MARLIANI, Lucia
– Nobildonna milanese, figlia di Pietro e di Caterina d’Angera, nacque verso il 1455.
Il padre, ricco mercante, discendeva dal ramo di Vincenzo Marliani, cui il duca Filippo Maria Visconti aveva concesso il feudo di Melzo e Rossate nel 1412 per la fedeltà dimostrata alla dinastia viscontea; Pietro era fratello di Michele, vescovo di Tortona e consigliere ducale, di Giacomo – dei Capitani e difensori della Communitas Ambrosiana –, di Giovanni Antonio, arciprete di S. Maria del Monte di Varese, e di Giorgio, cameriere ducale e gentiluomo di corte, tutti di fede ghibellina e sostenitori del nuovo duca di Milano, Francesco Sforza, e del suo casato.
Alla sua morte, Pietro lasciò ricche doti alle figlie e alla moglie (che di lì a poco avrebbe avuto da lui un’altra figlia). Il 24 aprile e il 4 giugno 1473 Ambrogio Raverti, patrizio milanese sposo della M., dichiarò di avere ricevuto 1200 fiorini di conto, oltre a un ricco assortimento in vesti e pellicce tra i beni parafernali, parte dei quali ereditati dalla moglie in seguito alla morte prematura della sorella Orsina.
La svolta decisiva nella vita della M. avvenne nel 1474 quando, forse introdotta a corte al seguito della duchessa Bona di Savoia, fu notata da Galeazzo Maria Sforza, che se ne innamorò perdutamente. Cronisti e testimoni dell’epoca sono concordi nel giudicare la M., soprannominata «la baietta», la donna più bella di Milano. Di certo, il duca la rese la più ricca «non che in Lombardia, forse in Italia» (Rosmini, III, p. 25).
Sul contratto privato che pare abbia dettagliatamente regolato la relazione della M. con lo Sforza molto è stato scritto. Per rinunciare all’esercizio delle sue prerogative matrimoniali Raverti ricevette 4000 ducati e, a titolo gratuito, la ricca podesteria di Como, mentre due sue sorelle furono gratificate di un marito e di una dote di 2000 ducati ciascuna, come maliziosamente, ma dettagliatamente, riferisce l’oratore mantovano a Milano, Zaccaria de’ Saggi di Pisa, alla marchesa Barbara di Hohenzollern. Di contro, sempre secondo l’oratore mantovano, Galeazzo Maria dovette mostrarsi più prudente, almeno inizialmente, nei confronti di sua moglie, Bona di Savoia: per deviarne i sospetti dichiarava, nell’allontanarsi la sera, di andare a visitare le stalle e sosteneva che la M. fosse in realtà l’amante del fratello Ludovico.
Avviata la relazione adulterina, il duca cominciò a coprire la M. di una grandissima quantità di doni della natura più svariata. A Milano, in Porta Vercellina, acquistò per lei, al prezzo di 4000 ducati, il palazzo (demolito nel 1876) appartenuto al conte Pietro Torelli: la dimora, prossima al castello di Porta Giovia, fu dotata di un’altana, di un portale riccamente ornato e di suppellettili che, sole, costarono 1000 ducati: drappi, tappezzerie e lenzuola di seta, oltre a una stufa e a una credenza d’argento; la facciata fu fatta decorare ad affresco con lo stemma ducale e altri motivi araldici, opera di Giacomino Vismara e Bonifacio da Cremona. Per il suo mantenimento, il duca investì la M. delle entrate del Naviglio della Martesana, che rendevano 1000 ducati all’anno, oltre a 200 ducati di appannaggio e della proprietà di una possessione, nei pressi del castello, del valore di 3000 ducati.
Impressionante il numero e il valore delle vesti e dei gioielli che Galeazzo Maria riuscì a donarle in un solo triennio, tra i quali una superba croce d’oro con preziosi eseguita dall’orafo Dionigi da Sesto e un pendente, costituito da un grosso rubino incastonato in un pellicano che reggeva uno smeraldo e una grossa perla, stimato 12.000 ducati. Gioie comunque ritenute insufficienti a celebrare il suo idillio con Lucia se, ancora nel maggio 1475, Galeazzo Maria confidò a ragione nell’amicizia, e soprattutto nell’avidità, di Lorenzo de’ Medici per acquistare da lui, al prezzo di 10.000 ducati, un «balasso detto libro», già appartenuto a re Alfonso d’Aragona, per farne dono alla sua amante (Plebani).
A completare il quadro delle donazioni, la più importante: il 9 genn. 1475, con atto rogato da Giovanni Antonio Gerardi e Giovanni Molo, cancellieri ducali, lo Sforza concesse alla M., e ai discendenti, il titolo comitale e il feudo del borgo e della pieve di Melzo e di Gorgonzola, nonché la facoltà di portare il cognome Visconti e adottarne lo stemma gentilizio.
Amplificando la formula classica di investitura feudale, il duca dispose, in aggiunta, che dette località le appartenessero in un solo corpo, separate ed esenti da vincoli di obbedienza verso la città e il Ducato di Milano, con mero e misto imperio, con podestà di coltello e con ogni altra giurisdizione, tanto nelle cause civili quanto nelle criminali e nelle miste. Alla M., citata da allora nei documenti cancellereschi come la «Contessa» per antonomasia, sarebbero spettati inoltre i diritti sul possesso degli edifici, dei pascoli coltivati e incolti, delle acque e acquedotti, nonché su ogni preda dei proprietari dei prati.
La decisione di Galeazzo Maria di riconoscere la separazione del feudo di Melzo e di Gorgonzola costituisce un’anomalia giuridica e politica perché il duca creava ciò che nel corso di tutto il suo governo aveva più aspramente avversato: uno Stato dentro lo Stato, riconoscendo nel contempo alla M. una superiorità oggettiva sugli altri feudatari del dominio. Lo Sforza pose una sola, ma vincolante condizione alla validità degli atti di donazione, quella che vietava a Lucia di avere rapporti carnali con il marito o con altri uomini, senza la preventiva approvazione ducale. Nello stesso atto, su precise indicazioni fornite dal duca, fu quindi disegnato lo stemma del nuovo feudo: un cerchio in campo oro, nel cerchio uno scudo in campo argento, diviso in due parti; in quella sinistra era la vipera viscontea in campo argento; nella destra due colombe, in campo azzurro, sopra una verga avviluppata di edera verde, allusione ai due amanti. Fece seguito, di poco posteriore, la concessione dei feudi di Desio e di Marliano.
Nonostante la M. frequentasse la corte ducale, principalmente per assistere alle partite di pallacorda, gioco che tanto appassionava lo Sforza e che si svolgeva nell’apposita sala del castello, la sua discrezione e la prudenza la rendevano restia a stringere legami con quell’ambiente. Così, fu soltanto per assecondare le insistenti esortazioni dell’amante che, nell’agosto 1476, si risolse a intrattenersi con le figlie del potente Piero Pusterla, già consigliere occulto del duca Francesco, utilizzato all’occorrenza come contraltare politico al primo segretario Cicco Simonetta. A differenza dei parenti, naturali e acquisiti, che dal suo legame con Galeazzo Maria cercavano di trarre ogni possibile vantaggio, della M. è noto che avanzò all’amante soltanto una richiesta di grazia, peraltro prontamente esaudita, in favore di un certo Cornelio Balbo, che lo Sforza aveva condannato a morte. Anche l’episodio del padre confessore Giacomo da Sesto, condannato a morte dal duca per aver negato l’assoluzione alla M., deve essere rivisitato, perché il rifiuto del religioso, opposto in coscienza, suscitò in Galeazzo grande ammirazione e tornò a beneficio del frate e del suo convento, S. Maria delle Grazie (Villa, p. 303).
Raffinato umanista, il duca non trascurò di far celebrare la propria amata anche commissionando poesie a rimatori professionisti, come il fiorentino Bernardo Cambini (ibid., p. 301). Dieci sonetti, rimasti anonimi, sono stati pubblicati da Morbio insieme con il testo delle principali donazioni fatte alla Marliani. I sonetti, che secondo il curatore provengono direttamente dall’archivio dei conti Marliani, sono scritti probabilmente «da qualcuno dei poeti che fiorirono alla corte sforzesca, come Gaspare Visconti, il Filelfo e il Bellincioni» (Flamini, 1895). La vita della M., del resto, non cessa ancor oggi di attirare l’interesse di eruditi e romanzieri.
Morto Galeazzo Maria per mano dei congiurati il 26 dic. 1476, la M. rischiò il tracollo e forse anche la vita. La duchessa vedova Bona di Savoia, tutrice del figlio minorenne Gian Galeazzo, aveva finalmente l’opportunità di sfogare il rancore accumulato nel corso di tre lunghi anni di reiterate umiliazioni. Il governo di reggenza impose alla M. di rinunciare al titolo e al feudo di Melzo e Gorgonzola, ma non ebbe la forza politica di spingersi oltre. La duchessa si fece restituire i gioielli donati alla M. dallo Sforza, ma anche in questo caso solo quelli che poté dimostrare esserle appartenuti. Ludovico il Moro, che tramava l’usurpazione del titolo ducale al nipote, si rivelò infatti un prezioso alleato della M. che, sebbene nel 1481 fosse stata costretta alla devoluzione, già nel 1487 riacquistò il titolo a se stessa e il feudo ai suoi figli, oltre ai beni e alle rendite compensatori, tra i quali probabilmente una casa a Inzago, che aveva già attenuto in precedenza. Nel 1497 si aggiunsero il palazzo e il giardino di Cusago, detto «lo steccatello», assegnati alla M. da Ludovico il Moro, forse come vitalizio e comunque tramite atto privato, che erano appartenuti alla consorte di Ludovico, Beatrice d’Este.
La discrezione e la saggezza che i contemporanei le riconoscevano erano di certo accompagnate da pugnace determinazione, come dimostra la lite che per due anni, dal 1508 al 1510, oppose la M. al vescovo di Piacenza in ragione dell’eredità contesa dei preziosi arazzi «que fuerunt del quondam Fabrizio Marliani», defunto presule di quella diocesi (Motta, 1903). Nel 1475, la M. aveva peraltro ereditato i beni dello zio Michele, vescovo di Tortona.
Gravemente ammalata di idropisia, il 14 dic. 1522 la M. dispose, con testamento rogato dal notaio Martino Scaravaggi di Baldassarre, un lascito di 400 lire imperiali in favore del luogo pio della Carità, cui Galeazzo Maria aveva accordato, nel 1476, privilegi ed esenzioni.
Morì il 15 dic. 1522, a Milano, nella casa di Porta Nuova, parrocchia di S. Bartolomeo, e fu sepolta in S. Pietro in Gessate, nella cappella di S. Michele di proprietà della famiglia del marito.
La M. aveva quattro sorelle: Orsina, morta prima del 1473; Cecilia, moglie di Cristoforo Landriani; Veronica, moglie del giurisperito Alessandro da Rho; Franceschina. La sorellastra Angela, figlia di Pietro e della prima moglie Angela de Vitali da Siena, sposò Aloisio Sudati.
Dalla sua relazione con Galeazzo Maria nacquero due figli: Ottaviano (1476-1541) e Galeazzo, il «contino di Melzo», nato nel 1477 e morto nel 1515. Nel 1497 Ottaviano fu nominato vescovo di Lodi per volontà dello zio Ludovico il Moro e intercessione del cugino Fabrizio Marliani, vescovo di Piacenza. Diventato vescovo di Arezzo, sostenne la politica di restaurazione sforzesca con un’abile azione diplomatica.
Da Ambrogio Raverti, suo legittimo sposo, con il quale tornò a convivere dopo la morte di Galeazzo Maria, ebbe poi altri sette figli, tra i quali, noti, Gerolamo, Giovan Pietro, Pietro Agostino e Ambrosina.
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