DE DONATI, Ludovico (Alvise)
Ne sono sconosciuti l'anno e il luogo di nascita; le più antiche testimonianze documentarie a lui relative lo segnalano non ancora "magister" e quindi verosimilmente in età giovanile, attivo a Vercelli dove compare in qualità di testimone in due atti notarili (vergati il 23 apr. 1491) sottoscritti da Ismaele e Eliazaro Oldoni, entrambi pittori (Colombo, 1883, pp. 146, 392); i due rogiti definiscono il D. come originario di Milano e ne precisano la filiazione da un Giovanni di Marco da "Pamate" (toponimo ignoto ai repertori, cfr. D. Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1961).
Nei documenti e nelle opere, il nome del D. si trova latinizzato in due forme diverse (Ludovicus e Aluisius); queste varianti, ricorrenti nei documenti contemporanei (se ne veda la documentazione depositata presso il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana a Lugano), hanno fatto supporre a torto l'esistenza di due distinte personalità anagrafiche (Malaguzzi Valeri, 1902), sebbene già G. Colombo (1883, p. 85) ne avesse affermato l'identità (cfr. Thieme-Becker). Anche la supposta identificazione dei luogo d'origine (Montorfano; cfr. Monti, 1902, pp. 151 s.) poggia su di un improbabile riferimento al D. di "un'ampia pala d'altare con fondo d'oro e lembi in giro dorati" oggi irreperibile (Monti, 1902, p. 299), firmata da un Luigi da Montorfano e datata 1495, già nella chiesa di S. Giovanni Pedemonte a Como, di cui gli storici denunciarono all'inizio del secolo la vendita e l'esportazione (Malaguzzi Valeri, 1902, p. 245) Molto più convincente è invece la proposta di riconoscere in Giovanni di Marco, padre del D., il genitore anche di Francesco, Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio, scultori e intagliatori in legno (Romano, 1982, p. 115; cfr. Diz. biograf. degli Ital., s. v. De Donati [famiglia]), sebbene il nome dei quattro fratelli non compaia simultaneamente in nessuno dei documenti fino ad oggi noti.
Durante il periodo di attività vercellese, che si prolungò in modo discontinuo almeno fino al 19 nov. 1495 (Colombo, 1881, p. 12), il D. fu incaricato di eseguire un'ancona (perduta) per la cappella di S. Michele in S. Maria Maggiore (23 sett. 1494: Colombo, 1883, p. 393); l'opera, lasciata incompiuta dal D., sarebbe stata portata a compimento due anni più tardi da Eliazaro Oldoni, nella cui bottega il D. aveva iniziato il lavoro (Colombo, 1883, pp. 100 s.; Schede Vesme, 1982).
Le ragioni del mancato adempimento dell'incarico sono molto probabilmente da attribuire ad una crescita degli impegni contratti nella capitale lombarda dove il D., dapprima domiciliato nella parrocchia di S. Martino in Compito poi in quella di S. Giorgio al Pozzo Bianco e infine in quella di S. Paolo in Compito, appare a capo di una attiva bottega: il 15 luglio 1494 accettò in apprendistato per un periodo di sette anni un certo Bartolomeo de Barondis (Archivio di Stato di Milano, Rogiti Melchiorre Agrati, f. 3228); il 25 ag. 1497 assunse come garzone Gian Giacomo da Conigo (che rescinderà il contratto l'anno seguente: Biscaro, 1914, pp. 337 s.; Venturoli, 1982, p. 106); il 20 ag. 1499 sarà la volta di Giovanni Pietro di Locamo (denunciato nel 1501 per aver mancato agli impegni) che si impegnerà a lavorare per il maestro anche fuori dei confini del ducato sforzesco (Archivio dì Stato di Milano, Rogiti Melchiorre Agrati, f. 3331).
Sebbene la presenza del D. non sia attestata dai documenti notarili al di là del 1501, è molto probabile che il Pittore continuasse a risiedere in città per quasi tutto il primo decennio del Cinquecento: nel 1507 si definì infatti milanese nel polittico con la Madonna con il Bambino e santi della chiesa parrocchiale dei SS. Martino e Agata a Moltrasio (Como), e come tale firmava ancora nel 1508 l'ancona scolpita e dipinta con la Resurrezione di Lazzaro nella chiesa di S. Bartolomeo a Caspano (Sondrio). A partire da questa data, l'attività del D. sembra essersi svolta esclusivamente all'interno dei confini dell'ampia diocesi lariana dove il pittore doveva aver stabilito la propria bottega; dalla zona proviene probabilmente la Madonna con il Bambino e quattro angeli del Musee des beaux-arts di Lione, firmata datata 1510, di cui è sconosciuta la destinazione originaria (Dissard, 1912, p. 21). Per l'altare maggiore della chiesa di S. Benigno a Monastero di Berbenno (Sondrio) fu eseguito nel 15 12 il polittico, di cui rimane oggi il registro principale con la Madonna, il Bambino e i ss. Benigno e Defendente (?) al Museo diocesano di Sondrio; l'ultima menzione del maestro ormai defunto risale al 1534, allorché il pittore Sigismondo De Magistris acquistò a Como la casa già di proprietà del D. (M. Longatti, G. A. e S. de Magistris, pittori comaschi del sec. XVI, -in Riv. archeol. dell'antica provincia e diocesi di Como, 1968-69, nn. 150-151, p. 306).
La pala, eseguita nel 1507 per l'altare maggiore della chiesa parrocchiale di Moltrasio (ora collocata sul primo altare laterale di destra), è la più antica opera firmata del D.; essa include al centro l'Adorazione del Bambino e negli scomparti laterali, in due registri sovrapposti, i SS. Martino, Pietro e Paolo (a sinistra), e le SS. Agata, Marta e Maria Maddalena (a destra), ed è completata da una cimasa con la Trinità e da una predella con Dio Padre benedicente e gli apostoli (Monti, 1892); la scansione architettonica del polittico (in cui l'altezza dell'elemento centrale corrisponde approssimativamente a quella dei registri sovrapposti degli scomparti laterali), la qualità e la varietà degli intagli della cornice trovano una corrispondenza locale molto precisa nel retablo di Andrea de Passeris per la chiesa dei SS. Nazaro e Celso a Brienno (1508), che nulla esclude sia stato scolpito dalla medesima bottega di intagliatori; lo schema costruttivo di entrambe le pale, sostanzialmente estranee ai modelli proporzionali e prospettici più aggiornati (cfr. il polittico di Treviglio, di Butinone e Zenale per le parti dipinte, di Giovanni Ambrogio De Donati per la cornice scolpita, 1485-1491), si ispira ad una tipologia più antica, illustrata dalla pala di Foppa per Vincenzo de Fornaris (1489: Savona, Pinacoteca civica). L'impronta del pittore bresciano si riconosce d'altra parte nella stessa radice compositiva della Adorazione di Moltrasio, sebbene lo stile fappesco, classico e severo, appaia qui ingentilito dalla ricercata eleganza del disegno: una correzione stilistica forse suggerita dalla conoscenza delle opere del Bergognone (Porro, 1986, pp. 100 s.) cui sembrano ispirarsi la figura di s. Agata e quelle delle coppie di santi del registro superiore; nelle. tipologie facciali affiora infine una ruvida parafrasi di stilemi leonardeschi.
Il linguaggio del D. appare quindi intorno al 1507 sostanzialmente declinato su parametri milanesi anche se alcune originalità compositive, come la tenda appesa sullo sfondo delle tavole laterali, costituiscono una presenza piuttosto singolare nel contesto della pittura lombarda contemporanea. Assai difficile è riconoscere in questa fase del pittore un segno del suo più antico soggiorno vercellese e dei probabili contatti con la bottega di Giovanni Martino Spanzotti e del presunto Aimo Volpi (Romano, 1976); un ricordo dell'impianto spaziale del primo e delle forzature espressive del secondo contraddistingue tuttavia un frammento di tavola con l'Annunciazione e la Natività venduto all'Hôtel Drouot a Parigi (23 giugno 1921) che pare spettare al D. negli anni di poco posteriori al 1500 (Natale, 1979, p. 39; questa ascrizione contraddice l'ipotesi di Romano, 1982, pp. 112 s., che vede nel precoce bramantinismo dell'Adorazione del Bambino della Pinacoteca Malaspina di Pavia, n. 148, un possibile inizio dell'artista).
L'ancona del 1508 con la Resurrezione di Lazzaro nella chiesa di S. Bartolomeo a Caspano di Civo in Valtellina (Gnoli Lenzi, 1938, p. 97) è costituita da un altorilievo ligneo dorato e dipinto con la scena evangelica inserito in un grande arco scorciato a cassettoni di tipo bramantesco; il fronte di quest'ultimo è delimitato da due colossali colonne a candelabra che poggiano su due plinti dipinti con le figure di S. Bartolomeo e di S. Simonino. L'eccezionale impegno progettuale e tecnico di quest'opera, che in origine era protetta da due ante su tela dipinte anch'esse dal D. (l'Esegesi di s. Lazzaro e la Predica di Cristo alle ss. Maria Maddalena e Marta, conservate a Barcellona, collezione Cambò; Natale, 1979, p. 39; Venturoli, 1985, pp. 146 s. n. 25), è probabilmente legato alla committenza di Giovanni Maria Paravicini, nobile e colto curato di Caspano (Porro, 1986, pp. 108, 118 s.) che nella stessa chiesa avrebbe fatto eseguire anche la grande ancona scolpita con Storie di s. Bartolomeo (vedi sub voce De Donati [famiglia], in Diz. biograf. d. Ital.). Nonostante lo smagliante effetto d'insieme, non è arduo rilevare un certo squilibrio tra l'accurata policromia delle parti scolpite e le altre zone dipinte (oltre ai due santi già ricordati, l'Annunciazione nei tondi dei pennacchi dell'arco, una veduta di città fortificata sullo sfondo della scena principale e gli omati geometrici della cassa e dello zoccolo) che rivelano lo stile e la tipica tecnica corsiva del De Donati. Tali caratteristiche ricompaiono nelle due ante (oggi riunite) del Museo di Barcellona, dove le minute e cifrate figure sono collocate all'interno di un imponente e disadorno vano bramantesco. Sulla traccia dell'ancona firmata di Caspano, la critica ha assegnato all'artista un ruolo sia di pittore sia di scultore (Monti, 1902, p. 152; Gnoli Lenzi, 1938, p. 97); sarà tuttavia proprio il divario qualitativo tra le varie parti a dare credito alla proposta di B. Fabjan (1985, p. 46), secondo la quale le opere scolpite tradizionalmente riferite al D. (menzionato nei documenti solo in qualità di pittore) devono essere restituite alla bottega dei fratelli. La ripartizione delle rispettive competenze all'interno della famiglia non può tuttavia essere operata in modo meccanico, anche perché alcuni interventi pittorici nei rilievi lignei eseguiti dai fratelli (come le teste dei cherubini dipinte nella mandorla dell'Immacolata Concezione dell'ospedale di Vigevano: Fabian, 1985, pp. 45 s.; o le parti dipinte della cornice per l'Incoronata di Lodi: Venturoli, 1982, p. 108) non rivelano la mano del De Donati. Questi d'altronde sembra aver prodotto anche oggetti d'uso, come cofani dipinti (due di questi sono menzionati in un rogito del notaio Melchiorre Agrati, cfr. Archivio di Stato di Milano, f. 3331, 23 ott. 1500) e cassoni: tre frammenti con Il giudizio di Salomone, Il giovane che si rifiuta di colpire il cadavere del padre, La vestale Tuccia (già Vienna, collezione Lanckoronski) risalgono agli anni intorno al 1508 e rivelano un'esacerbata tensione espressiva, non priva di accenti butinoniani (Suida, 1936, p. 228; Natale, 1981, p. 13).
Ad un'epoca prossima all'ancona di Caspano risalgono inoltre il Compianto sul Cristo morto del Musée d'art et d'histoire di Ginevra (Natale, 1979), e la Madonna con il Bambino e i ss. Pietro e Giovanni Battista affrescata nel 1509 in S. Maria delle Grazie a Gravedona (Binaghi Olivari, 1982, pp. 23 s.), recentemente attribuiti al pittore; le grandi dimensioni della tavola di Ginevra e il ceto sociale della famiglia Curti, committente dell'affresco lariano, confermano il ruolo emergente assunto dal D. nell'area comasca allo scadere del primo decennio del Cinquecento. Le due opere costituiscono inoltre il momento di adesione più intenso alle tipologie leonardesche, percepite attraverso il diaframma formalizzante e quasi caricaturale di Bernardino de' Conti; nel Compianto l'articolazione delle figure attorno al gruppo centrale sembra inoltre in rapporto con rappresentazioni scolpite della Pietà (vedi in modo particolare quella di Agostino Fonduli in S. Satiro a Milano). Il forte aggetto prospettico dell'affresco di Gravedona mostra invece una più accentuata attenzione alle contemporanee esperienze dello Zenale e di Bramantino, che il D. recuperò anche nel definire gli scorci accigliati delle figure.
Nella tavola firmata e datata 1510 del Museo di Lione, il pittore adottò l'invenzione leonardesca della Vergine delle rocce riproducendo quasi testualmente il busto della Madonna, affiancata da due figure di angeli, che ripropongono schemi compositivi collaudati da Bergognone alla certosa di Pavia intorno al 1490. Nonostante l'aderenza alle fonti, il dipinto di Lione è "forse la sua opera più moderna e aggiornata" (Venturoli, 1982, p. 112): nell'impianto monumentale e nel capriccio inventivo delle esotiche figure di sirene che ornano le fiancate del trono, il D. mostra di guardare, oltre che alle livideformulazioni foppesche, alla produzione contemporanea degli scultori, da Giovanni Angelo Del Maino a Tommaso Rodari.
L'ultima opera firmata e datata 1512, eseguita per l'altare maggiore della chiesa di S. Benigno a Monastero di Berbenno (ora a Sondrio, Museo diocesano), raffigura la Madonna con il Bambino e i ss. Benigno e Defendente (?) all'intemo di una cornice scandita da tre ampie arcate; l'inconsueto sviluppo orizzontale della pala, priva di cimasa, non corrisponde probabilmente alla realizzazione originaria, ma consente di cogliere con maggiore chiarezza la virata in senso naturalistico operata dall'artista; essa si traduce nell'ampio sviluppo del paesaggio contro il quale si ergono le figure, secondo un rapporto compositivo già sperimentato da Zenale nel polittico per i francescani di Cantù (1502: Natale, L'ancona..., 1982), e nella ripresa di motivi dúreriani, noti tramite le incisioni (Porro, 1986, p. 169): una miscela stilizzata ed esile che con minime varianti ricompare nella Madonna in trono con il Bambino e quattro santi, già in S. Maria Annunziata di Breno a Visgnola (Como), attribuita senza margine di incertezza al D. (Porro, 1986, pp. 175-81). Qui le tre tavole sono incluse nel registro centrale di una monumentale macchina a tre piani (trafugata nel 1984), completata con Storie di S. Giovanni Battista, Crocefissione e santi dovute ad artisti diversi (per uno di essi è stata proposta l'identificazione con Sigismondo De Magistris: Monti, 1902, pp. 330-32; M. Longatti, A. e S. de Magistris..., 1968-1969, pp. 292 s.). L'intervento del D. a Visgnola conclude, intorno al 1515, una parabola produttiva coerente; altre attribuzioni, formulate dagli storici, non sembrano, allo stato attuale degli studi, pienamente convincenti. Esse includono l'ancona dell'oratorio.di S. Pietro Martire a Caiolo (Natale, 1979, p. 39), le tavole con S. Marta e S. Maria Maddalena (Chambéry, Musées d'art et d'histoire), il Beato Jacopo Filippi e il Beato Francesco da Siena (Williamstown, Mass., The Williams College Museum of Art; Porro, 1986, pp. 90-96), gli affreschi nelle vele della cappella dell'organo alla Madonna del Sasso di Morcote (Natale, 1979., p. 39), il Martirio di s. Sebastiano (Parigi, Musée Jacquemart-André; Longhi, 1953, p. 294 n. 1), il Cristo incoronato di spine (Princeton, Princeton University Art Museum; Longhi, 1928). Altri riferimenti sono oggi inverificabili: già Milano, collezione Lucini Passalaqua, dieci mezze figure di Santi (Catalogue..., 1885); già (?) Moltrasio, oratorio di S. Agata, tabernacolo (Gallino, 1966, p. 131 n. 16); già Parigi, restauratore Stepanof, Compianto su Cristo morto (Suida, 1936).
I dati documentari e la ricostruzione di un attendibile catalogo del D. consentono di riconoscere in lui un personaggio nua indifferente nella trama intricata, e ancora oggi poco esplorata, dei rapporti artistici sviluppatisi tra il Piemonte orientale e le zone limitrofe della Lombardia nei decenni a cavallo del 1500; questa particolare congiuntura ebbe come protagonisti, sul versante vercellese, il presunto Aimo Volpi e su quello dei laghi il Maestro di S. Rocco a Pallanza (P. Astrua, Gli affreschi dell'oratorio di S. Rocco a Pallanza, in Ricerche sulla pittura del Quattrocento in Piemonte, Torino 1985, pp. 175-87), l'anonimo autore della Natività della Pinacoteca Malaspina a Pavia (n. 116), sorprendentemente affine agli inizi del D., e Andrea de Passeris di Tomo (Coppa, 1985, p. 112). Rispetto a quest'ultimo, portatore di un'aspra cultura latamente spanzottiana e zenaliana, il D. appare il diffusore in area lariana di un linguaggio formalmente più controllato, ma anche più esile, appannato nelle sue opere più tarde dalla ricerca di uno stile eletto e a la page.
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