Lucca
– È ricordata da D. in VE I XIII 1 a proposito di Bonagiunta, citato tra i poeti toscani che mostrano di arrogarsi l'onore del volgare illustre, e al § 2, in cui sono citati due ottonari in dialetto lucchese (Fo voto a dio, ke in grassarra eie lo comuno de Lucca), per criticarne aspramente la rozzezza del lessico e la volgarità della morfologia.
Il primo incontro con personaggi lucchesi nella Commedia avviene nella bolgia dei lusingatori, dove D. trova il cavaliere Alessio Interminelli col capo sì di merda lordo, / che non parëa s'era laico o cherco, il quale, battendosi la zucca, risponde all'apostrofe di D.: Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe / ond'io non ebbi mai la lingua stucca (If XVIII 116-126). Nella bolgia dei barattieri (XXI 37-51), fra i Lucchesi che la popolano, è nominato Bonturo Dati che nel 1308, dopo la cacciata da L. della fazione magnatizia, instaurò, insieme con Picchio di Guglielmo caciaiolo e Cecco di Erro, un governo violento e demagogo. È questo uno dei periodi più tristi della storia di L., in cui gente superba e inetta, salita d'improvviso alle più alte cariche dello stato, governava con la rapacità, gl'intrighi, le ruberie. Contro L. di Parte nera, che si adoprò per la distruzione della Parte bianca fiorentina e ne fu la più fiera nemica, contro la città che aveva dato i natali ai partigiani di Corso Donati, a Bonturo, D. sfogò la sua amarezza. I versi dedicati alla città ove ogn'uom ... è barattier, fuor che Bonturo, ove del no, per li denar ... si fa ita (XXI 41-42), sfumano nell'amara ironia e nel tagliente sarcasmo. Attraverso la voce del diavolo, che è la stessa voce corrucciata del poeta, giungono a noi i segni della passione di D.: anche se egli scrive in un'epoca posteriore al momento cronologico della finzione poetica, quando la tirannide di Bonturo era ormai caduta sotto i colpi inflitti a L. da Uguccione della Faggiuola, il suo rancore non si è per nulla attenuato. Con questo episodio D. risponde ai Neri che lo infamarono di baratteria, e si capisce che la sua è la protesta dell'innocenza calunniata.
Una sorta di palinodia nei riguardi di L. si ha nell'episodio di Bonagiunta Orbicciani (Pg XXIV 19-20, 34-63). L'incontro con il poeta lucchese offre a D. il modo di riabilitare L., redentasi ai suoi occhi con la cacciata del governo dei Neri per opera di Uguccione della Faggiuola. Questi, capo del partito imperiale in Toscana, aveva consentito il ritorno dai loro luoghi di esilio ai Bianchi e aveva acceso in D. le speranze, ormai declinanti dopo la morte di Enrico VII, di un prossimo ritorno nella patria diletta.
Il 4 settembre 1260 L. aveva preso parte alla battaglia di Montaperti, che aveva aperto vuoti sanguinosi, oltre che nelle file dei Fiorentini, anche in quelle lucchesi. Molti dei guelfi fiorentini scampati alla battaglia, magnati e popolani, si erano rifugiati tra le mura di L., rimasta ultimo baluardo in Toscana di Parte guelfa. Per qualche tempo la città era riuscita a sostenere l'urto dei ghibellini, che ne avevano giurato la distruzione dinanzi al vicario di Manfredi, ma nel 1263, per scongiurare l'estrema rovina, aveva dovuto sottomettersi. Dopo la battaglia di Benevento era ritornata guelfa chiamando a reggere le sue sorti Guido Guerra, che in sua vita / fece col senno assai e con la spada (If XVI 38-39). Nel 1289 a Campaldino, dove D. combatté tra i feditori, la cavalleria lucchese, unitamente a quella fiorentina e pistoiese, aveva assalito sul fianco quella nemica, volgendo le sorti dello scontro in favore della Taglia guelfa. Dopo qualche mese, L. aveva rivolto il suo sforzo contro Pisa, con la quale era già in guerra dall'anno prima, e aveva costretto alla resa, dopo breve assedio, il castello di Caprona (agosto 1289). A questa impresa i Fiorentini avevano contribuito con 400 cavalieri, tra i quali D., che vide li fanti / ch'uscivan patteggiati di Caprona (If XXI 94-95). Animatore della guerra, che si prolungò sino al 1293, era stato Nino Visconti, giudice di Gallura (Pg VIII 53), il quale, espulso da Pisa, a L. aveva trovato rifugio e protezione. La rovina di L., secondo D., era cominciata nel 1300, quando in essa, come in Firenze e in altre città toscane, i guelfi si erano divisi in Bianchi, con a capo gl'Interminelli, e Neri, con a capo gli Obizi. Nella lotta fra le due fazioni avevano avuto il sopravvento questi ultimi. Sul finire del 1303 L. si era data un nuovo assetto politico. Erano stati chiamati al governo della città ventidue cittadini: cinque magnati, uno per porta, e diciassette popolani: tra questi ultimi, eletto dalla Società della Testa, quel Bonturo Dati che aveva poi, con la violenza e la corruzione, instaurato una sorta di dittatura popolare.
Mancano testimonianze documentarie del soggiorno a L. accennato in Pg XXIV 37-48, durante il quale D. avrebbe avuto il conforto e l'ospitalità amica di Gentucca; né Pietro, suo figliolo, che avrebbe certo potuto dirci tante cose, e sul soggiorno e su Gentucca, ci dice nulla di particolare nel suo commento e nulla di più di quanto si può dedurre dal testo del poema.
Alcuni biografi hanno supposto che D. si sia recato a L., indottovi dallo svolgersi degli avvenimenti, nel 1307, dopo aver lasciato la Lunigiana per il Casentino. Qui il poeta avrebbe portato forse anche la famiglia, se si riconosce per suo figlio quel Giovanni che appare in un atto di mercanti del 21 ottobre 1308. Comunque la permanenza nella città dovette essere breve, perché il 31 marzo 1309 un editto del comune interdiceva " ai condannati e agli sbanditi dalla città di Firenze il soggiorno nella città e nel suo distretto e contado ". Altri sostengono che D. si sia recato a L. negli anni fra il 1314 e il 1316, quando la città era la roccaforte del partito imperiale, dato che in un decreto del 15 ottobre 1315 Firenze, da poco risollevatasi dalla disfatta di Montecatini, condannava a morte lui e i figli.
Comunque D. di L. conosceva oltre a uomini, lingua, avvenimenti, retroscena politici, anche luoghi, usi, credenze. Ricorda nella Commedia il Monte San Giuliano, per che i Pisan veder Lucca non ponno (If XXXIII 30); il fiume Serchio, che scorre vicino alla città, posta sulla riva destra (XXI 49); la statua lignea del Cristo, detta il Santo Volto (XXI 48; ma D. potrebbe anche riferirsi all'effige coniata sulla moneta lucchese sin dal 1235), che è conservata da tempi remoti nella chiesa di San Martino; il culto per Zita da Monsagrati, ritenuta santa dal popolo.
Nell'Archivio di Stato di L. è conservato un frammento pergamenaceo della fine del sec. XIV, che tramanda alle cc. 18-25 i canti VII 1-136, XXI 67-136, XXIV 1-12, XXV 1-66 del Purgatorio (cfr. M. Pelaez, in " Giorn. d. " IV [1896] 349-355). Nella biblioteca Governativa sono custoditi due manoscritti cartacei della Commedia. Il primo, segnato 290, del XV secolo, è mancante dei canti da I 1 a IV 76 e da XXVII 9 a XXVIII 12 dell'Inferno e da XXIV 12 a XXXIII 145 del Paradiso. Il secondo, segnato 1290, anch'esso del XV secolo, è acefalo e manca pertanto dei canti da I 1 a XI 109 dell'Inferno. Sempre nella biblioteca Governativa si conservano cinque manoscritti miscellanei di rime antiche, segnati 1486, 1496, di mano del XVIII secolo, appartenuti a Cesare Lucchesini; 1490, anch'esso del XVIII secolo, appartenuto a Giovanni Lucchesini; 1539, di varie mani dei secoli XVI, XVII e XVIII; 1543 del secolo XVIII, tramandano rime di D. o a lui attribuite e varianti tratte da altri codici (cfr. D. De Robertis, Censimento dei manoscritti delle rime di D., in " Studi d. " XLIII [1966] 208-216).
A L. furono esemplati il codice Riccardiano 1036, degl'inizi del sec. XV, contenente la Commedia, e l'Italiano 54 (Norton 3), oggi alla biblioteca dell'Harvard College di Cambridge (Massachusetts), con Inferno e Paradiso, datato 1457; ambedue i codici furono esemplati da Bartolomeo di Andrea Massoni, lucchese.
La sola stampa di rilievo di opere dantesche eseguita a L. fu il D. con una breve e sufficiente dichiarazione del senso letterale diversa in più luoghi da quella degli antichi commentatori (Capurri, 1732), prima edizione del commento del gesuita Pompeo Venturi stampato a cura del confratello Fabio Placidi, che, autorizzato peraltro dall'autore, modificò, omise, corresse molte osservazioni del Venturi (la prima ediz. integrale del commento uscì a Verona nel 1749).
L'interesse della città per D. e la sua opera è dunque modesto rispetto a quello manifestato da altre città, toscane e no, anche nel campo della critica. Un certo rilievo, pur sempre inadeguato, ha assunto solo nell'Ottocento e nel nostro secolo. Se si escludono il Carducci, nato in provincia di L., e il Pascoli, che a Barga, in Garfagnana, stabilì la sua residenza, contributi significativi dettero S. Bongi, G. Bassi, R. Fornaciari, C. Minutoli, C. Lucchesini, C. Pagano Paganini, A. Mancini, livornese che a L. trascorse gran parte della sua vita e la considerò la sua città, F.P. Luiso, M. Lombardi Lotti, G. Lera, F.Del Beccaro.
Bibl. - C. Minutoli, Gentucca e gli altri lucchesi nominati nella D.C., in " Atti R. Accad. Lucchese Scienze Lettere Arti " XVIII (1859) 56-106 (rist. in D. e il suo secolo, Firenze 1865); S. Bongi, Di un nuovo commento sul re dei barattieri di L., in " Il Propugnatore " I (1868) 229-231; I. Del Lungo, I Bianchi e i Neri, pagine di storia fiorentina da Bonifacio VIII ad Arrigo VII per la vita di D., Milano 1921²; F.P. Luiso, D. e L., in D., la vita, le opere, le grandi città dantesche, ibid. 1921, 172-190; ID., Un documento inedito lucchese che interessa la biografia di D., Lucca 1921; Zingarelli, Dante 506 ss.; A. Mancini, Il nuovo figlio di D., in " Nuova Antol. " marzo 1922; M. Barbi, Un altro figlio di D.?, in " Studi d. " V (1922) 5-39 (rist. in Problemi I 347-370); ID., Giovanni di D. Alighieri e la dimora del poeta in L., in " Studi d. " VI (1923) 131-133; M. Lombardi Lotti, Un canto dell'Inferno tutto lucchese, in " Notiziario Filatelico " V (1965) fasc. 10-12.
Lingua. – Nella rassegna vivacemente polemica e satirica di VE I XIII 2 D. chiama in causa, assieme a quelli delle altre città toscane più importanti, anche il vernacolo lucchese, caratterizzandolo con l'icastica frase Fo voto a Dio, ke in grassarra eie lo comuno de Lucca (" Giuraddio che il comune di Lucca è in grande prosperità, nuota nell'abbondanza "), in cui alla ridicola esibizione di gretta prosopopea municipale corrisponde la marcata rozzezza e trivialità dei modi espressivi.
Oltre a grassarra, per cui non soccorrono riscontri ma che va certo connessa con grascia, fa spicco in questo senso la formula invocativa fo voto a Dio (da mettere in parallelo a Per le plaghe de Dio attribuita in VE I XIV 6 ai Veneziani), infatti caratteristica di contesti di evidente livello e tonalità realistico-plebei: cfr. Io fo ben boto a Dio: se Ghigo fosse di Rustico Filippi, " Io fo boto a Dio " (e simili) nel Boccaccio (Dec. VII 6 16, VIII 2 43, 5 17, 9 62, IX 5 61) e nel Sacchetti (Trecentonovelle, ediz. Pernicone, Firenze 1946, CII 36), e v. in generale P. Rüsch, Invokations- und Fluchformeln im Italienischen, Winterthut 1963; si può ricordare al proposito che il Parodi (in " Rass. Bibliogr. Lett. Ital. " IV [1896] 260) sospettava che l'originaria forma dantesca non fosse voto ma appunto il più popolare ‛ boto '.
Alla coloritura plebea e municipale dell'enunciato contribuiscono comunque anche i tratti fono-morfologici ‛ non illustri ' che vi compaiono, benché non siano elementi obiettivamente specifici dell'antico lucchese. A parte il generico de, era di ampia diffusione in Toscana il metaplastico comuno (in ogni caso, per L., v. S. Pieri, in " Arch. Glottol. It. " XII [1890-92] 161 e C. Salvioni, ibid. XVI [1892-95] 416), e lo stesso eie, con i epentetico in iato da un precedente tipo paragogico èe (presente subito sotto nell'esempio senese ma infiltratosi, in rima, pure nella Commedia, If XXIV 90, Pg XXXII 10 e Pd XXVIII 123), era proprio anche di altri dialetti della regione, fiorentino compreso: cfr. Schiaffini, Testi XLV-XLVI, e Castellani, Nuovi testi I 43 nota.
Tra gli studiosi del De vulg. Eloq. è prevalsa la tendenza a considerare la frase lucchese, come le altre esemplificazioni dei dialetti toscani, quale frammento poetico (e magari citazione di una poesia o canto popolare della zona): donde proposte di scansione o in due ottonari, con pausa dopo grassarra (D'Ovidio, seguito fra gli altri dal Marigo), o in due quinari più un settenario: Fo voto a Dio / ke in grassarra eie / lo comuno de Lucca (altra ipotesi del D'Ovidio, sia pure dubitativa). Di quest'ultima proposta appare evidente la scarsa economicità e verosimiglianza, mentre l'altra e più razionale interpretazione (a base ottonaria è, tra l'altro, proprio il Ritmo lucchese) richiede la lettura monosillabica, con sinizesi, di eie, ardua da ammettere specie tenendo conto (come ha osservato il Contini) che si tratta di un tipo successivamente evoluto in Lucchesia a eglie; e del resto due fra i quattro esempi toscani adiacenti appaiono analizzabili come versi solo con grande difficoltà e a prezzo di forti arbitri (v. FIRENZE: Lingua; SIENA: Lingua). Meglio dunque la lettura prosastica (preferita dal Bertalot), cui non fa certo ostacolo la forte inversione sintattica, giustificabile tra l'altro, se ce ne fosse bisogno, con una volontà di enfatizzazione caricaturale.
A rappresentare per L. la categoria dei poeti toscani che non sono riusciti a staccarsi da un linguaggio municipale D. pone proprio (VE I XIII 1) l'importante Bonagiunta (v.), la cui lingua poetica è infatti abbondantemente maculata di tratti idiomatici locali, quali s(s) per z(z) sorda fiorentina, -ss- da -str-, ambur(o), " ambedue ", issa, " ora " (che D. gli mette appunto in bocca in Pg XXIV 55): cfr. Contini, Poeti I 258.
Bibl. - F. D'Ovidio, Sul trattato De vulg. Eloq. di D.A., in Versificazione romanza. Poetica e poesia popolare, II (= Opere di F. D'O., IX II), Napoli 1932, 319; Marigo, De vulg. Eloq. 113 (e recens. di G. Contini, in " Giorn. stor. " CXIII [1939] 286).
L. ai tempi di Dante. – L'assetto urbano di L. al tempo di D. è il risultato di successivi momenti che corrispondono al municipium romano, al dominio longobardo, alla lotta tra feudatari laici ed ecclesiastici, alla nascita del comune e al suo fiorire.
La città romana - che entra nella storiografia come colonia nel 180 a.C. (Livio Ab Urbe condita XL XLIII) - ebbe forma quadrangolare di circa m. 500 X 650, fu difesa da robuste mura con quattro porte al centro di ogni lato e fu divisa in cinquantaquattro insulae di circa m. 80 X 70. Le due strade principali s'incrociavano al centro nel forum.
Il passaggio da questo assetto a quello bassomedievale avvenne attraverso successivi interventi, tra la dominazione longobarda e la nascita del comune. Col secolo VIII i Longobardi erano sicuramente stabiliti all'interno della cinta romana. Nel centro cittadino, presso la plebs, risulta la curtis regia fiancheggiata dalla zecca e dalle chiese di S. Maria in Palazzo e di S. Pietro in Cortina: a ovest, esternamente alle mura, risulta un cahagium regis. Intorno al 1000 si possono poi constatare una nuova strutturazione viaria a reticolo anche obliquo interno al precedente (che però si conserva in parte fino a oggi) e l'assestamento delle case intorno alle ‛ corti ' interne.
Tra il sec. XII e la metà circa del XIII fu costruita una nuova cinta difensiva; oltre a comprendere l'abitato di periodo romano, seguendone a sud le mura, questa si allargava verso est e verso nord - in misura minore verso ovest - per comprendere i borghi di S. Gervasio e di S. Frediano e il braccio di S. Pietro Somaldi. L'aspetto della città, dall'esterno, era imponente. Le mura, rinforzate da mezze torri cilindriche, avevano un'altezza di circa 11 o 12 m.; vi si aprivano otto postierle e quattro grandiose porte fiancheggiate da alti torrioni cilindrici, in origine merlati come le mura, vivaci per la bicromia dei materiali (pietra grigia e calcare bianco di S. Maria del Giudice) e per le sculture (soggetti sacri sopra l'arco d'ingresso, e grandi leoni laterali, di cui alcuni superstiti ma spostati in altra ubicazione).
Nel sec. XIII alcuni edifici romani (anfiteatro, nel borgo S. Frediano, e teatro, presso la chiesa di S. Domenico, per i quali rimaneva la denominazione di " Parlascio ") sono già trasformati in grappoli di abitazioni; la piazza principale (" in Piazza ", " in Foro ", " in Mercato ") ha carattere civile e religioso (vi sorgeva dal sec. VIII la chiesa di S. Michele e vi si trovava il palazzo dove risiedettero podestà e consoli fino al 1201, e dopo il 1277 il consiglio maggiore). La città era divisa per porte (di S. Gervasio, di S. Pietro, di S. Donato, di S. Frediano), che riunivano varie contrade; più chiare indicazioni sulla riunione in porte di contrade e bracci si hanno con la prima metà del sec. XIV; solo nel 1370 L. è organizzata nei terzieri di S. Paolino, di S. Salvatore, di S. Martino.
Le fortune manufatturiere e commerciali del comune sono alla base del complesso rifacimento edilizio di periodo romanico e gotico. Tra il sec. XI e il XIII chiese di antica fondazione (alcune costruite nel VI secolo dal vescovo Frediano, altre da vescovi e nobili longobardi), anche quando erano di grandi e nobili forme, come S. Giovanni (plebs cittadina), o S. Martino (cattedrale almeno dal 725) o S. Frediano, subirono un rifacimento completo. Le prime a essere ricostruite, ad opera del vescovo Anselmo da Baggio, poi papa Alessandro II, furono S. Alessandro e la cattedrale. Al tempo di D. quest'ultima, a cinque navate (oggi tre), aveva la facciata che è pervenuta, datata nel 1204 da Guidetto da Como e proseguita dal 1233 al 1257 con la decorazione dell'atrio da un gruppo di artisti tra cui spicca Nicola Pisano. Nel 1070 iniziava il rifacimento di S. Michele in Foro, i cui lavori continueranno a lungo nelle varie parti dell'edificio (interno datato 1153; i lavori esterni s'interrompono nel 1383). Alla prima metà del sec. XII risale la chiesa attuale di S. Frediano (lavori iniziati nel 1112 dal priore Rotone, consacrata nel 1147 da Eugenio III), nel cui cimitero, intitolato a S. Caterina da Alessandria, venne deposta nel 1278 s. Zita; nella seconda metà del secolo trovava un solenne impianto basilicale S. Maria Forisportam; seguirono tra il XII e il XIII secolo le ricostruzioni di S. Giusto, S. Pietro Somaldi, S. Cristoforo, Ss. Simone e Giuda, S. Andrea, S. Anastasio.
La ricostruzione edilizia dei secoli XII-XIV cancellò anche, e quasi del tutto, quelle case in pietra che sono ricordate intorno al 1000; le nuove costruzioni cambiarono il volto interno di L. sia per il predominante - anche se non esclusivo - uso del mattone, sia per la diffusione delle arcate al pianterreno e per le ampie aperture delle polifore con colonnine bianche. Accanto alle case-torri si alzarono torri vere e proprie, di nobili famiglie inurbatesi dal contado e dalla marina. Le vie che insistevano sul tracciato romano, le rugae medievali, le strade scorciatoie a taglio obliquo, i chiassi che penetravano nelle corti, contribuirono a dare un profilo articolatissimo alla città, anche per gli scarti irregolari nell'allineamento delle case e per la loro differente altezza. Alcuni nodi viari furono detti ‛ canti ' (particolarmente importante il " canto d'Arco " tra il vecchio decumanus e la via Fillungo, e il " canton Bretti " tra via Buia e via Fillungo presso la corte e università dei Mercanti). L'addensamento edilizio su alcune vie fu certamente cospicuo, anche perché in altre larghe zone erano stati mantenuti gli orti urbani.
La casa lucchese del '200 e '300 è il documento più rilevante dell'architettura gotica locale; le chiese di nuova costruzione dovettero conciliare la nuova moda gotica con la fortissima e predominante tradizione romanica. Alla seconda metà del sec. XIII e ai primi del XIV risalgono le chiese degli ordini monastici: S. Romano, S. Maria dei Servi, S. Agostino, S. Francesco; in quest'ultima ancora resta il frammentario monumento, che conteneva un'Annunciazione a fresco, per Nino Visconti con l'iscrizione: " Hic est cor illustris / viri domini Ugolini iudicis Galluren/sis et domini tertiae partis Regni Calari/tani ". Accanto alle chiese monastiche, nel sec. XIV subirono rifacimenti piccole chiese altomedievali, come S. Giulia, prossima alle case della famiglia Allucingoli cui appartenne papa Lucio III, e prossima alla Magione dei Cavalieri dell'Altopascio, l'ordine ospedaliero sorto tra il X e i primi dell'XI secolo.
Dell'aspetto della città, Fazio degli Uberti dette questo compendio: " Andando, noi vedemmo in piccol cerchio / torreggiar Lucca a guisa d'un boschetto / e donnearsi con Prato [il luogo esterno alla città, verso ovest, detto " Prato del Marchese " dal palazzo dei marchesi di Tuscia] e con Serchio " (Dittamondo III VI 67-69). La profezia di Bonagiunta (ti farà piacere / la mia città, come ch'om la riprenda, Pg XXIV 45-46) certo indica un apprezzamento di L. da parte di Dante. Tuttavia nella Commedia non compare della città alcun ricordo architettonico o urbano, mentre appaiono invece due notazioni paesaggistiche: il Serchio, la cui fresca trasparenza è evocata per contrasto con la pece di Malebolge (qui si nuota altrimenti che nel Serchio!, If XXI 49) e i monti Pisani (If XXXIII 30) che la dividevano dalla città rivale, accanto al ricordo del Santo Volto e di s. Zita.
Bibl. - G. Matraia, L. nel Milleduecento, Lucca 1843; P. Pierotti, L., Milano 1965; P.C. Santini, L. e la sua terra, Lucca 1967; M. Fulvio, L., le sue corti, le sue strade, le sue piazze, Empoli 1968; I. Belli Barsali, Guida di L., I, La Città, Lucca 1970² (con ulteriore bibl.).