GALLETTA, Lucrezia (detta "la Luparella")
Nacque a Bologna intorno al 1520-25 da genitori sconosciuti. Da un documento del 1553 sappiamo che fin dall'inizio degli anni Quaranta viveva a Roma, dove aveva acquistato reputazione di cortigiana ricca e di prestigio: vi si legge che "considerando la sua condizione e professione [è] una donna di ottima reputazione…" (Arch. segr. Vaticano, S. Marta, 225/2). Infatti tra i suoi amici in quel periodo vi erano diversi membri di famiglie nobili romane, come Quintio de' Rustici, il vescovo di Mileto che partecipò al concilio di Trento.
Avendo uno straordinario talento finanziario, la G. riuscì, al contrario della maggior parte delle colleghe, a investire i suoi guadagni con notevole profitto. Dopo il 1546 divenne l'amante di Francesco Spinelli, cassiere del banco Altoviti, e sembra che lo Spinelli la introducesse nei segreti delle finanze. Sappiamo che al più tardi nel 1546 cominciò a concedere crediti per grandi somme. Nel 1551 tra i suoi debitori c'erano il vescovo Rustici, il banchiere Vincenzo Spada e la banca fiorentina dei Cavalcanti. Alla fine degli anni Quaranta la G. possedeva già un patrimonio del valore di circa 8000 scudi. Fin dal 1549 investì, tramite lo Spinelli, grosse somme (2000-3000 scudi) nei grandi centri finanziari di Lione, Firenze e Napoli.
Dotata d'intelligenza e molto probabilmente anche di grande bellezza, la G. aveva scelto l'unica professione femminile che desse a una donna delle classi inferiori la speranza di un'ascesa sociale ed economica. I soldi che guadagnava come cortigiana le offrivano possibilità sconosciute alle altre donne. Quando, nel dicembre 1552, lo Spinelli sparì con 6000 scudi sottratti al banco per cui lavorava, Bindo Altoviti cercò di rifarsi con la G., accusandola presso il tribunale del Vicariato di essere complice del fuggitivo, di esserne stata l'amante e di esercitare una professione da "sanguisuga". I suoi procuratori affermarono che "era ed è sempre stata una donna avara, avarissima…" e che era capace di "dissanguare gli uomini e quasi levar loro la pelle…" (ibid.); sostennero inoltre che tutti gli affari in nome della G. in quegli anni erano stati condotti dallo Spinelli di nascosto dagli Altoviti e che lo stesso Spinelli aveva impiegato non i soldi personali della G., ma capitali sottratti alla banca. Gli Altoviti chiedevano dunque il sequestro dei crediti della G. sulla loro banca e la sua condanna. L'accusa degli Altoviti provocò l'arresto della G., che rimase per qualche giorno in carcere nel gennaio 1553. I suoi libri contabili e i suoi gioielli furono confiscati. Poiché non si trovarono prove contro di lei, i procuratori chiesero, invano, di metterla alla tortura. Malgrado tutti questi sforzi, il più potente banchiere del tempo non riuscì mai a ottenere la condanna della cortigiana. La causa per il sequestro continuò per più di quindici anni, senza risultati. A dispetto dell'accusa, la G. riuscì a mantenere una buona reputazione d'imprenditrice. Quando il suo capitale fu tale da permetterle di vivere unicamente dei guadagni delle sue speculazioni finanziarie, lasciò il mestiere di meretrice e cercò di liberarsi anche delle limitazioni conseguenti. Nel 1559 riuscì a ottenere dal governatore lo status di "donna honesta", con l'argomento che, nonostante la trascorsa vita lasciva, era ormai di costumi irreprensibili, che si pentiva dei suoi peccati, frequentava donne dabbene, andava regolarmente a messa e faceva spesso l'elemosina.
Si riconobbe alla G. il diritto di godere di tutti i privilegi delle donne oneste; non più soggetta alle leggi concernenti le prostitute e le donne di malaffare, aveva il diritto di vestirsi con "l'habito romano", il costume delle gentildonne, e poteva uscire liberamente in cocchio, ovvero mostrarsi in pubblico nei modi proibiti alle cortigiane. La G. poteva così da quel momento dimostrare apertamente e legittimamente la sua ricchezza e condurre una vita che corrispondeva al suo reale status sociale.
Il mestiere di cortigiana poteva consentire anche a una donna nubile e priva di protezioni familiari di diventare ricca, ma se voleva ritirarsi e condurre una vita consona alla sua nuova condizione doveva ottenere il riconoscimento giuridico. La G. diventò così imprenditrice libera e riuscì ad agire nel mondo economico persino a livello europeo. Fu l'unica donna che, insieme con molti cardinali e membri delle più grandi famiglie romane, firmò il documento del 18 genn. 1560 del cosiddetto "grand parti de Lyon", con il quale fu concesso un grande credito al re di Francia; riuscì inoltre a consolidare la sua posizione facendo credito a nobili romani e membri della corte papale, ovvero personaggi potenti come il protonotaro apostolico Ferdinando Spinello, il banchiere Bernardo Acciaiuoli e Vincenzo Fuschieri, vescovo di Montefiascone. Dei suoi libri di conti soltanto uno è conservato, ed è relativo ai prestiti che la G. dava a persone private negli anni 1560-1580. Il libro comincia con prestiti del valore di 2000 scudi, da cui la G. ricavò nel giro di vent'anni più di 6000 scudi e investendo subito sia il capitale saldato sia il profitto. Quando la G. morì, lasciò un patrimonio di qualche decina di migliaia di scudi, paragonabile a quello delle case bancarie minori dello Stato pontificio.
A dispetto della sua ricchezza e della eccellente posizione sociale, la G. restava segnata dal suo passato. Nel 1565 venne anonimamente accusata presso i Conservatori di sottrarsi alle norme sulle cortigiane e dovette presentare cinque testimoni che provarono la sua "onestà". Dopo l'investigazione i Conservatori passarono il caso al governatore, che confermò il giudizio del suo predecessore in favore della G., aggiungendo però che non lo avrebbe sancito senza un ordine diretto del papa. Non sappiamo se la G. ricevette quest'onore, ma è certo che i suoi nemici non riuscirono mai a nuocerle gravemente.
Nel testamento del 1560 la G. è definita "domina Lucretia Galletta bononiensis, romanam curiam sequens" (S. Marta), portando dunque il titolo onorario che dopo il 1520 era strettamente riservato agli uomini d'affari che fossero - come la G. - in relazione commerciale con la Curia. Nonostante ciò, la G. non osò trascurare completamente la normativa sulle cortigiane. Lasciò - come prescritto dalla bolla Salvator noster di Leone X - la quinta parte dei suoi beni al monastero delle convertite, rifugio per ex prostitute fondato dallo stesso papa. Soltanto le cortigiane e le prostitute che si sposavano o che diventavano monache erano liberate dall'obbedienza alla bolla.
Con l'elezione di Pio V (1566) la G. si vide di nuovo costretta ad affrontare i problemi posti dal suo passato: il papa bandì tutte le cortigiane ricche e di prestigio, tranne quelle che si sarebbero sposate o fossero entrate nel monastero delle convertite. Per rimanere nel territorio dello Stato la G. doveva, come molte delle sue colleghe, maritarsi. Risolse il problema a modo suo: sposò nel 1566 un certo Niccolò Turini, che era ormai da qualche anno impiegato nella sua casa bancaria. In realtà fu solo un matrimonio sulla carta. Turini, che accettò per dote unicamente l'arredamento della G. per un valore di più di 2000 scudi, non divise con lei né la casa né il letto. Rimase come prima un suo impiegato e si occupò a nome suo di una parte degli affari. Per la G. fu l'ultimo passo per ottenere il riconoscimento definitivo del suo status di "donna da bene" e per far dimenticare l'origine della sua ricchezza: nel suo testamento definitivo poté finalmente trascurare la bolla Salvator noster, affermando che era ormai "maritata et donna di buona vita" (Arch. stor. Capitolino, Arch. urbano, 18/5, cc. 268r-269v).
La G. aveva fatto già da giovane il suo testamento, che fu poi ripetutamente cambiato nel corso degli anni. Nella prima versione, stesa il 31 marzo 1559, incaricò il suo erede universale di comprare per la consistente somma di 500 scudi una cappella o di farne erigere una nuova come mausoleo nella chiesa dell'Aracoeli e lasciò altri 1000 scudi, il frutto dei quali spettava ai monaci di questa chiesa. In cambio i monaci avrebbero dovuto leggere ogni settimana due messe per la sua eterna salute e celebrare ogni anno una messa cantata nella sua cappella sepolcrale, ornata di candele sia il giorno della sua morte sia il giorno d'Ognissanti. Donò inoltre 1500 scudi, con il frutto dei quali il suo erede doveva far sposare ogni anno nel giorno di S. Agnese due ragazze oneste, preferibilmente originarie della sua città natale, Bologna. Doveva essere un desiderio sincero della G. quello di risparmiare la propria sorte ad alcune ragazze povere della sua città, offrendo loro la possibilità di sposarsi con una dote maggiore di quella data normalmente dalle associazioni pie, poiché la stessa disposizione si trova in tutti i suoi testamenti.
La G. visse almeno per gli ultimi trent'anni della sua vita in una casa all'Arco dei Camigliani, di fronte al monastero di S. Marta. Con le monache del convento mantenne stretti rapporti d'amicizia, aiutandole spesso anche finanziariamente. Le relazioni divennero ancora più strette quando la sua figlia adottiva, certa Lucrezia da Tivoli, si fece monaca in quel convento. La G. morì il 9 apr. 1580, lasciando il suo notevole patrimonio a suor Lucrezia e quindi al monastero. Le monache speravano già da anni d'ottenere questa ricca eredità. Il fatto che si trattasse dei beni di una ex prostituta era un piccolo difetto esteriore che cercarono di mascherare: sia nella cronaca del convento sia nell'archivio dell'Arciconfraternita della Carità, che s'incaricò nel 1586 dell'obbligo di dotare ogni anno due ragazze, la G. viene definita "gentildonna" Lucrezia Galletti-Luparelli. L'ambiguo soprannome della cortigiana divenne così un elegante cognome. In conformità con le sue ultime volontà, la G. fu sepolta nella chiesa del monastero di S. Marta. Nel testamento rogato nel 1568, durante il pontificato di Pio V, non compare più l'orgoglio della sua gioventù: volle soltanto essere sepolta nella chiesa del monastero, senza cappelle o lapidi sepolcrali. La chiesa fu poi ricostruita nel 1673 e non si sono conservate tracce della tomba. Il pagamento di doti derivanti dalla sua donazione è documentato nell'archivio dell'Arciconfraternita della Carità fino al 1703.
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, S. Marta, bb. 49, 214, 225; Arch. di Stato di Roma, S. Gerolamo della Carità, bb. 22, 1928; M. Kurzel-Runtscheiner, Töchter der Venus. Die Kurtisanen Roms im 16. Jahrhundert, München 1995, pp. 59-63, 158 s., 235.
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