CONTI, Ludovico
Nacque a Padova probabilmente intorno al 1450, in una delle più antiche e illustri famiglie della città, quarto dei figli maschi di Nicolò e di Margherita Lisca. Nel 1468 quando morì il padre, era minorenne; per questo motivo era rappresentato dai fratelli Antonio e Bernardino quando il 21ott. 1469 questi giurarono fedeltà al vescovo di Padova per ottenere la reinvestitura dei feudi decimali già concessi a Nicolò. Nel 1472 si recò a Ferrara, insieme a Naimieto, per ottenere dal duca Ercole, anche a nome di Bernardino, la reinvestitura di quella parte dei feudi della famiglia la cui giurisdizione apparteneva agli Estensi. Nel 1484, quando fu, per la prima volta. ammesso al Consiglio della città, aveva già lasciato l'avita dimora nel quartiere del duomo dove continuavano a vivere i fratelli. Fu eletto consigliere per la contrada di Ponte Molino. È possibile che tale trasferimento coincidesse con il matrimonio con Alessandra Calza. Nel 1486, però, era "consiliarius" per il duomo, e così pure nel 1487 e nel 1490 (in quest'ultimo anno compare nell'"additio"); nel 1496 fu invece eletto per il Ponte Molino.
Forse questi spostamenti furono suggeriti da esigenze patrimoniali o da strategie politiche del gruppo familiare: come cadetto, il C. non aveva i titoli e i poteri del primogenito Naimiero (alla morte di questo, tali prerogative passeranno a Bernardino o, in parte, a Nicolò, figlio di Naimiero), ma divise con i fratelli la difesa gelosa della ricchezza familiare e il potere all'interno della città. Si alternava con loro sui banchi del Consiglio padovano, talvolta infrangendo la regola che vietava la presenza contemporanea di consanguinei: infatti nel 1496, mentre il C. rappresentava il Ponte Molino, Bernardino era consigliere per il duomo.
Nel 1489 il nome del C. compare fra quelli degli otto "milites Communis". Venne sorteggiato per espletare il mandato tre anni più tardi, il 7 dic. 1492. Sembrava continuare così la tradizione militare della famiglia, gloriosa, ma, ora, mortificata; in realtà gli si aprivano solo prospettive organizzative e burocratiche al servizio di Venezia: dopo la conquista veneziana solo il potere amministrativo (e pure questo limitato) era rimasto all'oligarchia padovana.. Come i fratelli, il C. partecipò a tale potere per varie elezioni: nel 1492 e nel 1503 era "deputato ad utilia"; nel 1501, fra i quattro "sindaci". Nel 1505 chiese al Consiglio di poter. rimandare la sua partenza per Arquà, di cui era stato nominato vicario. Non sappiamo se in seguito abbia ricoperto la carica.
La ricerca storiografica ha sottolineato come, dietro la deferenza e la fedeltà ufficiali, il dominio veneziano fosse sentito con particolare fastidio dalla nobiltà padovana all'inizio dei nuovo secolo. Le cause congiunturali del contrasto erano dovute ai provvedimenti fiscali della Repubblica, pressata fra il 1499 e il 1503 dalle spese della guerra contro il Turco, che cozzavano con gli interessi dell'aristocrazia fondiaria. Il C. nei primi anni del secolo svolse una significativa attività d'oratore spesso proprio accanto a coloro che saranno, come lui, fra gli artefici del passaggio di Padova agli Imperiali nel 1509.
Nel 1501 fu con Alberto Trapolin a Venezia per una causa apparentemente minore, ma molto importante per la vita econoniica del Territorio. Si tentava, cioè, di avere la possibilità di "tagliar roveri" (Bonardi, p. 321) nel Padovano: una libertà che la Repubblica, preoccupata di avere abbondanza di legno per le sue costruzioni navali, aveva da tempo tolta.
Ricevuti dal doge il 16 febbraio, furono invece invitati a sollecitare la Comuffità al pagamento del pesante contributo imposto alle città soggette per far fronte alla guerra con l'Oriente. Se tale richiesta aveva trovato renitente il gruppo dirigente padovano, essa aveva avuto pure risonanze interne profonde. Era annoso (e risorgeva con violenza in caso di contribuzioni forzate) il dissidio fra i grandi latifondisti, che si ostinavano a formulare le loro denunce nell'estimo urbano di Padova, e i contadini e i piccoli proprietari del territorio che per tale prassi si vedevano costretti a versare somme enormi.
Il C. venne coinvolto direttamente nel dissidio quando nel 1506 era delegato alla riforma dell'estimo, ma già da alcuni anni i problemi dell'estimo e della proprietà terriera con la questione della "rotta Sabadina" erano divenuti virulenti. Nel 1503 Venezia voleva aprire una "bocca" del Po nel Padovano per salvare il Polesine dalle frequenti alluvioni; i grandi proprietari, e cioè la nobiltà, compresero immediatamente che tale progetto, esponendo il territorio alle inondazioni, avrebbe assestato l'ultimo colpo alla loro già scossa solidità economica. Fu perciò inviata alla Repubblica un'ambasceria solenne per numero e prestigio dei rappresentanti. Fra i prescelti è il C., che già il 29 genn. 1501, con Pataro Buzzacarini e Bertucci Bagarotto, era stato inviato in Polesine "ad defensioneni iurium comunitatis" (Atti Consiglio, vol. 12, c. 112v). Bertucci Bagarotto pronunciò l'8 marzo la solenne orazione davanti al doge cercando di far valere le ragioni della Comunità, ma il giorno dopo gli oratori erano rimandati a Padova senza una risposta e, nonostante varie vane promesse, la minaccia dell'allagamento delle proprie terre incombeva ancora sull'aristocrazia padovana allo scoppio della guerra della lega di Cambrai.
Durante tutta la crisi, il C. era destinato ad assumere un ruolo di primo piano. Dopo la rotta di Agnadello, il 2 giugno 1509, fu scelto fra i Sedici destinati a reggere Padova durante l'emergenza. Il giorno dopo essi rifiutavano l'ingresso all'esercito veneziano; secondo testimonianze contemporanee il C. era uno dei tre gentiluomini inviati a Vicenza per invitare Leonardo Trissino a venire a prendere possesso della città in nome di Massimiliano. Il 24 giugno era chiamato a un'altra ambasceria: a Trento, presso l'imperatore, per confermargli la dedizione e chiedere la confisca dei beni veneziani in territorio padovano.
La richiesta, come precisa Giacomo Da Lion nell'orazione, non era ispirata dal desiderio, da parte del gruppo dirigente, di ricostituire nella loro integrità i possessi aviti, ma piuttosto, invece, di potere, pagato il tributo imperiale, con quella fonte di ricchezza, rialzare le sorti dello Studio. È palese, dunque, il desiderio da parte del ceto dirigente, di ridonare, in nome d'una gloriosa tradizione culturale, una fisionomia autonoma alla propria città, attraverso la riconquista del potere politico. Non a caso, dopo la consegna al Trissino, la Comunità si nomina "Repubblica padovana", quasi a sottolineare la volontà dì ritornare a quelle libertà medievali che l'autorità imperiale aveva di fatto rispettate. Proprio in questo periodo, i documenti sottolineano accanto al nome del C. il titolo di cavaliere "noviter" (Sanuto, IX, col. 359) creato dall'imperatore.
Quando, però, il 17 luglio, i Veneziani, capeggiati dal Gritti, entrarono nella città, il gruppo dirigente filoimperiale si disperse. Il C. decise di resistere e seguì insieme a due altri soli nobili (i fratelli Alberto e Roberto Trapolin) il Trissino e i suoi fedelissimi che si rifugiarono nel palazzo del capitano e da qui nel castello. Era un'impresa disperata, dettata probabilmente ai tre padovani dal desiderio di morire gloriosamente, fedeli alle tradizioni della "loro" nobiltà. Il destino del C. è assai più tragico per la mentalità del tempo. Nella notte la città fu data al saccheggio: oggetto principale, i palazzi aristocratici. La casa del C. fu vuotata, come tutte le dimore della famiglia, d'ogni bene. Il giorno dopo il Trissino negoziava la resa, chiedendo salva la vita per sé e i commissari dell'imperatore: abbandonava i Padovani alla discrezione della Repubblica. Il C. e i suoi coffipagni, dopo un giorno passato in ceppi nella corte del palazzo del capitano, vennero inviati a Venezia ove, durante la notte, furono condotti in carcere e sottoposti alla tortura. Il 30 ottobre il C. fu giudicato. La grande maggioranza dei giudici era convinta della sua colpevolezza (ventidue favorevoli, uno contrario, sei astenuti); con un debole scarto di voti passò, invece, la pena di morte (sedici a favore, tredici astenuti).
È già un sintomo di quell'imbarazzo diffuso nel patriziato veneziano verso una condanna capitale, che appare chiaro, dopo la esecuzione, nelle cronache e nelle storie: il C., infatti, aveva legami di parentela con la famiglia veneziana dei Soranzo. Sua sorella Nicolosa aveva sposato in seconde nozze Troilo Soranzo; nel 1510 il figlio di lei, Iacopo, chiede ed ottiene il pagamento di 65 ducati annui proprio sui beni confiscati dello zio.L'esecuzione fu, comunque, rimandata per motivi politici: si sperava di recuperare le altre città e in particolare Verona prima di dimostrare quanto Venezia fosse implacabile verso le aristocrazie "sorelle". Quando si comprese che la ricostituzione dell'intero dominio era lontana il destino dei condannati precipitò. Il 28 novembre i Dieci stabilirono che la sentenza fosse eseguita il 1°dic. 1509.
Vastissima fu l'eco di tale avvenimento: accanto al prestigio irresistibile dell'autorità dell'imperatore crollava il "mito" che fra i privilegi dei nobile fosse l'impunità o, quanto meno, il rispetto dell'integrità fisica. Questi uomini, abituati a decidere del destino altrui, si trovavano a incontrare la morte, non come eroi in battaglia, secondo le tradizioni avite, ma, conosciuto il loro destino, "per dui avogadori, a guisa de' ladroni" (Da Porto, Lettera 37), erano impiccati come ribelli. Un gruppo dirigente era, dunque, costretto a dimostrare, dopo secoli di potere, la propria vulnerabilità. Tale sconvolgimento delle tradizioni colpi l'opinione pubblica; è sintomatico come tutte le testimonianze (compresi i Diarii del Sanuto) sottolineino lo sgomento dell'immensa folla che assisteva allo spettacolo. Il passaggio dagli splendori passati all'"oscura morte" (lettera di Da Porto, 37) è visualizzato. I quattro condannati (insieme al C., Alberto Trapolin, Bertucci Bagarotto e Giacomo da Lion) sfilarono con "l'habito di tela negra con la croce rossa et il lazo al collo". Il C. fu il secondo a morire e uno dei più smarriti: "era perso: disse poche parole". Prima di salire sul patibolo il da Lion gli rivolse un significativo incoraggiamento: "Andé da valente cavalier" (Sanuto, IX., coll. 358, 359). La fedeltà agli antichi ideali cavallereschi era dunque la forza invocata per affrontare dignitosamente una morte decretata da una "moderna" nobiltà che al "mito" dell'unità imperiale sostituiva ormai le esigenze accentratrici dello Stato moderno.
La tragica fine del C., la confisca dei suoi beni, resa esecutiva il 23 febbr. 1510, e la fuga di fratelli e nipoti, segnano apparentemente la caduta definitiva della gloriosa gens.
Forse solo le due figlie del C. non furono direttamente coinvolte nella sciagura: nel 1509 dovevano essere già uscite dalla casa paterna: Faustina per il matrimonio con Gerolamo Borromeo; Livia invece aveva sposato un non identificato appartenente al suo stesso gruppo familiare. Come tutte le mogli dei ribelli, la vedova del C. fu costretta a chiedere, per poter vivere, un sussidio sui beni del marito; mentre i figli Bartolomeo e Paolo si rifugiarono a Trento presso l'imperatore e qui vissero del sussidio imperiale. Quando nel 1517 Venezia concesse l'amnistia ai ribelli di cui non era stata provata la colpevolezza, Bartolomeo e Paolo furono esclusi come tutti i congiunti dei quattro condannati a morte. Solo nel 1529poterono tornare definitivamente a Padova; mentre Bartolomeo, segnato dalle vicende dell'esilio e senza eredi, si ritirava a vita privata accanto alla moglie Laura Cumana, Paolo "fù singolar essempio della cattiva, e buona sorte" (Salici, p. 190).
Con il solo aiuto della modesta liquidazione sui beni assegnata ai fuorusciti riuscì, nel giro di qualche decennio, a ricostituire buona parte del patrimonio familiare. Interessanti sono i mezzi che utilizzava: da una parte si serviva delle bonifiche per sfruttare al massimo i terreni ereditati dalla dote della madre: si associò cosi a quel gruppo di patrizi sia padovani sia veneziani che iniziarono, soprattutto nella seconda metà del sec. XVI, a sfruttare le proprie terre con mentalità imprenditoriale. In tal senso si era mosso pure il C. che nel 1506aveva stipulato un consorzio con Francesco Cavalli. Per accumulare ricchezza, Paolo, però, ricorse soprattutto alle vecchie tradizioni feudali: riuscì a ricomprare dai Malipiero e dai Pisani, per lo stesso prezzo, a cui li avevano venduti il padre e gli altri congiunti, buona parte dei feudi della famiglia, appellandosi all'istituto del fidecommesso. Un'accorta politica matrimoniale, nei riguardi dei due figli Antonio e Alberto, completò la ricostituzione del patrimonio. Nonché estinta, la famiglia Conti, dalla seconda metà del sec. XVI in poi conobbe un nuovo periodo di splendore: economico, feudale (Paolo ottenne la reinvestitura dall'imperatore nel 1551) e culturale. Per le nozze di Alberto di Paolo con l'unica figlia di Sperone Speroni, entrarono nel lignaggio dei Conti il prestigio e le ricchezze di costoro. La famiglia coronò la sua nuova ascesa nel 1667 quando ottenne, con il versamento di 2.500 ducati d'oro (di cui 2.000 in contanti) l'ingresso nel Maggior Consiglio.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Padova, Arch. civico antico, Atti del Consiglio, vol. 10, cc. 145r, 213v; vol. 11, cc. 151r, 188r, 218v, 243r, 292r; vol. 12, cc. 112v, 157v; Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci. Lettere, filza 16, lettera 398; filza 12, lettera 639; Padova, Museo civico, Mss. B. p. 575, Mem. sopra... Conti, pp. 50 ss. e passim;Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. 299 C, passim e in partic.: pp. 137, 155-182, 192, 203-213, 217, 235, 241, 249, e alberi geneal. a stampa; Ibid., Mss. Correr, 1108, pp. 429-432; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII. 73 (= 7765), c. 15; Ibid., Mss. It., cl. VII, 81 (= 7304), Cronica Bemba, t. II, c. 292v; Ibid., Mss. It., cl. VII, 129 (= 8323): Cronaca veneta attribuita al Patriarca Gio. Tiepolo ab N. C. fino al 1538, c. 233v; Ibid., Mss. It., cl. VII, 583 (= 8815), Cronaca Barba, c. n. n.; Ibid., Mss. It., cl. VII, 2246: Lettere di Mr. Alvise da Porto gentilhuomo vicentino, lettera 37; La obsidione di Padua del 1509: Poemetto contemporaneo, a cura di A. Medin, Bologna 1892, p. 19; G. A. Salici, Historia della fam. Conti di Padova, di Vicenza et delle discendenti da essa con l'Albero. Raccolta da diversi scrittori antichi e moderni, Vicenza 1605, passim, e in particolare, pp. 185, 188-199; M. Sanuto, Diarii, IV, VIII, IX, XI, XX, XXIII, XXVII, Venezia 1880-1890, ad Indices;A. Bonardi, I Padovani ribelli alla Repubblica di Venezia... Studio storico..., Venezia 1902, passim;I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974, pp. 369-376.