LUDOVICO da Fabriano (Ludovico di ser Romano)
Nacque con ogni probabilità verso il 1335, a Fabriano, da ser Romano di Benincasa di Pucciolo, notaio e funzionario comunale, come si ricava da un testamento, steso di suo pugno il 26 sett. 1363, e da un successivo instrumentum del gennaio 1368 che lo include tra i membri del Consiglio cittadino. Ser Romano risultava ancora vivente il 4 dic. 1382, allorché il notaio Donato di Bentivoglio registrò un pagamento di 13 fiorini che egli aveva saldato al fabrianese Pace di Andreuccio di Giovanni.
Le notizie relative a L. fornite dalle fonti storiografiche e documentali, quanto mai accidentali e lacunose, non consentono di ricostruirne compiutamente la biografia e, in particolare, la formazione giuridica e letteraria: interessanti informazioni, tuttavia, si possono trarre dai registri ufficiali e dai protocolli notarili, da lui sottoscritti e autenticati con il signum tabellionis. È merito dello studioso fabrianese Sassi aver segnalato, mediante un accurato vaglio delle testimonianze archivistiche locali risalenti alla seconda metà del XIV secolo, diversi dati, non sempre definitivi, ma in ogni caso utili per fare chiarezza sulle vicende personali di L. durante la sua permanenza nella città natale.
Legato da vincoli di parentela con i Chiavelli (nel 1382 la sorella Nicolosa sposò Bartolomeo di Gualtiero, nipote di Guido Chiavelli detto anche Guido Napolitano, signore di Fabriano), L. esercitò in patria per almeno sette anni, dal 19 apr. 1358 al 15 ag. 1365, la professione notarile, già tramandata nella famiglia da più generazioni. Pure a quel medesimo torno di tempo L. lavorava alle dipendenze della Cancelleria comunale e signorile: parecchi suoi atti, riguardanti la patrimonialità chiavellesca, nonché le relazioni politico-diplomatiche dei signori di Fabriano con le altre casate marchigiane, furono emessi dalla residenza dei figli di Tomasso Chiavelli, oltre che dal palazzo dei Priori. Negli anni successivi, probabilmente nel 1365-67, L. si trasferì a Città di Castello. È possibile supporre, nonostante il silenzio delle fonti, che la sua partenza dalla terra natia fosse dovuta non tanto a questioni politiche e all'instabilità del potere chiavellesco, quanto all'esigenza di fare carriera altrove, nell'entourage di un podestà o in un Comune di notevole prestigio. In ogni caso il 2 ott. 1367 L. non risiedeva più a Fabriano, poiché Alberghetto e Giovanni Chiavelli con alcuni loro congiunti, essendo intenzionati a cassare un precedente contratto di cessione, da lui rogato il 3 ag. 1363, delegavano Vico di Crescimbene da Fabriano di recarsi fuori città, presso L., e ottenere il suo benestare.
A Città di Castello L. ricoprì l'incarico di notaio delle Riformanze e di cancelliere del Comune e partecipò attivamente alle vicende che portarono la sottomissione del potere locale al vicario pontificio Pandolfo Malatesta, arbitro di una tregua nelle annose rivalità tra i Tifernati e i Perugini (7 ag. 1368). Il 20 ottobre, nella sala maggiore del palazzo podestarile, L. prese parte come pubblico ufficiale alla redazione dei capitoli di concordia che il vescovo Buccio, nominato procuratore dei Tifernati, stipulò con papa Urbano V, per definire il governo cittadino e ottenere da Brancaleone (II) Guelfucci, capo della fazione guelfa e acerrimo nemico di Perugia, la cessione del cassero di Città di Castello. Le mansioni di L., quale notarius Reformationum et cancellarius Comunis, sono inoltre attestate in una bolla papale del 13 febbr. 1369 che riproponeva ad litteram gli accordi siglati dalle autorità ecclesiastiche con il Comune umbro.
Il 1( marzo 1369, divulgata la bolla di Urbano V per istrumento di L., Pandolfo Malatesta, già signore di Città di Castello, ricevette ufficialmente l'investitura del cassero. Proprio in quegli anni (1368-69) L., entrando in contatto con l'ambiente culturale malatestiano strettamente legato all'umanesimo italiano e, in particolare, a Francesco Petrarca e a Coluccio Salutati tramite amichevoli scambi epistolari, conobbe Francesco da Fiano. Tra i due, quasi coetanei e spinti da un autentico amore per le lettere vivificato nell'esercizio dell'attività pubblica e in relazione con il Malatesta, si instaurò un sincero affetto oltre che una vicendevole stima, apertamente espressa in una lettera, non datata (ora a Venezia, Biblioteca naz. Marciana), che il fianese inviò a L.: nel compiangere la lontananza dell'amico, Francesco affermava che egli era sempre presente nel suo animo ed elogiandone le capacità letterarie, lo sollecitava a sperimentare il proprio ingegno (Schizzerotto, pp. 13-15).
Null'altro si sa dei rapporti di L. con Francesco da Fiano; pure la recente riscoperta di un'epistola di anonimo indirizzata a L., contenuta nel codice C della Bibliothèque de la Ville di Lione (cc. 211v-215r) ed edita con i necessari emendamenti da G. Schizzerotto, non aggiunge molto alle notizie in nostro possesso: l'amico che scrive a L. non ha, dunque, un nome e può essere soltanto collocato nell'ambiente culturale dell'Italia centrale.
Forse L. ebbe anche occasione di incontrare nel circuito intellettuale malatestiano l'umanista e segretario pontificio Francesco Bruni. Fu, infatti, su informazione di questo che il 1( dic. 1371 da Avignone papa Gregorio XI spedì una missiva al "dilecto filio Ludovico de Fabriano cancellario Civitatis Castelli", ringraziandolo dei servizi prestati in favore della Chiesa.
A Perugia, nei giorni immediatamente successivi all'eccidio di Cesena (3 febbr. 1377) compiuto da mercenari bretoni e inglesi al servizio del cardinale legato Roberto di Ginevra (il futuro antipapa Clemente VII), L. compose la Tragedia quedam de casu Cesene, un'opera che oltre al valore letterario possiede la qualità di testimonianza storica coeva ai fatti narrati.
Nelle scene dialogate, che narrano il terrifico massacro di migliaia di Cesenati (le fonti storiche sono al riguardo piuttosto discordanti) a seguito di un'insurrezione avvenuta nella città romagnola contro il governo papale, l'autore denuncia con forti accenti ghibellini le crudeli azioni commesse sotto l'egida di un pontefice assente (Gregorio XI) e anela all'indipendenza comunale dal potere temporale della Chiesa e dei suoi vicari, coinvolti personalmente nelle esecuzioni delle stragi. È possibile che nella pratica delle funzioni burocratiche L. abbia sviluppato un atteggiamento laico e ostile nei confronti dell'auctoritas pontificia, soprattutto quando, di fronte all'evidenza d'inaudite violenze attuate per volere degli stessi legati apostolici - è il caso dell'eccidio cesenate -, era scemata presso i poteri locali la fiducia nell'amministrazione ecclesiastica.
Ignoriamo, a causa del silenzio delle fonti, quali altri incarichi di pubblica responsabilità L. abbia poi ricoperto per conto delle istituzioni comunali; neppure lo spoglio sistematico e capillare della documentazione tardotrecentesca conservata presso l'Archivio di Stato di Perugia ha consentito di aggiungere altri dati biografici certi su di un personaggio che per un determinato periodo dovette comunque risiedere, e probabilmente anche morire, nel capoluogo umbro. Sulla base di questa carenza di notizie, la morte di L. si porrà con qualche incertezza, e solo per via congetturale, attorno all'ultimo ventennio del XIV secolo.
Notaio, burocrate e umanista, L. viene considerato dalla recente critica letteraria uno degli esponenti di rilievo nella vita culturale tardotrecentesca, per aver recuperato dal mondo classico e moderno la tragedia profana, fino a quel momento relegata nell'ombra da altri generi narrativi più diffusi nella prassi compositiva (il tipo epistolare, l'elegia ovidiana, il trattatello storico in prosa, in esametri e in altri metri). Per questo la Tragedia quedam de casu Cesene, la quale per i suoi stessi contenuti oltre che per i suoi modi espressivi chiari e sobri ben si prestava alla lettura e alla comunicazione sociale, non fu portata in scena; e ciò non fu tanto per i limiti insiti nel testo, quanto per la mentalità culturale vigente, che ha posticipato la sua fortuna. La cortina di silenzio che circonda l'opera di L., appena mossa da qualche segnalazione di copisti locali che la tramandano in un limitato ambito di memorie patrie, fu sollevata nel Cinquecento quando il cesenate Antonio Casari riscoprì il De casu Cesene dopo quasi due secoli di oblio. Tuttavia la prima edizione della tragedia risale solo al 1858 a opera di G. Gori che, confutando le attribuzioni a Petrarca, inaccettabili per discrepanze cronologiche, e a Salutati, documentate da una parte della tradizione manoscritta (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Gaddiano, XCIII plut. XC. inf. 13, cc. 29r-32r; Milano, Biblioteca Ambrosiana, A. 118. inf., cc. 151r-152v; Roma, Biblioteca Corsiniana, Accademia dei Lincei, Fondo Rossi, 241 [33. E. 23], cc. 86r-91r), la assegna a un anonimo scrittore. Spetta, invece, a F. Novati il merito di aver individuato in L. il vero autore del testo cesenate: egli, infatti, rintracciò nel codice della Biblioteca apostolica Vaticana (Chigiano, H.IV.111, cc. 99v-101v) contenente la tragedia trascritta verso il 1470-75 da Pietro di Giovanni Nardi di Sant'Angelo in Vado, copista di Federico da Montefeltro, la seguente sottoscrizione: "Hoc fecit ser Lodovichus de Fabriano, anno domini MCCCLXXVII in civitate Perusii", che tolse ogni ombra di dubbio sulla paternità e sulla datazione dell'opera.
Una pregevole edizione critica della tragedia, presentata anche in traduzione italiana, è stata condotta nel 1969 dallo Schizzerotto, il quale, esaminando con rigore filologico tutta la tradizione manoscritta e le fonti classiche e moderne riprese da L. (in particolare Virgilio, la Bibbia, Seneca, Cicerone, Salutati, i testi giuridici), offre un'agevole e aggiornata chiave di lettura del testo, la cui presenza nella storia letteraria testimonierebbe soprattutto l'impegno civile dell'autore.
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, Reg. vat., 263, c. 294v (1( dic. 1371); Carte diplomatiche fabrianesi, a cura di A. Zonghi, Ancona 1872, pp. 303 s.; R. Sassi, Le pergamene dell'Archivio domenicano di S. Lucia di Fabriano, Ancona 1939, pp. 83, 90; Id., Documenti chiavelleschi, Ancona 1955, pp. 8, 21-31, 55; Lettres secrètes et curiales du pape Grégoire XI (1370-1378) intéressant les pays autres que la France, a cura di G. Mollat, I, Paris 1962, p. 61 n. 435; G. Muzi, Memorie civili di Città di Castello, I, Città di Castello 1844, pp. 167-179; De eccidio urbis Caesenae anonimi auctoris coaevi comoedia, a cura di G. Gori, in Arch. stor. italiano, n.s., 1858, t. 8, parte 1a, pp. 3-37; F. Novati, Un umanista fabrianese del secolo XIV: Giovanni Tinti, in Arch. stor. per le Marche e per l'Umbria, II (1885), pp. 135-146; R. Sassi, Il vero nome del notaio fabrianese autore del De casu Caesenae, in Atti e memorie della Deput. di storia patria per le Marche, s. 6, II (1942), pp. 149-155; Id., L'anno della morte di Alberghetto II Chiavelli, ibid., III (1943), p. 6; R. Weiss, Il primo secolo dell'umanesimo, Roma 1949, p. 94; R. Sassi, L'albero genealogico dei Chiavelli signori di Fabriano, in Atti e memorie della Deput. di storia patria per le Marche, s. 9, XI (1956), pp. 18 s.; G. Schizzerotto, Teatro e cultura in Romagna dal Medioevo al Rinascimento, Ravenna 1969, pp. 11-68; J. Robertson, Cesena: governo e società dal sacco dei Bretoni al dominio di Cesare Borgia, in Storia di Cesena, II, Il Medioevo, a cura di A. Vasina, 2, Rimini 1985, pp. 6 s.; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, p. 360.