LAURANAI, Luciano
Architetto, nato a Zara fra il 1402 e il 1425 circa, morto a Pesaro nel 1479. Nulla sappiamo della sua educazione artistica né vi sono argomenti sufficienti per identificarlo con quello "Schiavone" che il Vasari nomina fra gli allievi di Filippo Brunelleschi, attribuendogli l'esecuzione di "assai cose in Venezia". Di quest'attività veneziana del resto nessun segno rimane, essendo troppo vaghe le argomentazioni di chi vorrebbe attribuirgli la porta che dal lato di terra si apre sull'arsenale. Sue prime notizie certe risalgono al maggio 1465, allorché l'artista, che per breve tempo da Mantova si era recato alla corte di Alessandro Sforza in Pesaro, veniva richiamato dalla contessa Barbara di Brandeburgo e assicurava di affrettare il suo ritorno. Ignoriamo se mantenne la promessa o se invece di recarsi a Mantova per breve tempo da Pesaro passò direttamente a Urbino, dove documenti del 1467 mostrano i lavori della reggia dei Montefeltro molto avanzati e dove nel 1468 Federico II gli rilasciava patente di architetto capo. In Urbino la presenza dell'artista è documentata fino al 1472, quando, terminata la fabbrica, vendette un podere e si recò a Napoli, dove nel settembre di quello stesso anno lo troviamo ai servizî di Ferrante d'Aragona come "mestre di artilleriesi"); e con tale carica egli appare nei documenti dell'8 giugno 1473, del 29 ottobre e dell'8 marzo 1474. Due anni dopo il L. era di nuovo a Pesaro, occupato nella costruzione della Rocca, che Costanza Sforza aveva iniziata nel 1474. A questo lavoro egli attese in qualità di primo ingegnere fino alla sua morte, la quale dovette seguire di pochissimo il suo testamento, redatto il 7 settembre 1479. È impossibile determinare i lavori eseguiti in Mantova da Luciano e la parte che egli probabilmente ebbe nel rinnovamento edilizio della città promosso da Ludovico Gonzaga; per il Palazzo ducale di Pesaro è stato dimostrato che il L. si limitò a dare qualche consiglio. Poiché della rocca pesarese non rimangono che documenti scritti e medaglie a ricordo dei primi progetti, trasformati da Giovanni Sforza e più radicalmente ancora dai restauri del 1657 e dalle devastazioni posteriori; e poiché l'ipotesi che il L. sia stato l'architetto dell'arco di Alfonso d'Aragona in Napoli - da alcuni attribuito a Francesco Laurana -, intraveduta da Ettore Bernich, sviluppata da Lionello Venturi, accolta da Arduino Colasanti, trova contraddittori, per intendere a pieno l'arte e la genialità dello zaratino non rimane che il Palazzo ducale urbinate.
Quando Federico da Montefeltro nel 1444 succedette al fratello Oddantonio, il principale nucleo della dimora principesca già esisteva. A un più antico corpo di fabbrica, parte forse dell'antico castello comunicante col duomo, Federico in un primo momento, probabilmente intorno al 1447, aggiunse una costruzione abbastanza vasta, riconoscibile ora nel corpo mediano della fronte verso levante. Tutto il resto, esclusi il corridoio sopra il giardino pensile che chiude la muraglia verso ponente, le terze logge o corridoi che circondano in alto il cortile, e il secondo piano che fece sparire la merlatura della facciata e che venne edificato da Bartolomeo Genga, è opera del L. Il quale, prolungata e sistemata da ambo i lati la fabbrica preesistente, creò la facciata ad ali convergenti contigua alla cattedrale, e, non solo lottando con le asperità e le disuguaglianze del terreno, ma anzi giovandosene per l'armonico sviluppo dell'edificio, lo girò verso ponente con stupenda varietà di aspetti e di movenze. Per intendere tutta la sovrana bellezza del palazzo, che lo stesso Federico II definì "una abitazione bella e degna quanto si conviene alle condizioni e laudabil fama dei nostri progenitori e alle condizioni nostre", della quale Baldassarre Castiglione disse "non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva", che Porcellio dei Pandoni, Giovanni Santi, Sulpizio Verulano e Antonio da Mercatello esaltarono nei loro versi e che destò la curiosità e forse l'invidia di Lorenzo il Magnifico e di Federico Gonzaga, i quali ne chiesero i rilievi e le misure, bisogna immaginare quale sarebbe apparso se il rivestimento marmoreo della facciata, rimasto incompiuto, fosse stato portato a compimento nella forma ideata dall'architetto, e se fosse stata eseguita la costruzione così di quell'intero corpo di fabbrica del quale dal lato di mezzogiorno rimangono soltanto le fondazioni come del tempietto rotondo di cui il Baldi vide il modello. Per comprendere la logica, l'equilibrio, l'armonia severa e leggiadra dell'opera che il L. immaginò come un poema della linea semplice, per sentire tutto il fascino di quella ernorme massa architettonica, conviene figurarsela spoglia del fasto decorativo che vi diffusero Gian Cristoforo Romano, Domenico Rosselli, Francesco di Simone Ferrucci, e, soprattutto, Ambrogio Annoni.
L. è l'artista che più compiutamente, a metà del sec. XV, fa rinascere l'antico ritmo architettonico. A Mantova, a contatto diretto con le opere di Leon Battista Alberti, il suo stile acquistò certo il suo ampio e puro respiro. Ma sentì anche l'influenza del Brunelleschi, riconoscibile in Urbino soprattutto nelle proporzioni delle trabeazioni che coronano i pilastri del portone, in cui la cornice è assai più bassa del fregio dell'architrave, nei capitelli della facciata dei Torricini, e in alcune particolarità di quelli del cortile, quale il nascere delle foglie dell'ordine superiore a mezza altezza, fra le volute e il collarino, in modo da lasciare spazî vuoti sulla liscia superficie della campana. La reggia di Urbino non è più il vecchio palazzo che ricorda la forza e la crudeltà degli antichi dominatori, ma un insieme che suscita l'idea di un'esistenza felice, di un'eleganza senza fasto, di un riposo solenne. Questa idea sua il L. attuò utilizzando tutte le risorse pure dell'architettura, ripudiando ogni lenocinio per raggiungere la suprema espressione di ciò che egli sente unicamente per mezzo dello stile; dominando la materia per imprimere alle forme un carattere il quale si sovrappone alla loro realtà esteriore, la purifica e la innalza.
V. tavv. LXXV e LXXVI.
Bibl.: A. Colasanti, L. Laurana, Roma 1922 (Bibl. d'arte illustr.); R. Filangieri di Candida, L'architettura della Reggia Aragonese in Napoli, in L'Arte, XXXI (1928), pp. 32-35; L. Serra, Le varie fasi costruttive del palazzo ducale di Urbino, in Boll. d'arte, n. s., X (1930-31), pp. 433-48.