LUCCHESE di Poggibonsi
Nacque presumibilmente nell'ultimo quarto del secolo XII a Gaggiano (oggi Cedda, frazione di Poggibonsi) da una famiglia di contadini piccoli proprietari.
La conoscenza della vicenda di L. e di sua moglie Bonadonna - documentati ed entrambi vissuti in odore di santità nel castello di Poggibonsi alla metà del Duecento - discende tutta da una perduta legenda antiqua cui sembrano direttamente rifarsi le successive testimonianze, distribuite tra XIV e XVI secolo. Il culto riservato a L. dovette avviarsi con i riti delle esequie analogamente a quanto, nello stesso periodo, era avvenuto a Firenze con la beata Umiliana Cerchi, penitente laica di guida e ispirazione francescana, che gravitò intorno al convento fiorentino di S. Croce nella prima metà del Duecento.
Secondo le due più antiche leggende lucchesiane i resti di L. furono esposti per due giorni alla pietà dei fedeli nella chiesa francescana del castello di Poggibonsi e lì sepolti, mentre i primi miracoli confermavano la fama del nuovo "santo". Il culto fu proposto dai francescani anche grazie all'elaborazione di una scrittura agiografica fondata sulla memoria del confessore di L., fra Ildebrandino (uno dei principali testi dei miracoli avvenuti nei giorni della sepoltura: prodigi che i frati vollero raccolti in deposizioni giurate). Esso, probabilmente già da questo periodo, assunse abbastanza rapidamente dimensioni civiche, tuttavia non documentabili per la seconda metà del XIII secolo, in conseguenza della tormentata situazione politico-militare vissuta dal Comune castellano di "Podium Bonitii" in quel periodo, che culminò con la distruzione della rocca nel 1270 e con il trasferimento della popolazione residua nel borgo di Marturi. Il ristabilirsi di un ordine civile e politico, sotto la sovranità fiorentina, è testimoniato, nei primi anni del Trecento, dalla rielaborazione di testi statutari dai quali si evincono il riconoscimento pubblico del ruolo patronale di L. (come nella rubrica 14 del V libro che ispirò le riformagioni annuali relative alla festa fino a tutto il 1332, quando furono redatti i nuovi statuti, poi promulgati nel 1333: cfr. Pucci) e l'importanza dell'omaggio memoriale che si tributava a L. nel suo dies natalis, il 28 aprile. La successiva evoluzione statutaria avrebbe confermato per tutta l'età moderna questo suo ruolo, mentre si andarono precisando anche gli "obblighi" del Comune nei confronti dei frati amministratori del culto e della loro chiesa, la piccola S. Maria del borgo di Camaldo, che tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo sarebbe stata radicalmente modificata per ospitare il loro complesso conventuale, dapprima dedicata a S. Francesco e poi a S. Lucchese.
L'acquisizione fiorentina di molte delle terre valdelsane, che per lungo tempo avevano rappresentato l'inquieto confine politico ed ecclesiastico con Siena, ebbe conseguenze anche sul piano dell'organizzazione della memoria agiografica, dal momento che la nuova Dominante sentì il bisogno di sussumere i culti delle terre soggette entro un proprium territoriale che trova una delle sue prime esemplificazioni nel leggendario trasmesso dal ms. XX.6 della Biblioteca Laurenziana di Firenze. Questa epitome fu redatta nel quarto o quinto decennio del Trecento e in essa - accanto ad altre abbreviationes relative a santi di confine tra i territori valdelsani e volterrani sui quali ormai Firenze espandeva i suoi interessi politici, come Fina di San Gimignano, Verdiana da Castelfiorentino o Galgano di Chiusino - appare anche una sintetica Vita di L. che, per quanto dipendente dalla primitiva e perduta legenda antiqua, costituisce cronologicamente il primo testimone della sua biografia.
Da questa sommaria narrazione risulta che "Lucensis" aveva sposato in gioventù certa Bonadonna, da cui aveva avuto alcuni figli. Costretto ad abbandonare la sua terra per motivi che l'agiografo non precisa, si trasferì a Poggibonsi, dove esercitò i mestieri di pizzicagnolo e di prestatore, attività che gli avrebbe consentito di raggiungere una discreta agiatezza. La morte prematura dei figli lo spinse a una "conversatio" spirituale che, condivisa dalla moglie, lo avrebbe avvicinato alle proposte penitenziali della primitiva fraternità francescana, in fase di espansione toscana e valdelsana nei primi decenni del Duecento.
Lo scarno tessuto narrativo con cui l'anonimo autore dell'epitome laurenziana descrive gli esordi della conversione di L. trova conferma in un atto di vendita del 7 ag. 1227 nel quale egli, con la moglie, cedeva ad alcuni parenti la casa di lei, evidentemente con l'intenzione di aderire ai dettami pauperistici dell'"Ordo poenitentium". Ritiratisi in una modesta proprietà, i due si dedicarono all'assistenza di poveri e bisognosi; L. si spinse, nelle sue "cerche" di misericordia, fino nella lontana Maremma, dedito alla penitenza e all'orazione. Quando, ormai anziana, Bonadonna, anche lei in fama di santità, si ammalò gravemente, L. la assistette.
L. morì subito dopo la sua compagna di vita e di penitenza, il 28 aprile di un anno da collocare tra il 1240 e il 1251: in un testamento datato 4 dic. 1251 (Morandi, 1980, p. 682), egli risulta già defunto.
I coniugi, stando al racconto del leggendario fiorentino, furono sepolti insieme nel "locum" dei frati minori; successivamente, forse per non esercitare un'eccessiva concorrenza con il clero locale, Bonadonna sarebbe stata traslata nella pieve. La tradizione che attribuiva ai coniugi, ancora viventi, un consistente sforzo nel favorire l'insediamento e il radicamento francescano nell'area di Poggibonsi trova conferma all'indomani della loro morte, grazie all'uso che i frati poterono fare del culto, promuovendo la trasformazione dell'antico, piccolo, edificio rurale in cui si erano insediati in un grande complesso conventuale, meta di un'intensa devozione; così come testimonia la fioritura di miracoli che l'anonimo autore registra fino al primo trentennio del Trecento, epoca alla quale va in modo approssimativo riferito anche il termine ad quem della composizione perduta da cui egli prese spunto.
Una seconda, più ampia biografia di L. fu elaborata intorno al 1370 dal minorita senese fra Bartolomeo dei Tolomei (m. 1396) - già maestro di teologia a S. Francesco di Siena e poi vescovo di Castellaneta - il quale gli attribuiva il merito di avergli salvato la vita durante un naufragio, al ritorno dal capitolo generale di Marsiglia del 1343. Evidentemente, ritenuto idoneo dal punto di vista teologico e letterario, Bartolomeo era stato sollecitato a riprendere in mano il primitivo racconto agiografico relativo a L. sia dai frati della Custodia senese, interessati a promuovere il suo ricordo tra le glorie della loro provincia, sia dai cittadini di Poggibonsi, ansiosi di assicurare una nuova dignità al loro "santo" e alla sua "vecchia" agiografia. Egli riprendeva così la leggenda primitiva e, reimpostandola sulla scorta del modello delle biografie bonaventuriane di s. Francesco, sacrificava - pur senza ometterli completamente e restando sostanzialmente fedele al disegno narrativo della legenda antiqua - i dati locali e storici che essa trasmetteva, a favore del tratteggio morale e parenetico della figura spirituale di Lucchese. Il testo è noto attraverso la trascrizione che ne fece, nel 1477, il minorita Bartolomeo Lippi (Bartolomeo di Giovanni da Colle), il più noto umanista della generazione osservantina toscana. Questi ricoprì nell'Ordine incarichi di rilievo e fu tra gli amici di casa Medici (in particolare di Lorenzo) che egli a più riprese stimolò affinché fossero eseguiti i restauri nella chiesa e nel convento di S. Lucchese a Poggibonsi (interventi resisi necessari dopo l'occupazione e il saccheggio dei mercenari di Sigismondo Pandolfo Malatesta, allora al soldo di Firenze nella guerra contro Alfonso I d'Aragona, re di Napoli). Lippi non intervenne in maniera sostanziale nel racconto di Bartolomeo dei Tolomei - stando almeno a quanto egli asserisce - limitandosi a un'operazione di abbellimento giustificata anche dalle cattive condizioni del codice.
Confrontandola con quella trasmessa dal leggendario fiorentino, la versione dei due Bartolomei mostra con essa punti di contatto che sembrano discendere da una fonte comune, anche se rispetto all'abbreviatio laurenziana il programma narrativo sviluppato dal frate senese si dimostra condotto su uno schema agiografico più ordinato e coerente. Dopo il prologo, in cui si anticipano i tratti essenziali del protagonista e le intenzioni dell'autore, l'opera si articola in sette capitoli nei quali progressivamente si descrivono le fasi della vita di L. precedenti la conversione, poi il suo incontro con Francesco d'Assisi, l'ingresso nel Terz'Ordine e la nuova conversatio penitenziale (la compassione e la carità verso i poveri e gli ammalati, la forte concentrazione devozionale e contemplativa, lo spirito di profezia, le mortificazioni, il regime di vita scandito dalla povertà e dall'umiltà, la pazienza nelle tribolazioni) e infine la santa morte. Nell'ultimo capitolo Bartolomeo dei Tolomei dà conto dei miracoli, che si sarebbero verificati - in varie località ma particolarmente in Valdelsa - fra la morte di L. e il 1360, con l'aggiornamento di un ventennio circa, rispetto alla cronologia dell'epitome fiorentina. Tendenzialmente più dettagliata di essa anche nel resoconto biografico, questa narrazione riprende dalle origini la stagione mondana della vita di L., attribuendo a una militanza politica l'abbandono di Gaggiano e l'"esilio" a Poggibonsi. Descritto come un ricco e affermato uomo d'affari, L., ormai "grasso" biadaiolo e usuraio, si prestava, nella rappresentazione di Bartolomeo dei Tolomei (che certamente aveva presente un altro caso agiologico importante nell'area a lui più familiare, quello di Giovanni Colombini, carismatico fondatore della penitenziale "brigata" dei gesuati), a incarnare il modello "sanfrancescano", fondato sull'annichilimento del potere mondano attraverso il sacrum commercium con Donna Povertà. A differenza del testo tradito dal leggendario laurenziano, quello dei due Bartolomei esalta il ruolo dell'incontro tra L. e Francesco, nonché l'episodio della richiesta dell'abito della penitenza, ottenuto insieme con la moglie Bonadonna e altri devoti di Poggibonsi.
Il carattere più marcatamente minoritico di questa Legenda può effettivamente suggerire una sovrascrittura francescana della figura di L. che, assente nella abbreviatio fiorentina, forse lo fu anche, come suggerisce Volpini, nella perduta leggenda primitiva. Appartiene a questa impressio anche l'esaltazione del ruolo di fra Ildebrandino, dei francescani di Poggibonsi, come guida di coscienza per il penitente, maestro spirituale della sua vita e attento orchestratore del santo passaggio della sua morte.
Sancito nell'epoca in cui si avviava a livello istituzionale la "francescanizzazione" dell'Ordine della penitenza (Meersseman), il ruolo di L. nella mitopoiesi del Terzo Ordine francescano si sarebbe precisato definitivamente solo nel XVI secolo, anche se già nella cronistica francescana del tardo XIV secolo si avviava quel processo di identificazione che avrebbe autorizzato a riconoscere in L. quel "sanctus Lucius" che - secondo la Chronica XXIV generalium, redatta tra il 1365 e il 1374, Francesco avrebbe accolto per primo, nel 1221, alla forma vitae penitenziale. Ereditata dalle compilazioni successive - Pietro da Traù (1384-85) e Bartolomeo da Pisa (1385-90) - la tradizione di un "sanctus frater Lucensis de Podio Bonzi" si consolidava nella storiografia dell'Ordine negli anni in cui si provvedeva al rifacimento della scrittura agiografica di L. e al perfezionamento "spaziale" del suo culto nella grande basilica santuariale in suo onore. Fu però Mariano da Firenze (1474-1523), con la sua instancabile attività storiografica, a stabilire definitivamente il "primato" di L. nella storia francescana del Terzo Ordine, anche se proprio con le pagine dedicate alla biografia di L. doveva arrestarsi l'incompiuto Trattato nel quale egli per primo riassumeva l'intera vicenda storica e istituzionale dell'Ordine della penitenza incardinandolo decisamente nella vicenda spirituale del fondatore della "trina famiglia" francescana.
Nonostante il successo di L. sia nella tradizione locale sia nella memoria minoritica, non si ebbe alcuna sanzione canonica al suo culto, né a tal proposito è accettabile la tradizione che attribuisce a Gregorio X un primo riconoscimento; il papa, di passaggio a Poggibonsi nel 1273, avrebbe sottoposto la reliquia della testa di L. a una sorta di prodigioso iudicium Dei: gettata nel fuoco, essa sarebbe schizzata fuori dalle fiamme cadendo illesa ai piedi del pontefice. Questo episodio leggendario, trasmesso per la prima volta da Mariano da Firenze, testimonia l'avvenuta manipolazione del corpo di L., la cui testa fu traslata nel 1361 nell'altare maggiore della cappella che il Comune aveva voluto dedicargli, assicurandogli una posizione d'onore nel transetto. Il culto "ab immemorabili prestito" fu confermato solo nel 1608 con una prima concessione dell'ufficio dal vescovo di Colle di Valdelsa, mentre la definitiva sanzione della congregazione dei Riti si sarebbe fatta attendere per quasi un altro secolo (27 marzo 1697). A partire da questa data esso fu accolto anche nella tradizione liturgica delle varie famiglie francescane e conobbe una stagione particolare nel 1921, quando si intese dare particolare risalto alle celebrazioni del VII centenario dell'istituzione del Terzo Ordine Francescano, e nel 1960, ritenuto erroneamente il centenario della morte.
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