BIRAGO, Ludovico
Nacque a Milano nel 1509 da Cesare e da Laura Francesca Della Torre. Fu educato al mestiere delle armi, come voleva la tradizione della famiglia che, nel corso dei secoli XV e XVI, dette numerosi valenti condottieri prima agli Sforza e poi alla Francia. Cresciuto in ambiente famigliare fortemente compromesso per spirito di fazione con i Francesi, il B. si trasferì ancora giovanissimo in Francia, dove iniziò la sua carriera militare al servizio di Francesco I. Il suo nome compare nei documenti per la prima volta nel 1536, quando, riapertosi il conflitto franco-asburgico con l'occupazione francese del Piemonte, il B. vi fu mandato al seguito di un parente, un cavalier Birago non meglio identificato, che conduceva duemila fanti.
Nel dicembre dello stesso anno fece le sue prime esperienze di capitano, partecipando al seguito di un altro suo parente al servizio francese, il colonnello Marcantonio Cusani, a un duro scontro con gli imperiali tra Cavour e Villafranca. Morto il Cusani, il B. assunse il comando del distaccamento, sgominò gli imperiali togliendo loro nove bandiere, e riportò i suoi uomini sani e salvi a Torino. L' episodio ebbe una certa risonanza e fruttò al B., ancora in giovane età, la nomina a colonnello. Troppo giovane ancora per avere un comando, il 27 dic. 1536 fu messo da Francesco I alla testa di una compagnia, ma insieme con il cavalier Birago. Nel corso della campagna del 1537 in Piemonte si qualificò ancora meglio come abile e audacissimo capitano: assaltò di notte e prese Verolengo, affrontò gli imperiali tra San Germano e Santhià e quindi a Chivasso. Conclusa il 16 nov. 1537 la tregua generale di Monzon, il B. restò con le truppe francesi in Piemonte, dove lo raggiunsero i riconoscimenti di Francesco I che il 26 apr. 1538 lo nominò suo scudiero e nel maggio gli fece pagare la somma di 600 libbre (lire). Interrotta la tregua nel 1542, il B. ebbe il comando di quattro compagnie di cavalli leggeri, alla testa delle quali nell'agosto dello stesso anno sconfisse un corpo di Albanesi e conquistò Verrua. L'anno successivo, nominato nel gennaio governatore di Chivasso e Verolengo, partecipò alla riconquista di Carmagnola e si distinse per ardite iniziative che fruttarono ai Francesi la conquista di San Germano, di Santhià e di varie altre cittadine minori. Nel 1544 si spostò a Trino e a Ivrea che non riuscì a togliere al marchese del Vasto, e alla testa di cinquemila fanti si ricongiunse con il grosso dell'esercito francese impegnato nell'assedio di Carignano. Il 14 aprile partecipò alla battaglia di Ceresole e vi restò gravemente ferito.
Alla fine della guerra, conclusa con la pace di Crépy del 18 sett. 1544, il B. si era ormai conquistato un posto di grande prestigio nell'esercito francese e negli anni successivi passò da un riconoscimento all'altro: il 12 nov. 1545 Francesco I lo nominò suo consigliere e gentiluomo ordinario e il 15 ag. 1546 gli accordò una nuova condotta d'armi. Il successore di Francesco I, Enrico II, gli confermò le cariche di corte il 25 maggio 1547, e nel maggio del 1548 lo nominò "luogotenente del signor Pietro Strozzi delle fanterie italiane in Piemonte".
In questa occasione il B. si recò a corte, e nel corso del soggiorno parigino entrò in contatto con l'ambasciatore cesareo Simon Renard, dichiarandosi pronto a passare al servizio imperiale e a fare passi in questo senso presso il cugino Renato Birago, in quel momento presidente del Parlamento di Torino. Promise anche di consegnare le due città di Chivasso e Verolengo, delle quali era governatore. Il 3 genn. 1549 Carlo V scrisse da Bruxelles al Renard, annunciando di avergli già spedito 2.000 scudi da impiegare nel servizio di spionaggio e autorizzandolo a versarne 200 al Birago. Questo passo del giovane condottiero può sembrare strano, se si considerano la sua posizione nell'esercito francese e i suoi rapporti con la corte, ma il B., irrequieto ed ambizioso, era convinto di non avere mai avuto i riconoscimenti effettivamente meritati e seguiva facilmente i suoi impulsi avventurosi, senza farsi eccessivi scrupoli. La documentazione disponibile non consente di seguire lo svolgimento delle trattative con il Renard. È certo tuttavia che il B. lasciò cadere l'iniziativa, salvo poi a riprenderla, a più riprese, ma sempre con lo stesso esito negativo, nel corso di tutta la sua fortunata carriera al servizio della Francia. Nella decisione di interrompere le trattative con gli imperiali dovette comunque avere il suo peso una pensione di 1.000 lire tornesi, concessa al B. nel 1549 da Enrico II.
Nel 1551, alla ripresa della guerra, il B. ritornò in primo piano: nel giugno era in Piemonte, governatore di Chivasso e Verolengo e colonnello generale degli Italiani, in assenza di Piero Strozzi impegnato nella guerra di Parma e della Mirandola e poi in quella di Siena. Il supremo comando dell'esercito francese era stato assunto da Charles de Cossé maresciallo di Brissac, presso il quale il B. conquistò subito grande influenza e autorità. Nell'autunno l'esercito francese iniziò le ostilità e il B. propose subito al Brissac un colpo di mano su San Benigno, importante piazza presso Volpiano. L'assalto venne eseguito con rapidità e precisione: San Benigno cadde in mano al B. e la guarnigione fu passata a fil di spada.
Un piano ben altrimenti importante propose il B. al Brissac allo scadere dell'anno: si trattava di prendere il castello di Milano con un sensazionale colpo di mano. Il progetto si basava sul tradimento di un gentiluomo senese residente a Milano, che, in ottimi rapporti col castellano spagnolo Juan de Luna, aveva offerto di agevolare l'impresa con la sua conoscenza degli uomini e dei luoghi. Il Brissac, entusiasta del piano, mandò un uomo di fiducia a corte per ottenere il consenso del re, che arrivò di lì a poco. Nel gennaio del 1552 il piano entrò così in azione: il B. si recò, passando per la Svizzera, nel Bergamasco, e tenendosi nascosto in una cascina fece passare a gruppetti di cinque alla volta cento soldati scelti fra i più coraggiosi, che la notte dell'ultimo giorno di carnevale si trasferirono a Milano sotto il comando di uno dei più arditi capitani francesi, il Salvoyson. La scalata delle mura del castello non riuscì perché le scale di corda risultarono troppo corte: il Salvoyson e i suoi uomini finirono così col richiamare l'attenzione delle guardie spagnole che li sorpresero nel fossato. Il gentiluomo senese e poi anche il Salvoyson furono catturati, mentre il B., pronto ad accorrere a Milano alla testa di quattromila uomini, si salvò con la fuga. La delusione dei Francesi fu grandissima, ma il tentativo, anche se fallito, colpì la fantasia dei contemporanei e contribuì con la sua audacia ad accrescere le simpatie per la Francia.
Ritornato in Piemonte, nell'estate del 1552, il B., insieme con il Bonnivet, duemila uomini, sei cannoni e due colubrine, assediò e prese Verrua, da dove poteva controllare il corso del Po da Chivasso a Casale. Le sorti della guerra volgevano ormai decisamente a favore dei Francesi, ma il B. e i suoi fratelli Carlo e Girolamo si sentivano "forte mal satisfati", probabilmente perché mal pagati. Nella primavera del 1553 Ferrante Gonzaga, governatore dello Stato di Milano, ebbe sentore del loro disagio e cercò di approfittarne. Mandò in Piemonte il fratello del B., Giovanni Antonio, noto come il protonotario Birago, che si muoveva abitualmente tra Milano e il Piemonte facendo la spia per gli Spagnoli. Le trattative avviate dal Gonzaga si trascinarono per mesi, ma senza approdare ad alcun risultato. Se non si decise ad abbandonare i Francesi, il B. non mostrò tuttavia per parecchio tempo quella ricchezza di iniziative che caratterizzava la sua condotta militare. Nel novembre del 1553 partecipò fiaccamente alla sorpresa di Vercelli e dovette passare quasi tutto il 1554 perché tornasse all'antico impegno: nel dicembre uscì finalmente dall'inazione e con milleduecento fanti e quattrocento cavalli assaltò e prese Ivrea insieme con il Bonnivet. Poco dopo propose al Brissac, senza riuscire a convincerlo, una audace impresa in pieno territorio nemico.
Il 1555 vide i maggiori successi militari del Birago. Già nel dicembre del 1554 egli aveva proposto in un consiglio di guerra di fortificare Santhià, punta avanzata dello schieramento francese in Piemonte e probabile obiettivo di una offensiva spagnola che egli riteneva imminente. La previsione risultò perfettamente confermata: nell'agosto del 1555 il duca d'Alba, il quale aveva assunto il supremo comando dell'esercito spagnolo di Lombardia, pose l'assedio a Santhià. La città, difesa dal B., con l'aiuto del Bonnivet prima e poi del fratello Carlo, accorso da Chivasso, resistette splendidamente al bombardamento degli Spagnoli. La resistenza di Santhià fu un vero capolavoro di arte militare che permise a poche migliaia di uomini di tenere in scacco l'intero esercito spagnolo di Lombardia. Il 21 agosto, dopo tredici giorni di inutile bombardamento, il duca d'Alba, furente, tolse l'assedio e iniziò la ritirata che si trasformò ben presto in una cocente disfatta. Per il B. fu un vero trionfo. Imbaldanzito dal successo di Santhià, l'esercito francese passò al contrattacco e prese l'importante piazzaforte di Volpiano. Il B. non volle riposare sugli allori: il 20 ottobre tese una imboscata agli Spagnoli presso Gattinara riportando una nuova vittoria. Intanto il 1º ott. 1555 Enrico II lo aveva nominato cavaliere dell'Ordine di S. Michele e governatore di Santhià.
Ai primi di marzo del 1556 il B. conseguì un nuovo successo a Gattinara che era stata ripresa dagli Spagnoli. Conquistò facilmente la città, difesa da un debole presidio spagnolo, e vi lasciò un piccolo presidio di soli sessanta fanti, fingendo di ritornare col grosso dei suoi uomini a Santhià. Si appostò invece a quattro miglia da Gattinara, aspettando un ritorno in forze degli Spagnoli, che arrivarono infatti di lì a poco. Si trattava di otto compagnie di fanteria italiana, una di Tedeschi, due di cavalleria leggera e tre pezzi di artiglieria, al comando di due noti condottieri italiani, il Trivulzio e il Sacco, che iniziarono subito l'assedio di Gattinara senza sospettare minimamente la presenza del B. nei dintorni. L'8 marzo il B. attaccò: con una mossa fulminea introdusse metà dei suoi uomini a Gattinara, prese gli assedianti tra due fuochi e li sbaragliò prima che arrivasse un grosso corpo di cavalleria mandato in aiuto dal marchese di Pescara. Il Sacco restò gravemente ferito e morì un mese dopo. Lo stesso giorno della vittoria del B. fu estesa anche al Piemonte la tregua di Vaucelles.
Le ostilità non tardarono a riaprirsi e nel settembre del 1556 il B. propose un attacco in grande stile in Lombardia difesa da deboli forze spagnole, anziché intervenire nel Sud, dove il duca d'Alba il 4 settembre aveva passato il confine dello Stato della Chiesa. Il piano sembrò al Brissac troppo rischioso e fu respinto. Il B. ne approfittò per recarsi a Parigi, dove l'8 ott. 1556 partecipò a una solenne festa dell'Ordine di S. Michele, del quale era membro, alla presenza del re.
Solo nel gennaio del 1557 i Francesi si decisero a una nuova offensiva in Piemonte nel corso della quale il B. organizzò un nuovo colpo di mano su Milano, che fu però stroncato sul nascere. La battaglia di San Quintino, vinta il 10 ag. 1557 da Emanuele Filiberto, tolse anche all'esercito francese del Piemonte ogni seria possibilità di iniziativa, cosicché la guerra si trascinò stancamente fino alla pace, firmata a Cateau Cambrèsis il 3 apr. 1559.
La conclusione della pace senza alcuna clausola a favore dei fuorusciti lombardi deluse e indignò i Birago, ai quali si ponevano ora seri problemi di sistemazione: l'esercito francese ormai smobilitava a ritmo accelerato e solo pochi contingenti dovevano restare in Piemonte a presidiare il marchesato di Saluzzo, rimasto in possesso della corona di Francia, e le cinque piazze di Torino, Pinerolo, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti, affidate temporaneamente alla sua custodia. Per i Birago si trattava di conservare il soldo della Francia e di restare in Piemonte, dove per la stessa vicinanza dello Stato di Milano potevano godere di una libertà di movimento impossibile altrove. Alla corte di Parigi la posizione del B. era piuttosto forte, non solo per il prestigio acquistatovi in tanti anni di brillante condotta militare, ma anche per l'influenza che vi esercitava il cugino, Renato Birago, in seguito gran cancelliere di Francia, e il 20 ag. 1559 gli fu conferita la carica di luogotenente generale del duca di Guisa in Piemonte, che comportava l'effettivo governo del marchesato di Saluzzo.
L'alta carica in Piemonte non soddisfece tuttavia completamente il B. che sondò altri governi nella speranza di conseguire una sistemazione ancora più vantaggiosa. Il 15 giugno 1560 il nuovo re di Francia, Francesco II, scrisse indignato al duca di Savoia, Emanuele Filiberto, di aver saputo da fonte di sicura attendibilità che i Birago già da tempo conducevano trattative per passare al suo servizio. La documentazione attualmente disponibile non consente di precisare fino a che punto fossero giunte le trattative e se fallissero proprio per l'intervento del re di Francia. Certo è che, nonostante le proteste di Francesco II, almeno un Birago, Carlo di Girolamo nipote di Ludovico, entrò al servizio di Emanuele Filiberto che, scrivendo il 1º ag. 1561 per raccomandarlo a Filippo II, ricordò "le stesse legittime ragioni che già mi mossero a favorire i fratelli Biraghi et ad interceder per essi appresso la Maestà Vostra" (Archivo General de Simancas,Estado, leg. 1212, f. 90). Il B., pertanto, pur restando al servizio della Francia, riuscì a guadagnare il favore dei duca di Savoia, col quale dovette sicuramente trattare la possibilità di un accordo ai danni di Francesco II.
I tentativi del B. non si svolsero solo in direzione del duca di Savoia: contemporaneamente egli trattava con la Repubblica di Venezia, tramite l'ambasciatore presso la corte sabauda Andrea Boldù, che si recò anche personalmente a Saluzzo per stabilire le modalità dell'accordo. Il Consiglio dei Dieci aveva manifestato un certo interesse alla faccenda, ma quando seppe del viaggio a Saluzzo scrisse al Boldù rimproverandolo severamente per il suo incauto procedere che avrebbe potuto richiamare l'attenzione della corte sabauda e provocare seri incidenti. Le trattative furono così interrotte per essere riprese due anni dopo dal nuovo ambasciatore veneziano Sigismondo Cavalli, e questa volta col favore di Emanuele Filiberto, desideroso di liberarsi di tanto scomodi vicini.
Nel novembre del 1561 erano cominciate le trattative del duca di Savoia con la corte di Parigi per ottenere la restituzione delle cinque piazze piemontesi presidiate ancora dalle truppe francesi. Alla restituzione si opponevano ovviamente i Birago, validamente sostenuti dal loro parente, il genero di Renato Birago Imbert de La Platière signore di Bourdillon, luogotenente generale del re di Francia al di qua dei monti. L'8 ag. 1562 Emanuele Filiberto concluse però un'accordo col re di Francia che accettava di cedere le piazze di Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti, mentre si riservava ancora di presidiare con le sue truppe quella di Pinerolo cui si dovevano aggiungere quelle di Savigliano e Perosa. A questo accordo il Bourdillon e il B. reagirono violentemente, tentando di procrastinare il più possibile la consegna delle piazze. In tale atteggiamento pesavano ragioni di personale convenienza e di prestigio che non erano però sostenute da adeguata potenza finanziaria. Il Bourdillon e il B., che non erano in grado di pagare il soldo alle truppe, pensarono di rivolgersi alla Repubblica di Venezia per un prestito e invitarono il Cavalli a Torino. I Veneziani però non avevano nessun interesse a fare prestiti così compromettenti e il Cavalli "li disuase a far al Dominio simil domanda". Questi maneggi non sfuggirono al duca, che intervenne direttamente presso la Serenissima, ottenendo precise assicurazioni nel senso desiderato. Alla fine dell'anno sia il Bourdillon sia il B. dovettero rassegnarsi a consegnare le piazze.
In questi anni il B. ebbe una controversia cavalleresca che suscitò grande scalpore e interessò vivamente i contemporanei. Nel settembre del 1559 aveva incontrato a Lione un vecchio amico, il capitano italiano al servizo francese Scipione Vimercati, al quale aveva confidato che Enrico di Montmorency signore di Damville aveva lungamente brigato a corte per non fargli avere il governo di Saluzzo. Il Vimercati, che era diretto a corte, vi incontrò il Damville e non si fece scrupolo di riferirgli quanto aveva sentito dal B., ma fu subito smentito da Carlo Birago in quel momento anche lui presente a corte. Il B. assicurò "che chi gli ha riferito dette parole ne ha mentito per la gola, offerendomi (essendo par mio) di sostentarlo con l'arme in mano". Il Vimercati ribatté presentando un cartello di sfida prima a Carlo e poi al B., ma, non permettendo il re di Francia il duello, ottenne da Ludovico Pico, signore della Mirandola, una patente in data del 22 maggio 1561 che autorizzava il duello nel suo territorio. Il B. pubblicò allora un Manifesto dell'ill. signor Lodovico Birago con altre scritture,per le quali si conosce quanto è seguito tra esso signor et Scipion detto de' Vimercato, Torino 1561 (ma anche in francese: Déclaration manifeste du seigneur Ludovic de Birague... touchant le différent qui est entre luy et le capitaine Scipion,dict des Vimercats,avec les escripts de tout ce qui s'est ensuyvi entr'eulx, s.l. 1561), che ristampò con nuovi documenti subito dopo col titolo Raccolto delle cose allegate et produtte per l'illus. s. Lodovico Birago,avanti il re christianiss. et suo consiglio. Nelle quali si dimostra chiaramente per prove et efficaci ragioni,quanto è successo fra esso s. Lodovico et Scipione detto de' Vimercati,con le qualità di ciascuno, Torino 1561. In questo opuscolo il B. dichiarò di non potere accettare la sfida perché il Vimercati, non nobile, era addirittura bastardo. Il Raccolto, oltre al Discorso sommario del B., conteneva un gruppo di documenti che dovevano provare gli oscuri natali del Vimercati e un parere di G. A. Giacomello, dottore in legge e regio auditore, che sosteneva l'impossibilità del duello. Le accuse del B. furono abilmente controbattute dal Vimercati che inficiò di falso tutti i documenti addotti nel Raccolto e si avvalse dei pareri di illustri campioni italiani della precettistica cavalleresca per dimostrare che il B. era solo un vigliacco. L'opuscolo del Vimercati Informatione della causa fra Scipione Vimercato et Lodovico Birago. Con la difesa dello ill. sig. Francesco Bernardino Vimercato contra le calonnie di Lod. Birago. Aggiontovi un parere del fu duca d'Urbino,Francesco Maria,della parità e disparità del sangue e del grado. E 9 dubbii del Fausto da Longiano tolti dal primo libro de suoi pareri, s.l.n.d. (ma 1561), piacque al Brantôme che lo giudicò "aussi bien faict et composé qu'il est possible pour un homme de guerre" (Oeuvres completes..., VI, p. 464). La controversia si allargò con l'intervento del Damville e di Carlo Birago e fu conclusa nel 1563 da una Déclaration du roy (22 juin 1563) sur le different d'aucuns escripts cy devant publiez soubz les noms de Monsieur de Dampville,chevalier de l'ordre de sa Majesté..., et du sr. Charles de Birague... gouverneur de Savillan, Paris 1563.
Il B. tenne il governo del marchesato di Saluzzo dal 1559 al 1572, e dal 1567 anche la luogotenenza generale del re di qua dai monti, in assenza di Ludovico Gonzaga duca di Nevers che ne era titolare. I suoi tredici anni di governo furono dominati dal problema dei rapporti con i riformati particolarmente attivi nel marchesato di Saluzzo. Problema estremamente delicato nei suoi riflessi politici e complicato dalle continue ingerenze del duca di Savoia e della Chiesa di Roma, dalla minacciosa presenza degli Spagnoli nel Milanese, dalle ripercussioni delle guerre di religione che sconvolgevano il regno di Francia.
Le prime avvisaglie si ebbero già nel 1560, quando il duca di Savoia, che aveva iniziato una vasta azione di persecuzione religiosa in tutti i suoi domini, protestò col B. dichiarando che i riformati piemontesi trovavano aiuto e protezione nelle terre soggette alla sua giurisdizione. La stessa protesta il duca inoltrò anche a Parigi, cosicché dalla corte arrivò al B. l'ordine di iniziare una severa azione di repressione del movimento riformato. Pressioni in tal senso furono fatte anche da Roma. Il B. si giustificò assicurando di avere preso per suo conto tutte le necessarie misure e promettendo di adottare provvedimenti ancor più severi. Il 29 genn. 1561 emanò quindi un editto che ingiungeva ai sudditi ducali presenti nel marchesato per motivi di religione di sloggiare entro tre giorni "sotto pena della vita" e minacciava la confisca dei beni a tutti i loro favoreggiatori. L'editto non soddisfece il duca che rinnovò le sue proteste, dando precise indicazioni su fatti, persone e luoghi. Il B. mandò allora il prevosto di giustizia a ispezionare le terre del marchesato per controllare le affermazioni del duca. L'ispezione ebbe esito negativo, perché i riformati vennero accuratamente occultati e protetti dalle amministrazioni locali, e il B. fece redigere dei "regolari testimoniali" che mandò alla corte ducale, dichiarandosi sempre pronto a collaborare nella repressione del movimento riformato. La situazione si fece difficile per il B. nel 1563, quando il 7 giugno i riformati di Dronero ottennero dalla cancelleria regia - pare all'insaputa del re - l'autorizzazione a costruire un tempio fuori della città per celebrarvi il loro culto. Il B., che in precedenza aveva avuto istruzioni dal re di impedire il pubblico esercizio del culto riformato, si oppose all'esecuzione della disposizione regia, preoccupato di introdurre nel marchesato con le libertà religiose gli stessi gravi conflitti che dilaniavano la Francia e di provocare un intervento armato del duca di Savoia e degli Spagnoli con l'appoggio della S. Sede. Pressato dai riformati che reclamavano l'esecuzione della patente del 7 giugno, il B. mandò un suo segretario a corte per illustrare i gravi pericoli della situazione, e ne ottenne nuove patenti in data del 7 agosto che cassavano quella del giugno e proibivano severamente il pubblico esercizio del culto ai riformati. Di queste patenti il B. si servì con cautela e moderazione, patteggiando con i riformati là dove costituivano la maggioranza della popolazione e mostrandosi più o meno tollerante a seconda delle situazioni locali. Nei primi mesi del 1566 il duca di Savoia ritornò però a protestare per la prolungata permanenza di numerosi fuorusciti riformati del ducato nelle terre del marchesato, dove avevano trovato larga ospitalità sotto gli occhi del B. che fingeva di non vedere. Le proteste del duca lo costrinsero a rinnovare il divieto di concedere ospitalità ai sudditi ducali e ad esercitare notevole severità nei loro confronti. L'atteggiamento tollerante del B. non sfuggì neanche al nunzio pontificio in Piemonte e al S. Uffizio che ne dettero comunicazione a Roma. Pio V inviò in conseguenza il signor di Villaparis a Saluzzo per indurre il B. a una politica più dura verso i riformati. Dopo l'incontro con l'inviato pontificio il B. scrisse l'8 apr. 1566 al papa, assicurando di non avere favorito in alcun modo i riformati e promettendo misure più severe. Pio V replicò con un breve del 3 giugno nel quale insisteva per una azione repressiva di larga portata. Alla pressione del duca di Savoia e del papa si aggiunse nel settembre del 1567 un preciso ordine di Caterina de' Medici al duca di Nevers che intimava di iniziare una violenta campagna di repressione del movimento riformato nei domini francesi in Piemonte. L'8 ott. 1567 il duca di Nevers, dopo essersi consultato col B., emanò un editto che intimava ai protestanti di presentarsi entro ventiquattro ore alle autorità, "sotto pena di confiscatione della vita et beni", per dichiarare la loro appartenenza alla nuova religione. Si voleva approntare una sorta di censimento della popolazione riformata, gravido di minacciose conseguenze. Il 19 ottobre seguiva un nuovo editto che sfrattava tutti i riformati forestieri e vietava ai Saluzzesi di aiutarli in qualsiasi modo. Il B. dispose la rigorosa esecuzione dei due editti, facendo arrestare e processare tutti i riformati che non vi si erano attenuti. Procedette quindi a una sistematica epurazione dei protestanti dalle amministrazioni locali e rinnovò l'intimazione a presentarsi alle autorità. Ma questi provvedimenti non valsero a fiaccare il movimento riformato, come poté constatare il B. stesso. Intanto il 15 ag. 1570 veniva emanato in Francia l'editto di St. Germain-en-Laye che riportava la pace fra cattolici e ugonotti, e i protestanti saluzzesi sperarono di poterne beneficiare. La situazione generale troppo favorevole agli ugonotti, che, ormai sulla cresta dell'onda, minacciarono anche un colpo di mano sul marchesato, indusse invece il B. ad inasprire le repressioni, per allentarle quando la minaccia sul marchesato sembrò venir meno. La sua difficile situazione si era complicata ancor più nel giugno 1569, quando aveva assunto il governo di Carmagnola, la piazza più importante del marchesato, Ruggero di St-Lary signore di Bellegarde, personaggio assai influente alla corte di Parigi e segretamente legato al partito ugonotto. La presenza a Carmagnola del Bellegarde, che non tardò ad ergersi a protettore dei protestanti del marchesato, scatenò una sorda lotta col B., destinata ad esplodere in una vera e propria rivolta durante il governo di Carlo Birago. Desideroso di eliminare il pericoloso governatore di Carmagnola, il B. lo accusò ripetutamente a corte di minare, con la sua politica di favore verso i riformati, la sicurezza del marchesato, facendo anche continue pressioni sul duca di Nevers, ma sempre senza successo. La notte di s. Bartolomeo (24 ag. 1572) colse il B. di sorpresa: in precedenza gli erano arrivati vari ordini dalla corte di tenere un atteggiamento molto tollerante verso i riformati e di trattarli addirittura "come li stessi catholici sudditi di sua maestà". Ora invece si voleva che anche lui facesse la sua brava s. Bartolomeo saluzzese. Il B. non era uomo da abbandonarsi a simili eccessi, conosceva la forza del movimento riformato nel marchesato e temeva a ragione eventuali reazioni violente che avrebbero scosso dalle fondamenta la sua precaria posizione di governatore. Privo di mezzi finanziari adeguati, poteva disporre solo di pochi contingenti militari, non certo immuni da infiltrazioni ugonotte, senza contare la manifesta ostilità del Bellegarde. Si limitò così a prendere misure cautelative per prevenire disordini e sfrattò i capi ugonotti più in vista rifugiatisi nel marchesato. Cercò invece di sfruttare ampiamente la nuova situazione francese per liquidare l'odiato rivale, che tornò ad accusare con crescente insistenza di favorire i protestanti, ma la morte gl'impedì di portare a fondo questo nuovo attacco al Bellegarde.
Il B. lasciò a Saluzzo una fama di saggio uomo di governo tutt'altro che usurpata. Si disse che nutriva segrete simpatie per la Riforma, mentre invece la sua politica nei confronti dei riformati fu di volta in volta tollerante e repressiva, ma sempre misurata e attenta a bilanciare abilmente il peso delle varie forze politiche che agivano dall'interno e dall'esterno sul marchesato.
Nel corso dei tredici anni di governo il B., fra i principali esponenti del gruppo famigliare dei Birago legato al partito della Ligue, aveva teso costantemente a un fine: conservare la propria posizione di governatore, perennemente insidiata, anche a costo di consegnare il marchesato agli Spagnoli. Negli ultimi anni infatti la vecchia tentazione di tutta la sua fortunata carriera si ripresentò con forza. Il 12 marzo 1570 l'ambasciatore spagnolo presso la corte di Torino, Juan de Vargas Mexia, scrisse a Filippo II che il gran cancelliere di Savoia, G. T. Langosco conte di Stroppiana, si era offerto di trattare col B. il passaggio al servizio spagnolo. Alla fine del marzo del 1571, quando a corte sembrava prevalere il partito ugonotto e nel marchesato il Bellegarde rafforzava la sua posizione, il B. mandò una persona di fiducia a Torino per riprendere le trattative col Vargas. Nello stesso tempo cercò di rappattumarsi col duca di Savoia che non gli aveva ancora perdonato il comportamento tenuto al tempo della restituzione delle piazze. Le trattative col Vargas sembravano ormai assai bene avviate, ma il rovesciamento della situazione in Francia indusse il B. a temporeggiare finché la morte, sopraggiunta il 28 dic. 1572, lo tolse dall'incertezza.
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