Veneziani. Il marchese infatti chiese all'imperatore - e ottenne - di poter alterare l'ordine della successione al marchesato (3 nov. 1436), nominando proprio erede il figlio Carlo, e bandì da Mantova L., infierendo contro di lui e la nuora Barbara, rimasta a corte, che dal canto suo era colpevole di non avere ancora dato un erede a Ludovico.
L'intera vicenda fu in realtà il preludio del passaggio dello stesso Gianfrancesco al servizio del duca di Milano nel 1438, con un voltafaccia clamoroso di cui forse la condotta di L. era stata una sorta di anticipazione. I due Gonzaga si riappacificarono, secondo la tradizione per merito di Paola Malatesta e di Vittorino da Feltre, nel 1441 e l'ordine della successione fu ristabilito. Nello stesso anno Barbara diede a L. il sospirato erede, Federico.
Questi fu il primo di una lunga serie di figli di cui dieci, fra maschi e femmine (Federico, il cardinale Francesco, Gianfrancesco, Rodolfo e il protonotario Ludovico, Susanna, Dorotea, Cecilia, Barbara e Paola), giunsero all'età adulta. L. ebbe anche almeno due figlie naturali, Gabriella, poi moglie di Corrado da Fogliano, e Caterina, sposa di Francesco Secco.
Il passaggio dei Gonzaga al fronte visconteo nel 1438 non portò gli sperati accrescimenti territoriali che erano stati alla base della scelta di Gianfrancesco: le guerre veneto-viscontee di quegli anni condussero al contrario le ostilità direttamente in territorio mantovano e si conclusero con la pace di Cavriana del 1441, con la quale Mantova perdeva definitivamente Asola, Lonato e Peschiera, e con esse il sospirato accesso al lago di Garda. Nel settembre 1444, alla sua morte, L. III succedeva al padre.
Grazie alla scelta testamentaria paterna, il territorio controllato direttamente da L. IIIcomprendeva il corpo centrale del Marchesato senza gli accrescimenti territoriali quattrocenteschi lungo i confini occidentali, buona parte dell'Oltrepò attorno a Gonzaga e Luzzara, e una serie di vicariati nella parte settentrionale dello Stato come Volta Mantovana e Cavriana, finiti nelle mani dei fratelli Carlo, Gianlucido e Alessandro, che li detenevano iure feudi da Ludovico III. Questi dunque ereditava uno Stato provato da guerre pluridecennali, impoverito da spese eccessive, ridotto nel territorio dalla spartizione attuata dal padre in favore dei cadetti e inserito in un contesto politico internazionale che nei dieci anni successivi sarebbe stato connotato da grande instabilità.
Il quinquennio che va dalla successione di L. III (vidimata dall'imperatore Federico III il 27 ag. 1445) al 1450 vide il nuovo marchese stipulare una serie di condotte - con Milano, Firenze e Venezia, con Napoli - che nel loro succedersi ravvicinato testimoniano l'agitazione dei tempi. Il 27 sett. 1445 L. III contrasse una lega settennale con Filippo Maria Visconti a carattere puramente difensivo; sin dall'estate del 1446, e in particolare dopo la sconfitta viscontea a Casalmaggiore del 28 settembre, entrò in trattative con Firenze e Venezia, tanto da negoziare con la prima una condotta come capitano generale delle truppe fiorentine con 400 lance e 300 fanti in tempo di guerra, 300 lance e 200 fanti in tempo di pace (18 genn. 1447).
L'intento di L. III era di assicurare la pace nel Mantovano, evitando a ogni costo che il Marchesato potesse divenire terreno di scontro o anche solo di passaggio degli opposti schieramenti veneti e viscontei. Nell'ambito di questa politica di salvaguardia dell'integrità del Marchesato stipulò nella primavera di quello stesso anno tregue e alleanze con i minori vicini emiliani, i da Correggio, i conti della Mirandola e Guido Torelli, conte di Guastalla.
La morte di Filippo Maria Visconti, avvenuta il 13 ag. 1447, giunse a complicare il quadro: a Milano, dove fu proclamata la Repubblica Ambrosiana, il fratello di L. III, Carlo, fu assoldato dai Capitani insieme con Francesco Sforza. In questa fase i rapporti fra i due fratelli, per quanto in campi avversi, furono aperti e relativamente buoni. Con la primavera del 1448 gli effettivi del marchese di Mantova vennero aumentati a 500 lance e 400 fanti. Gli scontri fra l'esercito sforzesco-milanese e quello veneto-fiorentino culminarono il 15 sett. 1448 nella battaglia di Caravaggio, in cui L. III fu costretto a darsi alla fuga. Dopo l'accordo di Rivoltella fra la Repubblica veneta e lo Sforza, L. III rientrò fra gli aderenti della Serenissima nei primi mesi del 1449; la posizione di rilievo del fratello in seno alla Repubblica Ambrosiana non impedì però a L. III di porre sotto la protezione di Venezia non solo se stesso, ma anche i suoi fratelli Carlo e Alessandro. La situazione si andava facendo sempre più confusa: mentre la posizione di Carlo a Milano diveniva difficile, L. III prendeva sin da luglio accordi con Alfonso d'Aragona, confermando nel novembre una nuova condotta al servizio del re. L. III divenne luogotenente generale delle truppe napoletane in Lombardia, con una condotta di 900 lance e 900 fanti e con 45.000 fiorini d'oro di prestanza, di cui 30.000 sarebbero stati pagati immediatamente dal re e 15.000 dalla Comunità di Milano; il re infine si impegnava a rispettare la neutralità del marchese verso la Serenissima. Nonostante il trattato fra Milano e Venezia del settembre 1449, si avvicinava l'epilogo dell'esperimento ambrosiano: lo Sforza era ormai padrone della situazione, e il 26 marzo 1450 fece il suo ingresso in Milano.
L'avvento al ducato di Francesco Sforza cambiò nuovamente i termini del quadro: nel novembre 1450 L. III concludeva con il nuovo duca di Milano la prima di una lunga serie di condotte in cui si impegnava al servizio di questo in caso di guerra con Venezia.
Ritroviamo alcune clausole ormai abituali negli accordi milanesi, ma ci sono anche alcune novità, fra le quali vanno annoverati sia la durata, maggiore dell'usuale, di tre anni di ferma più uno "di rispetto" sia, soprattutto, il fatto che si definirono le somme totali da retribuirsi al marchese (82.000 ducati di 54 soldi il ducato l'anno in tempo di guerra, 47.000 in tempo di pace), ma non venne chiarito il numero di gente d'arme che L. III si impegnava a mantenere in servizio. Al contrario, venne stabilito che il marchese si impegnava a servire il duca "cum la persona soa, le gente d'arme da cavalo et da pede et cum lo stato suo et del signor Alexandro suo fratello ad ogni rechiesta, petition et mandato de esso illustrissimo duca" (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 51, 1( nov. 1450): serviva cioè "a provvisione". Questa differenza si deve certo ricondurre a un moto più generale di semplificazione della struttura formale e dei termini delle condotte, ma da questo diverso aspetto traspare anche un nuovo significato di carattere politico e militare. Viene qui per la prima volta definita una condotta che è in realtà un patto di soggezione politica e di alleanza diplomatica fra soggetti di non pari rilievo, all'interno di un quadro in qualche modo meno mobile, e quindi meno aperto, rispetto ai decenni precedenti. In questo senso, il lungo marchesato di L. III segnò il definitivo mutare della specializzazione militare della dinastia, insieme con il definirsi, almeno sino agli anni Trenta del secolo successivo, delle dimensioni territoriali e della posizione politico-diplomatica del Marchesato nel contesto degli Stati italiani.
In un panorama così consolidato di rapporti, si pose immediatamente il problema rappresentato da Carlo Gonzaga: lo Sforza, non fidandosi di questo, lo fece arrestare e imprigionare a Binasco nei primi mesi del 1451. L. III si affrettò a garantire personalmente per il fratello, che venne liberato il 17 marzo, ma che, lungi dal restare a Cerano di Lomellina dove era stato confinato, riparava a Venezia e qui il 18 febbr. 1452 stipulava una condotta agli ordini della Serenissima. L. III, che si era impegnato a garantire la fedeltà di Carlo dietro la sicurtà di 80.000 ducati, si trovò nell'imbarazzo di dovere restituire tale somma allo Sforza (la questione del pagamento, dilazionato in otto rate da 10.000 ducati ciascuna, si protrasse sino al 1459). Questa vicenda segnò la fine dei rapporti amichevoli fra i due: L. III, che aveva ottenuto da Carlo il 20 marzo 1451 la cessione delle sue terre mantovane a garanzia del proprio impegno a rispettare i patti con lo Sforza, le annetté immediatamente al corpo centrale del Marchesato. L'ultimo episodio del conflitto fra Milano e Venezia, la guerra degli anni 1452-54, vide i due fratelli guerreggiare apertamente in territorio mantovano: Carlo, sconfitto nel giugno 1453, abbandonò il Marchesato e morì nel 1456.
La morte senza eredi di Gianlucido nel 1448 aveva già riportato sotto il diretto controllo di L. III Volta Mantovana, Cavriana, Rodigo, Ceresara e San Martino Gusnago: L. III nel giro di sette anni aveva recuperato quasi tutto il territorio controllato a suo tempo dal padre (il riaccorpamento divenne totale nel 1466, alla morte senza eredi dell'ultimo fratello, Alessandro).
La pace di Lodi (1454) segnò la fine dei conflitti aperti fra Milano e Venezia: la Lega italica che ne fu il frutto diretto aprì per Mantova un periodo di relativa stabilità nell'alveo di una alleanza milanese che se non si può definire del tutto serena, certo si mantenne salda per tutta la vita di Ludovico III. Nel periodo compreso tra il 1454 e il 1478, anno della morte di L. III, vennero stipulati i pacta Mediolani nel 1454, nel 1459, nel 1463, nel 1466 (quest'ultimo in realtà stipulato con il re di Napoli), nel 1470 e nel 1472. Fra gli obiettivi della Lega italica costituitasi all'indomani della pace di Lodi vi era anche la guerra contro i Turchi: Pio II, eletto papa nel 1458, indisse per l'anno successivo una Dieta dei principi cristiani, che si svolse a Mantova, il cui scopo era di organizzare la controffensiva della Cristianità e se possibile la riconquista di Costantinopoli.
La scelta di Mantova come sede venne a coronare la prudente politica di L. III, che si era mantenuto in equilibrio fra i poteri italiani, nonostante il necessario schieramento a fianco di uno dei protagonisti della scena politica italiana, il Ducato di Milano, e che, grazie ai propri legami dinastici, poteva vantare buoni e diretti rapporti con l'Impero e i Principati d'Oltralpe. La Dieta fu indetta per il 1( giugno 1459: il pontefice giunse in città il 29 maggio, accolto con sfarzo e giubilo.
Se per gli scopi di Pio II la Dieta doveva rivelarsi sostanzialmente fallimentare - specchio peraltro delle oggettive difficoltà nel decidere e promuovere concretamente un'azione coordinata degli Stati italiani ed europei contro i Turchi - per L. III essa rappresentò un rilevante successo personale. In quest'occasione infatti la città divenne per alcuni mesi (Pio II abbandonò Mantova nel gennaio 1460) una sorta di capitale europea in cui si radunarono i rappresentati dei maggiori potentati.
L. III approfittò delle relazioni strette in occasione della Dieta con molti alti prelati, nonché delle benemerenze acquisite agli occhi del papa, per portare avanti un progetto che gli stava molto a cuore, l'ascesa del secondogenito Francesco al cardinalato. A tale scopo, la marchesa Barbara gestì le trattative attraverso la mediazione del cardinale Niccolò da Cusa: grazie alle pressioni congiunte dello Sforza, dell'elettore Alberto di Brandeburgo, dello stesso imperatore, Francesco fu elevato alla dignità di cardinale diacono di S. Maria Nuova il 18 dic. 1461, nonostante qualche imbarazzo causato dalla sua giovane età (aveva soltanto 17 anni).
Per L. III si trattò di un evento foriero sia di prestigio sia di concreta autorità sugli enti ecclesiastici mantovani, anche se la gestione di questi ultimi provocò talora incomprensioni e scontri fra L. III e il figlio, preso a sua volta fra le logiche dinastiche, i suoi personali interessi e le regole proprie al mondo curiale. La nomina comportò un rafforzamento del controllo esercitato dalla famiglia sul mondo ecclesiastico mantovano: basti considerare che la città di Mantova non ebbe più un vescovo che non fosse un Gonzaga.
I primi anni Sessanta furono anni di grande peso per il Marchesato: superata la difficile congiuntura degli anni della successione al padre, L. III ebbe modo di organizzare la vita dello Stato grazie a un periodo di relativa stabilità e a entrate che, secondo un'oculata amministrazione delle spese, tornarono a crescere.
La struttura istituzionale venne precisandosi in un organigramma di uffici territoriali e cariche centrali sempre più articolato: la Cancelleria, grazie anche al controllo dell'attività diplomatica, divenne un organismo essenziale alla sopravvivenza e al funzionamento del Marchesato; il Consilium domini si trasformò in un vero e proprio Consiglio di giustizia; alla masseria del Comune, alla rettoria delle entrate e alle due tesorerie furono attribuiti compiti di prelievo e gestione delle risorse finanziarie della signoria, primi fra tutti i proventi delle condotte milanesi. La rete degli uffici territoriali si definì in una trama di 52 circoscrizioni territoriali minori.
Il rapporto fra il marchese e la società politica urbana crebbe nel segno di un sostanziale consenso di quest'ultima al programma di governo del primo, calibrato e prudente, ma non alieno da una costante e deliberata volontà di prestigio e di decoro. L. III infatti fu molto attento non soltanto agli equilibri politici, ma anche all'assetto della città e alle forme del vivere urbano e rurale. Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Settanta L. III diede vita a una serie di interventi di grande respiro sul tessuto urbano e nel territorio, nell'intento di riqualificare intere aree della città e di rinnovare, in ambiente rurale, il rapporto fra le corti agricole di proprietà della dinastia, le fortificazioni ereditate dall'età precedente, gli insediamenti rurali, la rete stradale e il reticolo di fiumi e canali nel segno di un più razionale e armonico rapporto fra lo sfruttamento agricolo e commerciale, le funzioni strategiche e difensive e il piacere residenziale.
In questo senso, L. III si dimostrò, come ebbero a scrivere i contemporanei, "gran fabricatore e intendentissimo di architettura" (Filarete), tanto da lasciare supporre agli studiosi non solo che si servisse con competenza di una nutrita schiera di architetti di valore, ma che egli stesso, come sappiamo dai carteggi, si dilettasse a "dessignare" colombaie, stalle e simili annessi rurali (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, 2100, 10.II.70) e talora progettasse edifici di ben più ampio respiro, come il palazzo di Revere. Ricapitolando rapidamente i principali interventi voluti da L. III nel territorio, sappiamo che a partire dal 1447 gli architetti e gli ingegneri gonzagheschi presero a lavorare al castello di Revere; dalla metà degli anni Cinquanta Bertola da Novate e Giovanni da Padova erano impegnati nella realizzazione del naviglio di Goito e della chiusa di Governolo; sempre nel 1461 si erano iniziati grandi lavori di ristrutturazione alla rocca di Cavriana e alle fortificazioni di Goito; a partire dal 1468 si lavorava al palazzo di Gonzaga e tra il 1470 e il 1475 alla residenza di Saviola.
A partire dalla fine degli anni Cinquanta (con la sola eccezione della costruzione del nuovo ospedale cittadino, nel 1450), in parte a causa, in parte in seguito alla Dieta che rivelò agli occhi di L. III la parziale inadeguatezza di Mantova rispetto al modello della città ideale incarnato da Firenze, L. III mise in opera una serie impressionante di interventi sul tessuto urbano.
Nel 1459 prese avvio il cantiere del S. Sebastiano su progetto presentato da Leon Battista Alberti a Mantova in occasione della Dieta, e Donatello fu esortato a dare compimento a un'arca dedicata a s. Anselmo patrono della città, cui lavorava da qualche anno; nel 1460 l'Alberti propose un progetto di riassetto della rotonda di S. Lorenzo; tra il 1459 e il 1461 fu elaborato il progetto di Antonio Ciaccheri per S. Andrea; tra il 1462 e il 1464 venne ristrutturato il palazzo del Podestà; nel 1470 l'Alberti preparò il progetto per S. Andrea, poi scelto da L. III; fra il 1470 e il 1473 fu risistemata l'area della ormai fatiscente casa del mercato ed eretta la torre dell'Orologio; alla fine degli anni Cinquanta le piazze centrali della città furono selciate. Si trattò di interventi di grande respiro volti da un lato a una generale riqualificazione del centro urbano medievale pur senza alterarne radicalmente l'assetto, dall'altro a riorganizzare gli spazi politici e di culto secondo un asse principesco preferenziale che unisse il polo medievale culminante nella residenza marchionale della civitas vetus e il nuovo polo rinascimentale rappresentato da S. Sebastiano. Il punto più alto della renovatio urbis è rappresentato dalla riedificazione del monastero benedettino urbano di S. Andrea. Trasformato il monastero in una prepositura di giuspatronato gonzaghesco, la prima pietra del nuovo edificio, destinano a custodire le reliquie dei Sacri Vasi di Cristo, fu posta il 12 giugno 1472.
L'attenzione del principe si rivolse contemporaneamente anche alla residenza, a quest'età costituita dai due blocchi contigui del palazzo del Capitano e della Magna Domus, cui alla fine del Trecento si era aggiunto verso il lago il castello di S. Giorgio, eretto da Bartolino da Novara.
Già nel 1458 in particolare quest'ultimo fu oggetto di profonde ristrutturazioni poiché L. III, in previsione dell'arrivo di Pio II cui venne lasciato il corpo centrale dei palazzi, decise di trasferirvisi. Già nei suoi primi anni di marchesato, L. III aveva inoltre dato seguito ai programmi iconografici intrapresi dal padre, e segnatamente al ciclo arturiano immaginato da Pisanello in palazzo; ma un tangibile cambiamento di gusto dovuto al soggiorno a Firenze in occasione della condotta fiorentina del 1447 (allorché L. III diede mano alla fabbrica della tribuna della Ss. Annunziata) spinse il marchese nei primi anni Sessanta ad affidare ad Andrea Mantegna il compito di affrescare gli ambienti del castello, destinato di nuovo alla residenza del signore.
Tra L. III e Mantegna era in atto sin dal 1456 uno scambio epistolare che condusse il pittore padovano a trasferirsi definitivamente a Mantova nel 1460. Nella storia dei rapporti fra il marchese e il pittore, il posto peculiare occupato dal ciclo di affreschi della cosiddetta Camera degli sposi sposta per così dire in secondo piano quella che in realtà va letta come una articolata e duratura storia di committenza, i cui frutti (destinati tanto alla residenza di città, quanto ai palazzi del contado), non sempre conservati, sono peraltro assai ben testimoniati dalle fonti coeve. Mantegna dovette occuparsi con ogni probabilità dapprima della cappella privata dei principi in castello, per la quale, secondo gli studi più recenti, ebbe a dipingere un ciclo decorativo su tavole di cui ci restano La morte della Vergine conservata presso il Museo del Prado di Madrid e probabilmente le tavole (Epifania, Circoncisione, Ascensione) che compongono il trittico degli Uffizi a Firenze, poi, a partire con certezza dal 1465 (ma un cenno contenuto nell'atto di fidanzamento fra Federico Gonzaga e Margherita di Wittelsbach stilato l'8 sett. 1462 potrebbe antedatare l'inizio dei lavori) sino almeno al 1474, della Camera dipinta, meglio nota come la Camera degli sposi. L'eccezionalità del ciclo decorativo di castello giustifica la mole degli studi che sono stati dedicati tanto alle sue fasi compositive, quanto alla sua lettura. Al di là delle diverse e varie interpretazioni di episodi, datazioni e personaggi, si trattò di un intervento pittorico di straordinaria intenzionalità, il cui significato di affermazione, politica e umanistica, raggiunta dalla dinastia mantovana risalta in modo inequivocabile: la famiglia di L. III nelle sue diverse dignità, ecclesiastiche e laiche, la corte mantovana e il panorama politico e geografico in cui i protagonisti si muovevano, da Mantova a Milano, sino a Roma, si dispiegano dinanzi agli occhi dei visitatori all'interno di una composizione complessa in cui al tono drammatico e realistico delle scene rappresentate sulle pareti fa da contraltare colto e distante il sapore classico, "antico", della volta, che si apre infine nella vivacità del tondo centrale.
I patti con Milano del 1459 ripresero i termini del 1454 per altri tre anni: erano questi gli anni della guerra per la successione di Ferdinando d'Aragona al padre Alfonso sul trono di Napoli, guerra cui lo Sforza partecipò al fianco dell'Aragonese contro il partito francese di Renato e di Carlo d'Angiò. L. III, nonostante la posizione di preminenza fra i condottieri, fece di tutto per non partecipare in prima persona alle ostilità: in questo senso, un significativo riconoscimento del ruolo sempre meno militare di L. III nel sistema sforzesco fu che venne creato, nella condotta del 1459, luogotenente generale del Ducato di Milano.
La luogotenenza, con i poteri civili sullo Stato milanese che comportava, dette alla condotta mantovana, e dunque al rapporto fra il marchese di Mantova e i duchi, un tratto peculiare e politico di salvaguardia e di consolidamento interno del Ducato, la cui importanza sarebbe emersa in particolare nei difficili momenti di malattia del duca Francesco o nelle successioni del 1466 e del 1476.
Nel 1463 L. III rinnovò la condotta milanese, ma si ritirò poco dopo dal suo incarico anche a causa della rottura delle trattative fra la corte mantovana e quella sforzesca in merito al previsto matrimonio fra Galeazzo Maria Sforza e Dorotea Gonzaga.
Nella prima condotta milanese del 1450 era stato deciso che il primogenito dello Sforza, Galeazzo Maria, avrebbe dovuto sposare una figlia di L. III, Susanna, nata nel 1447. Nel rinnovo della condotta del 1454 la clausola era stata riconfermata e, quando nel 1457 Susanna manifestò i primi segni di una malformazione alla spina dorsale, la prima figlia di L. III fu sostituita senza difficoltà dalla sorella Dorotea, nata nel 1449. Allorché a partire dal 1461 Francesco Sforza prese a considerare l'opportunità di un matrimonio più prestigioso per il primogenito, sulla scia di una serie di proposte ventilate dal re di Francia Luigi XI, dalla corte milanese furono avanzati dubbi anche sulla idoneità fisica di Dorotea: nel 1463 L. III ruppe perciò le trattative. In quello stesso anno, peraltro, giunse a maturazione un altro evento matrimoniale, vale a dire l'unione del primogenito di L. III, Federico, con Margherita di Wittelsbach, figlia di Alberto II il Pio, poi duca di Baviera, lontanamente imparentata con Barbara di Brandeburgo. Le nozze furono celebrate il 7 giugno 1463 e, insieme con i matrimoni di Barbara con Eberardo I duca di Württemberg nel 1474 e dell'ultimogenita, Paola, con Leonardo conte di Gorizia nel 1477, completarono il quadro delle alleanze germaniche dei Gonzaga, rinsaldando una trama di rapporti ormai fitta con i Principati tedeschi e con l'Impero.
Dopo la morte di Francesco Sforza, avvenuta l'8 marzo 1466, pur tentato da un'allettante offerta veneziana, L. III ratificò una condotta triennale con Ferdinando d'Aragona, grazie alla cui esplicita mediazione, egli, al soldo di quest'ultimo, si impegnava a operare a difesa del Ducato di Milano secondo le clausole delle precedenti condotte. La morte dello Sforza aveva infatti reso per il nuovo duca Galeazzo Maria una volta di più necessario il controllo della pedina gonzaghesca ai confini orientali. L. III dunque apparve come luogotenente dell'Aragonese in Lombardia e come aderente e collegato del Regno, del Ducato e della Serenissima nel rinnovo della lega nel 1468: nel 1470 i patti vennero stipulati direttamente con Galeazzo Maria, nei termini abituali.
Quest'ultimo rinnovo della condotta fu connotato, per espresso desiderio del marchese, da un alto livello di formalismo cerimoniale, reso necessario secondo L. III dai danni sofferti dalla sua reputazione nell'amara vicenda della rescissione del contratto matrimoniale di Dorotea, nonché da una lunga serie di vere o presunte mancanze milanesi in merito agli obblighi contratti dai duchi attraverso le condotte stipulate dal 1450; al rinnovo nel 1472 fu prevista anche una condotta propria per Federico Gonzaga, primogenito del marchese. Nel 1474 L. III figurò nel rinnovato patto di alleanza fra Milano, Firenze e Venezia, che sottoscrisse a Mantova il 18 novembre, come aderente del duca di Milano.
La posizione di L. III nel consesso degli Stati italiani era ormai consolidata. Allorché nell'estate del 1476 Niccolò d'Este, figlio del marchese Leonello e di Margherita Gonzaga, sorella di L. III - rifugiatosi alla corte mantovana dall'agosto 1471 a causa della successione ai domini estensi di suo zio Ercole - tentò di nuovo di impadronirsi con un colpo di mano di Ferrara, apparentemente con l'appoggio di L. III, questi sostenne la propria estraneità ai fatti: la sua buona fede fu creduta e la morte per decapitazione del nipote non compromise i rapporti fra Mantova e Ferrara. Di lì a poco, d'altro canto, L. III dovette occuparsi di questioni di ben maggior peso: nel dicembre del 1476 fu infatti assassinato Galeazzo Maria Sforza e L. III, per quanto in precarie condizioni di salute, mobilitò le sue truppe ai confini con il Ducato e accorse personalmente a Milano il 6 genn. 1477, contribuendo con la sua presenza a garantire la successione di Gian Galeazzo Maria sotto la reggenza della duchessa Bona di Savoia. L'autorità e il prestigio di L. III erano ormai fuori discussione: nel marzo del 1477 il marchese ottenne da papa Sisto IV l'onorificenza della Rosa d'oro. Poiché, come detto, versava in condizioni fisiche non buone alla fine dell'estate di quell'anno si recò alle terme per curare il riacutizzarsi di problemi alle gambe, di cui si hanno le prime notizie a partire dal 1468.
L. III aveva una consuetudine di lunga durata con le stazioni termali: si era recato infatti ai bagni almeno sette volte fra il 1438 e il 1477, prediligendo la stazione senese di Petriolo. In occasione del soggiorno del 1477 ebbe l'opportunità di dirimere in qualità di arbitro una disputa fra Lucca e Genova a proposito del castello di Pietrasanta.
Una pestilenza scoppiata nel Mantovano nel maggio del 1478 spinse L. III a rifugiarsi nel castello di Goito, mentre la marchesa con i figli si recò il 1( giugno nel borgo suburbano di San Giorgio: da lì accorse a Goito pochi giorni dopo per un malessere del marito. L'11 giugno Barbara scrisse ai figli di raggiungerla, perché le condizioni di L. III si erano improvvisamente aggravate: il 12 giugno 1478 il marchese morì a Goito, non di peste ma probabilmente di pleurite.
Attorno alle ultime volontà di L. III rimangono alcune ombre: per quanto secondo lo Schivenoglia avesse fatto testamento già nel 1472, l'atto non venne trovato e la marchesa Barbara, affermando di conoscerne il contenuto, procedette con i figli a dividere il Marchesato scorporando dal tronco centrale, destinato al primogenito Federico, gli appannaggi per i cadetti Francesco, Gianfrancesco, Rodolfo e Ludovico, in una divisione determinata dal desiderio di non creare pericolosi risentimenti fra i figli. Si trattò di uno smembramento che, contrariamente a quello compiuto trent'anni prima dal marchese Gianfrancesco, si sarebbe rivelato definitivo. Se da un lato può sembrare strano che L. III tornasse a dividere il proprio Stato, considerate la fatica compiuta per riaccorpare i territori dei fratelli e l'evidente necessità politica di non impoverire ulteriormente uno Stato che altro non era che "una spana de campagna" (Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, b. 2185, Gianfrancesco Gonzaga a Matteo Corradi, 7 genn. 1443), dall'altro la morte improvvisa di L. III e la rapidità degli atti di Federico e dei fratelli lasciano supporre che non si trattasse di un piano improvvisato in pochi giorni dalla marchesa e dagli eredi contro la volontà di Ludovico III.
L. III venne sepolto nel duomo di Mantova, con ogni probabilità nella cappella dedicata a S. Francesco. Egli lasciò dietro di sé il ricordo di un principe abile nelle armi, colto e prudente, ma soprattutto integro e leale, che poneva il proprio onore, la propria fedeltà agli impegni presi e il bene della sua casata e della sua città sopra ogni considerazione. Nella storia della dominazione gonzaghesca di Mantova, gli oltre trent'anni del suo principato rappresentarono, dopo un sessantennio di convulsi moti di guerra, una lunga fase di stabilità e una costruzione istituzionale e sociale la cui profondità ben si riflette nell'immagine urbanistica che ancora connota in modo distintivo la città.
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