DALL'ARMI, Ludovico
Nacque a Bologna nel secondo decennio del sec. XVI da Gaspero, ricco mercante cittadino insignito della dignità senatoria, e da Aurelia Campeggi, sorella del cardinale Lorenzo.
Nel 1539, a causa di un omicidio da lui commesso, il D. dovette fuggire da Bologna e riparò a Siena.
La città versava già da molto tempo in condizioni di grande instabilità politica, dilaniata al suo interno dalle lotte di fazione; questa situazione, unita alla sua posizione strategica di passaggio obbligato sulla via che collegava il Nord con Roma, aveva inevitabilmente risvegliato gli appetiti delle due potenze in lotta in quel momento per il predominio sull'Italia: la Francia e l'Impero. A ciò si aggiungevano, a complicare la situazione, le mire espansionistiche del duca di Firenze e le manovre papali per alimentare lo scontento dei Senesi per il regime vigente che, sotto le apparenze repubblicane, aveva trasformato la città in un vero e proprio protettorato imperiale.
Giunto a Siena, il D. entrò al servizio di Alfonso Piccolomini, duca di Amalfi e governatore della città per conto dell'imperatore. Ben presto il D. acquisi grande familiarità con Giulio Salvi, capo del partito filoimperiale e fino a quel momento grande amico dei Piccolomini.
Il Salvi, pur essendo ancora in quel momento arbitro incontrastato della situazione politica senese, temeva di perdere il favore imperiale e di essere messo in disparte in occasione della discesa in Italia dell'imperatore. Poiché il D., che aveva trascorso qualche tempo in Francia, si vantava di avere potenti relazioni in quella corte, il Salvi pensò di renderlo partecipe del suo progetto di aganciarsi dal partito imperiale e di cacciare da Siena la guarnigione spagnola che presidiava la città e lo stesso Piccolomini, con l'aiuto militare dei Francesi, cui avrebbe messo a disposizione il forte di Porto Ercole, comandato dal fratello.
Il D. decise allora di recarsi a Roma per prendere accordi in questo senso con l'ambasciatore francese, ma, per rientrare in territorio pontificio senza essere molestato per i suoi trascorsi, si arruolò nelle truppe che Pier Luigi Farnese, figlio del papa, andava ammassando per sottomettere i ribelli Colonna. A Roma tuttavia i suoi maneggi con l'ambasciatore francese non passarono inosservati, tanto che l'inviato imperiale presso la corte pontificia, marchese d'Aguilar, fu ben presto messo al corrente di tutta la trama e poté a sua volta informarne il Piccolomini. Quest'ultimo, tuttavia, nella sua cieca fiducia per il D., non volle credere alle informazioni ricevute da Roma e quando il D. tornò a Siena in compagnia del Monluc, segretario dell'ambasciatore francese, invece di farlo arrestare, gli mostrò la lettera dell'Aguilar e credette alle sue smentite, fino al punto di rispondere all'Aguilar che le sue informazioni erano false. Vistosi scoperto, il D. si affrettò a lasciare il territorio senese. L'episodio sarebbe rimasto quindi privo di conseguenze per il D. se il duca di Firenze non avesse pensato di approfittame per mettersi in luce agli occhi dell'imperatore e, contemporaneamente, far cadere in disgrazia il Piccolomini.
Con una lettera all'imperatore, Cosimo de' Medici si offrì pertanto di far arrestare tanto il D. che i fratelli Salvi, approfittando delle non rare occasioni in cui essi attraversavano i suoi Stati per i loro traffici. L'imperatore, tuttavia, acconsentì a far arrestare il D., ma ordinò di non molestare i Salvi. Così il 18 luglio 1541 il D. veniva fermato a Montevarchi dagli sbirri del duca di Firenze e di lì tradotto nella capitale, ove fu rinchiuso nella fortezza da Basso.
Nella fortezza, in quel periodo in mano agli Imperiali, il D. rimase prigioniero per circa un mese, interrogato dal comandante spagnolo juan de Luna, cui egli rivelò i dettagli della congiura (i verbali dell'interrogatorio si conservano nell'Archivio di Simancas). Si era intanto diffusa la notizia secondo cui il duca di Firenze intendeva condurre con sé il D. nel suo viaggio a Genova, ove si sarebbe incontrato con l'imperatore; pertanto il padre del D. non mancò di lanciare un accorato appello al Medici perché al figlio venisse usata clemenza. Tale appello non rimase inascoltato e il D. fu ben presto lasciato libero.
Dopo aver inutilmente offerto i suoi servizi all'imperatore stesso, il D. entrò, nell'estate del 1544, al servizio del re d'Inghilterra. Enrico VIII progettava di servirsi di lui in Italia, sia per reperire soldatesche da utilizzare nelle campagne militari, sia per ricevere informazioni sugli affari italiani. Per assolvere a questi incarichi il D. fissò la sua residenza a Venezia (il cui governo era fedele alleato del re d'Inghilterra), ove giunse tra gli ultimi giorni del mese di dicembre 1544 ed i primi del successivo. Da Venezia egli effettuava frequenti viaggi nelle città venete di Terraferma ed in altri luoghi dell'Italia settentrionale, allo scopo di reclutare soldati per il re d'Inghilterra.
Questi traffici attirarono sulla Serenissima le accese proteste sia del re di Francia (in quel periodo in guerra contro l'Inghilterra) sia del papa. Quest'ultimo in modo particolare era indignato contro il D.: essendosi diffusa la notizia che il D. era stato assoldato da Enrico VIII con lo scopo preciso di attentare alla vita del cardinale Pole, uno dei tre legati pontifici al concilio di Trento, quest'ultimo si rifiutava di partire da Roma, intralciando con il suo ritardo l'inizio dei lavori del concilio. Il papa si adoperò in tutti i modi per convincere il governo veneziano ad espellere il D., ma, non essendovi riuscito, fece arrestare il padre del D., facendolo rilasciare solo dopo il pagamento di un'ingente cauzione. Rassicurato da queste misure preventive ed accompagnato da una scorta armata, il Pole partì finalmente per Trento, ove di lì a poco avrebbero dovuto cominciare le sessioni del concilio.
Nelle sue scorribande nell'Italia settentrionale e nei non rari viaggi in Inghilterra, il D. si fermava talvolta a Trento, ospite dei cardinale C. Madruzzo; ciò suscitava le rimostranze dei legati pontifici, soprattutto del Pole e del Del Monte; quest'ultimo lamentò addirittura di essere stato pubblicamente insultato dal Dall'Armi.
La presenza a Venezia del D., con la sua compagnia di uomini armati, procurava imbarazzi sempre più numerosi al governo veneto; finché, nell'agosto del 1545, egli si rese protagonista di un grave episodio di violenza nella città stessa.
Mentre girava nottetempo per la città, armato di tutto punto (cosa proibita dalle leggi veneziane), era stato fermato ed interrogato dal capitano di polizia Giovanni della Moneda, in normale servizio di perlustrazione; invece di rispondere alle sue domande, il D. ed i suoi uomini lo avevano assalito con le armi in pugno ed avevano anche ucciso uno degli uomini della sua squadra. Alcuni dei compagni del D. furono arrestati, mentre quest'ultimo si mise in salvo con la fuga. Il Consiglio dei dieci approvò prontamente una mozione favorevole all'arresto ed all'interrogatorio, mediante tortura, di tutti i presunti colpevoli. Il re d'Inghilterra fece sapere successivamente (28 sett. 1545) che avrebbe ritenuto l'attuazione di quelle misure gravemente lesiva del suo onore e delle relazioni di amicizia esistenti tra i due Stati, ma una deliberazione dell'11 agosto aveva già annullato gli effetti di quella precedente e reso la libertà ai detenuti.
Pochi giorni dopo tuttavia si diffuse nella città la notizia di un nuovo misfatto compiuto dagli stessi protagonisti: il ferimento a Treviso del conte Curio Bua; uno degli aggressori era stato subito arrestato e, sottoposto ad interrogatorio, aveva rivelato essere il D. il vero mandante dell'agguato. Questa volta la Signoria veneta era ben determinata ad impedire al D. di rimettere piede sul suo territorio.
Intanto il D., fuggito da Venezia e diretto in Inghilterra, si era fermato a Bruxelles, ove, il 31 agosto, si recò a casa dell'ambasciatore veneto in corte imperiale, Bernardo Navagero. A quest'ultimo il D. fornì la sua versione dei fatti (aveva assalito il capitano Giovanni della Moneda scambiandolo per uno dei suoi molti nemici ed aveva progettato il ferimento del Bua per punirlo di aver tradito il re d'Inghilterra) e ne richiese l'intercessione presso il governo veneto perché gli fosse concesso di tornare a Venezia. La stessa versione dei fatti fornì presumibilmente ad Enrico VIII, il quale non mancò nemmeno in questa occasione di esercitare pressioni, sul governo veneto in favore del Dall'Armi.
Poiché la sentenza di bando contro quest'ultimo era già stata pronunciata dal tribunale veneziano e non poteva essere revocata senza violare le leggi in vigore, il re chiese per il D. un salvacondotto di cinque anni, affinché potesse tornare a Venezia e portare a termine i suoi incarichi. Una mozione diretta ad accogliere la richiesta del re d'Inghilterra fu più volte respinta dal Consiglio dei dieci, ma infine prevalse il timore di eventuali ritorsioni contro i mercanti veneziani operanti in Inghilterra e il govemo veneziano decise obtorto collo di concedere al D. il salvacondotto richiesto.
Nel marzo del 1546 il D. fece quindi ritorno a Venezia e riprese i suoi viaggi nelle città dell'Italia settentrionale; questa volta però il governo veneziano seguiva attentamente le sue mosse, pronto a sfruttarne il minimo errore per liberarsi definitivamente della sua scomoda presenza.
Allo scopo di reclutare truppe per il re d'Inghilterra e per convincere Luigi Gonzaga, signore di Castelgoffredo, ad entrare al servizio dello stesso re, il D. si avvicinò anche, nell'aprile 1546, ai confini del ducato di Mantova, suscitando le preoccupazioni del reggente, il cardinale Ercole Gonzaga. Quest'ultimo informò l'imperatore di misteriosi movimenti di truppe, capeggiate dal D., presso i confini mantovani, ma l'imperatore, che ormai conosceva molto bene il D., rispose di non dare troppa importanza alla cosa, dato che il D. era "uorno vano" e per nulla pericoloso.
Nel mese di novembre del 1546 avvenne l'episodio che doveva essere fatale al D.: l'uccisione a Ravenna dei nobile veneto Maffeo Bernardo, che la Signoria veneziana era in procinto di colpire col bando e confisca dei beni, avendo rivelato all'ambasciatore francese segreti di Stato.
L'esecutore materiale del delitto si costituì spontaneamente, in seguito alla promessa di impunità fattagli dal Consiglio dei dieci, e ri elò che tale assassinio gli era stato commissionato dal D., in accordo con i nipoti dell'ucciso. Questa volta il governo veneziano era determinato a liberarsi definitivamente del D., ma, per evitare spiacevoli conseguenze, decise di porre al re d'Inghilterra la seguente alternativa: o permettere ai Veneziani di procedere in via di giustizia contro il D., oppure sostituirlo immediatamente con un altro agente, più rispettoso delle leggi veneziane. Il D. si presentò spontaneamente in tribunale per essere interrogato, ma le sue dichiarazioni ambigue fecero ben poca luce sulla vicenda; tuttavia egli fu lasciato libero, in attesa della decisione di Enrico VIII.
Il re tardava a rispondere, ma intanto si diffondevano voci secondo cui il D. non godeva più del suo favore; queste voci, unite alle notizie sempre più insistenti secondo cui il re era gravemente malato, indussero il governo veneziano a deliberare, in data 24 genn. 1547, l'arresto immediato del Dall'Armi. Egli era nel frattempo fuggito a Milano, ove, il 6 febbraio, mentre mascherato si recava ad una festa, fu arrestato.
Il motivo occasionale dell'arresto era stato il fatto che il D. si aggirava travestito, senza servi né cavalli, per la città, ma poi, riconosciuto da uno spagnolo, era stato lasciato in carcere per ordine del governatore, dato che egli era stato in precedenza bandito da tutte le province dell'Impero. Fu in seguito trasferito a Guastalla, in attesa che l'imperatore, informato dell'arresto, decidesse della sua sorte. Quando la notizia dell'arresto del D. giunse a Venezia, il governo veneto cominciò subito ad esercitare pressioni sia sul governatore di Milano sia sullo stesso imperatore per ottenerne l'estradizione. Ottenuto infine il consenso dell'imperatore, il D. fu condotto, sotto potente scorta armata, a Venezia, dove giunse il 29 apr. 1547. Inutili erano stati i tentativi messi in atto dal padre del D. per impedire tale estradizione, nella convinzione, rivelatasi esatta, che se il figlio fosse stato condotto a Venezia, non avrebbe avuto scampo.
Interrogato in carcere dai magistrati veneziani sull'assassinio del Bernardo, il D. dichiarò di avervi svolto un ruolo di semplice intermediario tra i nipoti dell'ucciso - decisi ad impedire con tale assassinio che la famiglia fosse colpita sul piano morale dal bando e su quello materiale dalla confisca dei beni già deliberati contro lo zio - e l'esecutore materiale, certo Campana. Nonostante tali giustificazioni e gli appelli lanciati in varie direzioni dai suoi familiari, il D. fu condannato alla pena di morte. Fu decapitato a Venezia il 14 maggio 1547.
Fonti e Bibl.: Archivo General de Simancas, Secretaria de Estado, legajos 1.194 n. 87; 1.318 110, 41, 72, 65; 1.463 n. 29: 1497 lib. E 79 n. 8; Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del Principato, f.353, cc. 146, 170, 292; Ibid., ms. 755, n. 8; Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English Affairs... in the Archives... of Venice..., a cura di R. Brown, V, London 1873, ad Indicem; Calendar of Letters, Despatches and State Papers... in the Archives at Simancas, VIII, London 1904, ad Ind.; J. Ranieri, Diario bolognese, Bologna 1887, pp. 48, 97, 105; Conciliu Tridentinum diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, ed. Soc. Goerresiana, Friburgi Br. 1901, pp. 3, 7, 10, 86, 115, 142, 182, 194, 443, 446, 812; C. G., L. D., in Arch. trentino, XIV (1898), pp. 83-96; G. Spini, Cosimo I e l'indipendenza del principato mediceo, Firenze 1941, pp. 261 ss.