VALERIO (Valeri), Luca
VALERIO (Valeri), Luca. – Nacque a Napoli in data ignota, tra la fine del 1552 e i primi mesi del 1553. Il padre Giovanni, di Ferrara, era probabilmente di stato sociale modesto (una fonte lo dice «coquo»; nel testamento il figlio sarà detto «nobilis neapolitanus», ma mancano riscontri). La madre Vincenza Rodomano, di Corfù, aveva origini macedoni; non v’è notizia di altri figli.
Data la provenienza del padre talora Luca si disse anch’egli di Ferrara, e storici locali (Giovanni Andrea Barotti, Girolamo Baruffaldi, Leopoldo Cicognara, Luigi Ughi) hanno sostenuto che vi nascesse; tuttavia i documenti della Compagnia di Gesù, i documenti lincei e le attestazioni di conoscenti lo dicono sempre napoletano.
Secondo un contemporaneo fu per alcuni anni con la famiglia a Corfù, ma nulla di preciso si conosce della sua vita fino al 30 marzo 1570, quando entrò nel noviziato romano della Compagnia di Gesù avendo già studiato la retorica per un anno, ciò che suppone uno studio precedente del latino, inconsueto per il suo stato sociale. Dal tardo 1571 proseguì il corso di retorica nel Collegio romano; sebbene il corso fosse biennale, iniziò il triennio di filosofia nel tardo 1574, perciò forse tra 1572 e 1574 i superiori lo destinarono all’insegnamento primario o a compiti religiosi. In ogni caso, mostrò poi un solido possesso delle lingue e della metrica e stilistica classiche.
Nel secondo anno di filosofia (1575-76) seguì il corso di matematica di Cristoforo Clavio. Esibì presto una padronanza della disciplina ben maggiore di quella riferibile alle lezioni pubbliche, così è probabile che dal 1576 seguisse anche la ‘accademia’ avanzata tenuta da Clavio nel Collegio. In tal caso fu condiscepolo di Matteo Ricci, sebbene nessuno dei due citi l’altro negli scritti noti; forse seguirono entrambi un corso sulla teoria tolemaica dei pianeti tenuto dal maestro nell’estate del 1576. L’esperienza con Clavio fu decisiva, facendo della matematica il suo principale interesse intellettuale. Il suo docente di filosofia è ignoto, per le lacune dei catalogi del Collegio in quegli anni, ma la sua influenza fu senz’altro inferiore: l’allievo rimase forse fedele ad alcuni capisaldi della fisica tradizionale, ma non a tutte le sue tesi.
Nel 1577 iniziò il quadriennio di teologia, ancora nel Collegio romano, senza la pausa didattica solita per i gesuiti dopo aver conseguito il grado in filosofia; forse le sue doti spinsero Clavio a fargli proseguire l’esperienza nell’accademia. Un anno dopo, però, Valerio sospese gli studi senza giungere all’ordinazione sacerdotale (posta di solito nel terzo anno di teologia), recandosi a Napoli. La licenza concessagli dai superiori allude a necessità della madre, forse dovute alla morte del padre o a una separazione da lui (risultano due Giovanni Valerio morti a Ferrara attorno al 1600, ma non v’è prova che uno fosse suo padre). Alla licenza seguì l’uscita dalla Compagnia, concessa il 20 aprile 1580 dal generale Everard Mercurian «iustas ob causas et ad pietatem spectantes» (Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu, Hist. Soc., 54, c. 4v). Le fonti non attribuiscono a Valerio devianze nel comportamento, dissensi religiosi o insofferenza verso la disciplina, e il suo rapporto con Clavio e i suoi allievi restò solido; la causa probabile, quindi, fu il persistere delle difficoltà familiari.
Nello stesso 1580, o poco dopo, tornò a Roma, affrontando le necessità economiche poste dallo stato laicale. Il cardinale Marcantonio Colonna gli affidò l’istruzione di due nipoti, Marzio (cui Valerio dedicò nel 1606 la Quadratura parabolae per simplex falsum) e Camillo, che nel 1584 seguì a Pisa quando questi vi si recò per frequentare i corsi nell’università (Valerio ricordò poi a Galileo Galilei che si erano conosciuti allora, rievocando loro animate discussioni filosofiche, ignote ai biografi galileiani). Probabilmente nel 1586 seguì Camillo anche in uno spostamento a Pavia, dove però quasi subito il Colonna morì; tornò quindi a Roma, dove nel 1591 lo stesso cardinale, divenuto bibliotecario della Chiesa, lo nominò correttore dei libri greci nella Vaticana; tenne l’incarico quasi senza interruzione fino alla morte, curando anche i cataloghi e la correzione di bozze per la tipografia annessa.
Insieme, però, compì ricerche in geometria, sfociate (1580-81) nel Phylogeometricus tetragonismus, rimasto allora inedito, e nel Subtilium indagationum liber primus. Seu quadratura circuli et aliorum curvilineorum, edito a Roma nel 1582.
Del secondo restano pochissime copie, probabilmente perché il suo stato economico gli permise solo una stampa limitata, ma anche perché poi, maturata un’impostazione più rigorosa, tentò di limitarne la circolazione. Vi annunciò una seconda parte sulla statica, mai apparsa e che non figura in un inventario dei suoi inediti redatto alla morte. Le due operette vertono sulla misura di aree di figure piane curvilineee, tema tipico dell’archimedismo italiano del Cinquecento, ricorrendo a una fictio non nuova, ma mai impiegata sistematicamente, cioè un filo a piombo idealizzato, che portò risultati originali. In seguito Valerio abbandonò questo approccio ma la sua tematica rimase quella archimedea, rinnovata nel metodo e generalizzata; non scrisse mai di algebra.
Anche un insegnamento di matematica a Margherita Sarrocchi (1560-1617) attestato in fonti, fu forse degli anni Ottanta, perché la futura poetessa, poi centrale nella sua vita, studiò le discipline del quadrivio in età giovanile. In seguito Sarrocchi praticò l’astrologia, e una lettera di Valerio a Galileo sembra mostrare che anch’egli non ne era alieno. Entro il 1590 insegnò la filosofia morale al cardinale Ippolito Aldobrandini (dal 1592 Clemente VIII), che poi ne autorizzò la nomina a lettore di quella disciplina nella Sapienza; nel 1604, dedicandogli il De centro gravitatis solidorum, Valerio ricordò i «tua vetera in me beneficia». Almeno dal 1597 fu vicino al cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente, forse anche nel preparare l’annessione di Ferrara allo Stato pontificio. Probabilmente dal 1591, quando i gesuiti ne assunsero la direzione, insegnò greco o retorica nel Collegio greco di Roma, cessando plausibilmente nel 1600, quando divenne lettore nella Sapienza; nacque forse nel Collegio una delle sue poche amicizie attestate, quella con Giovanni Demisiani, pure cultore di matematica e in seguito suo collega tra i Lincei.
Agli esordi come autore e ai rapporti con famiglie della nobiltà romana non seguirono, però, ascesa sociale o fama: visse appartato, con frequentazioni limitate agli obblighi professionali e a ristretti ambienti culturali. Nella dedica del De centro a Clemente VIII scrisse che non pubblicava per «impetus animi ad gloriam, cuius nullum mihi natura semen impartivit»; la sua gloria era «ignaviae fugisse dedecus». Nelle accademie non cercò ruoli di spicco, né pare avervi stabilito rapporti personali stretti. Nel Subtilium indagationum liber menzionò Giovanni Battista Raimondi, figura simile alla sua, direttore della Stamperia orientale medicea e già docente di matematica nella Sapienza romana. Negli anni Novanta i due si mossero rispettivamente nei circoli dei cardinali Pietro e Cinzio Aldobrandini, parenti ma rivali, cosicché non è probabile che Valerio li frequentasse entrambi. Tuttavia, sebbene il suo nome non appaia in testimonianze su Raimondi, ancora nel 1612 lo propose per l’ammissione tra i Lincei, così le carte dell’orientalista, studiate solo in parte, potranno forse offrire dati. Nel 1593, nella prima edizione della sua Iconologia, Cesare Ripa citò Valerio («ingegnioso nelle cose poetiche, come raro nelle matematiche», Iconologia overo descrittione dell’imagini universali cavate dall’antichità, Roma, Heredi di Gio Gigliotti, 1593, p. 164) in un gruppo di letterati appartenuti all’Accademia romana degli Incitati, dissolta nel 1586. Fu forse di origine accademica anche la conoscenza successiva con il pittore e poeta Lodovico Cardi (il Cigoli), vicino a Galileo, che fu a Roma dal 1604.
L’inventario citato attribuisce a Valerio tre libri di composizioni poetiche, ma restano solo: due epigrammi greci (in Componimenti poetici volgari, latini & greci sopra la S. Imagine della Beata Vergine [...] nel monte della Guardia presso Bologna, Bologna 1601, pp. 71, 79); sette distici greci premessi al De centro gravitatis solidorum; due latini del novembre del 1611, diretti a Galileo e da lui premessi a Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari; uno in morte della Sarrocchi; dodici in lode di Firenze, forse da identificare con una ‘elegia’ inviata a Galileo ma non presente nelle sue carte; uno sul Mosè di Michelangelo (in F. Cancellieri, Lettera [...] al sig. canonico Domenico Moreni sopra la statua di Mosè, Firenze 1823, p. 29).
Nel 1600 o1601, grazie agli Aldobrandini o allo stesso Clemente VIII, Valerio ottenne la docenza di greco nell’Università di Roma e, su istanza di Clavio, quella di matematica ‘in diebus festis’. Alcune fonti citano il primo anno, ma il relativo rotulus accademico è perduto e quello del 1601 non precisa – com’era prassi – che insegnava da prima. Nel 1602, conservando la lettura di matematica, ottenne da Pietro Aldobrandini – previo consenso del papa – di passare da quella di greco a una di filosofia morale.
Tenne le letture fino alla morte, ma la sua docenza non ha quasi lasciato tracce nelle memorialistica romana del primo Seicento: non si conoscono allievi e mancano informazioni di qualche dettaglio sul suo insegnamento. In matematica trattò Euclide e Giovanni di Sacrobosco (probabilmente nelle edizioni claviane), integrati forse con le misure di aree e curve in Archimede e Apollonio, la theorica planetarum, elementi di statica e matematica applicata. Il contenuto dei corsi di filosofia morale – sulla quale non pubblicò né sembra aver scritto alcunché – è del tutto oscuro. Dopo il 1602 i frontespizi delle opere lo diranno docente di matematica e filosofia ‘civile’ (non morale, che era il nome ufficiale), e questo potrebbe significare che oltre ai testi standard di quell’insegnamento – le due Etiche aristoteliche con i loro principali esegeti – trattò anche la Politica e gli Economicorum libri; mancano però attestazioni concrete.
La carenza di notizie si spiega, più che con una scarsità d’impegno (peraltro non attestata), la penuria di uditori per la concorrenza del Collegio romano, o la marginalità della matematica nei programmi accademici, con la sua prevalente inclinazione alla ricerca e il disinteresse a costruire una rete di rapporti, anche scientifici. Fu in contatto con collaboratori e studenti di Clavio, quali Christoph Grienberger e poi Paul Guldin, ed entro il 1603 (probabilmente per loro tramite) con Marino Ghetaldi, con il quale forse corrispose e che nel gennaio del 1616 candidò all’ammissione tra i Lincei. Negli stessi anni citò come amico Pompeo Caimo, lettore nella Sapienza di filosofia e medicina teorica. A parte Galileo, però, non risultano rapporti con i maggiori matematici italiani; negli scritti, oltre a Clavio, citò quasi solo gli urbinati Federico Commandino e Guidobaldo Del Monte, precursori diretti del suo lavoro, né sembra aver corrisposto con il secondo – ancora vivente – o con suoi allievi.
In generale, della sua vita tra 1600 e 1609 si conoscono solo le opere. Nel 1604 pubblicò a Roma quella che gli portò fama tra gli specialisti, De centro gravitatis solidorum libri tres (rist. Bononiae 1661; una versione in cinque libri, annunciata più volte, non apparve e non ne restano neppure materiali preparatori). Nel 1606 seguì una Quadratura parabolae per simplex falsum. Et altera quam secunda Archimedis expeditior (rist. Bononiae 1660).
Il primo lavoro assunse un ruolo storico con il determinare i centri di gravità di tutti i solidi considerati nella tradizione geometrica, ampliando e perfezionando molto la precedente trattazione di Del Monte. Al proprio approccio precedente Valerio ne sostituì uno assiomatico rigoroso, che generalizzava e anche innovava le procedure archimedee, pur restando interno a un discorso geometrico classico. Nel secondo ribatté a obiezioni a due assunti della statica archimedea, l’esistenza di un baricentro delle figure piane (che le suppone pesanti), e il parallelismo delle linee di caduta tracciate da ogni loro punto (essendo la caduta diretta al centro della terra, le linee convergono). Distinse tra il loro status dimostrativo e la verità fisica, qualificando il primo un ‘simplex falsum’.
Questi scritti lo imposero come geometra di primo livello, anche all’estero. Nel 1610, quando Galileo lasciò la cattedra padovana, Paolo Sarpi lo suggerì come successore (ma non fu interpellato, pare per timore d’una richiesta economica eccessiva). Marin Mersenne incluse gli enunciati del De centro, privi di dimostrazione, nelle Authorum quorundam mathematicorum opera (II, Lutetiae 1626), poi nella Universae geometriae mixtaeque mathematicae synopsis (I, Parisiis 1644). Sebbene però la Quadratura e il De centro fossero citati da matematici italiani fino al primo Settecento, da circa il 1650 il fronte della ricerca li sorpassò, perché prima il metodo degli indivisibili, poi la geometria analitica semplificarono l’iter dimostrativo e permisero risultati molto più generali. Già Evangelista Torricelli ricordò Valerio come ‘nuovo Archimede’, ma insisté sui limiti dei suoi presupposti e procedure (De dimensione parabolae, Florentiae 1644, pp. 8, 55 s.). Oggi Valerio appare forse l’ultimo grande interprete della visione geometrica classica, che portò a limiti oltre i quali ne occorse una diversa.
Uno degli scritti matematici perduti fu una rielaborazione degli Elementi euclidei, che forse incluse un esame del postulato V del libro I, menzionato in una lettera a Galileo, fase del processo culminato a fine secolo in Giovanni Girolamo Saccheri. La dedica della Quadratura a Marzio Colonna accennò anche a temi di filosofia naturale.
Descrivendo il rapporto tra la nobiltà, sensibile alle lusinghe ma priva di veri interessi conoscitivi, e gli intellettuali volti ad attrarne l’interesse con tesi esteriormente brillanti, Valerio incluse tra queste l’idea di uno spazio vuoto infinito «extra coeli ambitum». La sua opposizione alla nozione di spazio dell’antico atomismo era ontologica prima che fisica, perché ne negava la possibilità, come mostra il titolo d’un inedito perduto: Del vacuo che è affatto impossibile et implica contraddizione. Così, pur giudicando verbalistica molta filosofia corrente (scrivendo a Galileo deplorò «una certa grammatica filosofica, o filosofia grammaticale, se però filosofia si dee chiamare quella che per lo più hoggi dì s’usa [...] per acquistar cicalando apparenza d’huomo dotto», cfr. Luca Valerio a Galileo Galilei, 23 agosto 1612, in Le opere di Galileo Galilei, XI, 1901, p. 381), non pare essersi dissociato in tutto dal quadro mentale tradizionale, o aver accettato una scissione totale tra fisica e metafisica. Uno scritto perduto, Delli principii matematici. Opera matematica et metafisica, toccò forse problemi focali negli anni di incipiente crisi dell’aristotelismo.
L’apprezzamento reciproco con Galileo coesisté quindi con diversità di visione, non emerse finché il dialogo restò matematico o fisico-matematico, ma affiorate quando il toscano esplicitò le proprie idee di fondo. Il rapporto iniziò nel 1609 con una lettera di Galileo, che elogiò il De centro gravitatis, allegando un proprio teorema. Questa e le successive, però, andarono perse assieme alle carte del corrispondente, e il loro contenuto si desume solo in parte dalle sue risposte, conservate nei manoscritti galileiani. Nella prima Valerio ricordò i loro dibattiti a Pisa, scrisse di aver terminato un De pyramide (che secondo Bartolomeo Chioccarello fu edito, ma non è mai stato rinvenuto, neppure manoscritto) e definì Galileo un ingegno pari ad Archimede: complimento che il corrispondente rivolse spesso a lui rendendolo quasi topico (lo si trova nelle carte lincee e, come detto, ancora in Torricelli). Le ventitré lettere a Galileo formano la maggioranza della sua corrispondenza nota: trentotto lettere (incluse alcune delle quali si ha solo notizia), a conferma della limitatezza della sua rete di rapporti. Delle altre quindici, due furono scambiate con il generale Mercurian, quattro con esponenti degli Aldobrandini, Colonna e Gonzaga, cinque con Federico Cesi, tre con Francesco Stelluti, una fu inviata a Marcantonio Baldi.
Anche alcuni corrispondenti romani di Galileo gli parlarono di Valerio, così da circa il 1610 emergono tratti della sua vita privata. Entro il 1614 fu associato all’Accademia napoletana degli Oziosi (forse a opera della Sarrocchi, che ne era socia); il suo rapporto con la letterata, coniugata ma la cui disinvoltura negli amori era voce corrente, fu descritto come più che didattico, ironizzando sulla disponibilità del maturo studioso a sostenerla nelle aspirazioni letterarie ma anche per fatti e necessità della vita quotidiana, e sulla tolleranza verso una personalità bizzosa e supponente. Di fatto, dal 1613, quando il marito della Sarrocchi morì, Valerio abitò presso di lei. In più occasioni giustificò il ritardo nell’approntare i propri lavori con problemi pratici non specificati, probabilmente connessi al ménage. Questo sembra anche aver accentuato la sua tendenza all’isolamento, interrotto quasi solo da ricevimenti domestici volti a promuovere l’immagine letteraria della compagna; dopo il novembre del 1615, le sole notizie su di lui riguardano il rapporto con i Lincei.
Nel 1610, ricevuto da Galileo il Sidereus nuncius, Valerio ne accettò le osservazioni. Nel 1611 lo incontrò a Roma e probabilmente partecipò a due eventi decisivi, la riunione sul Gianicolo indetta da Cesi, quando fu ripetuta parte delle osservazioni (14 aprile), e la conferenza di Odo van Maelcote nel Collegio romano (metà maggio). Inoltre presentò a Galileo la Sarrocchi, che poi corrispose con lui e gli inviò la Scanderbeide, il suo poema sull’epopea del Castriota, per averne un giudizio (cui il destinatario sostanzialmente si sottrasse). Nel 1612, quando Cesi candidò Valerio per l’ammissione tra i Lincei, avvenuta in giugno, Galileo fu decisamente favorevole (il suo parere, non conservato, è ricostruibile per via indiretta). Subito dopo inviò il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua al nuovo collega, che ne accettò le analisi a livello descrittivo, pur dicendosi perplesso per la loro discordanza da certi assunti aristotelici. Alla fine del 1612, designato censore degli scritti da stampare sotto l’egida dei Lincei, Valerio esaminò la Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, suggerendo di espungere certe possibili implicazioni teologiche e di esprimere più matematicamente alcune tesi; Galileo replicò che i dati fisici non sono del tutto matematizzabili, ma nella sostanza operò le modifiche. Nel giugno del 1614 Valerio assisté, approvandola, alla conferenza nel Collegio romano di Giovanni Bardi e Grienberger, che sostanzialmente accolse le tesi idrostatiche di Galileo.
Tuttavia già dal 1613 la corrispondenza decrebbe, cessando nel 1615. Si è supposto che egli osteggiasse la proposta di Galileo ai Lincei di stampare i propri teoremi sui centri di gravità di solidi (apparsi poi nei Discorsi), forse temendo che anticipassero qualcuno dei risultati che intendeva pubblicare nella versione estesa del De centro gravitatis, ma non v’è prova. Nel marzo del 1615, iniziata l’indagine del S. Uffizio sull’eliocentrismo, Valerio ebbe la lettera di Galileo a Benedetto Castelli sui nessi tra Scrittura e ricerca scientifica, ma non si espresse; nell’unica lettera scritta in seguito a Galileo (novembre) tacque sulla vicenda, e non vi sono prove che l’incontrasse nei sei mesi del suo cruciale soggiorno romano. Quando, dopo il decreto dell’Indice sull’eliocentrismo (5 marzo 1616), i Lincei indissero una riunione per esprimere solidarietà a Galileo, Valerio, che era tra gli accademici più attivi e presente a tutte le sedute, dichiarò che non avrebbe partecipato.
Ad alcuni il verbale della riunione (24 marzo), unica fonte sull’episodio, è parso sancire le sue dimissioni dall’Accademia, ad altri la sua espulsione. Tuttavia non autorizza queste conclusioni e non chiarisce del tutto i motivi. L’accettazione del sistema copernicano, spesso riferita a tutti i Lincei, è attestata solo per alcuni, e forse la solidarietà di altri con Galileo – presente alla riunione – riguardò il discredito del quale era stato oggetto più che le sue tesi. Dal verbale si trae solo che Valerio aveva dichiarato che non avrebbe partecipato all’incontro, in quanto atto formale di sostegno dell’Accademia alla tesi di Galileo sulla verità fisica dell’eliocentrismo; non dice però che condividesse in toto le ragioni della proibizione. Se il matematico dell’Università pontificia non poteva apparire critico del decreto (pochi giorni dopo, il 9 aprile, il S.Uffizio l’inviò agli inquisitori e ai nunzi apostolici perché lo comunicassero a specialisti e docenti, ponendo loro lo stesso vincolo), ciò non implica che gli sfuggisse la problematicità della questione, indipendentemente dal giudizio sull’eliocentrismo. Il verbale gli imputa di aver detto che Galileo era convinto di quella verità (mentre vi avrebbe visto solo un’ipotesi), e di aver infranto la sodalità accademica. Sul primo punto Valerio era ovviamente nel giusto. Circa l’altro, l’obbligo di conformità posto dall’assetto quasi religioso dell’Accademia era estraneo al modello successivo delle società scientifiche.
I Lincei negarono a Valerio il diritto di astenersi dal partecipare, mentre si arrogarono quello di escluderlo dalle sedute, privandolo del voto attivo e passivo e vietandogli ogni contatto con i sodali. Propriamente, quindi, gli fu comminata una sospensione, ma a scadenza indeterminata e revocabile solo a seguito di una resipiscenza esplicita. Che lo scontro non fosse sulla sostanza è forse suggerito anche dal fatto che Galileo – non facile a distinguere tra il livello intellettuale di altri e il loro accordo con lui – ancora vent’anni dopo la morte di Valerio l’elogiò altamente nella giornata prima dei Discorsi. Cesi attribuì la presa di distanza a timore o opportunismo alimentati dalla Sarrocchi (fattori, se reali, certo non unici), e quando (ottobre 1617) la letterata morì sperò in un ripensamento che però – possibile o meno – non poté manifestarsi: dopo meno di tre mesi, il 16 gennaio 1618 a Roma, la morte colse anche Valerio.
Lasciò erede universale Giovanni Latini, nipote (secondo alcuni figlio illegittimo) e erede della Sarrocchi, che nel 1623 curò l’edizione definitiva della Scanderbeide. Non è chiaro se questo mostri che Valerio non aveva parenti prossimi o che non aveva contatti con loro. Stando poi a una lettera di Grienberger a Guldin, egli lasciò gli inediti scientifici a un Michele Fabi, aspirante a succedergli nella lettura di matematica, con l’incarico di pubblicarli. Fabi è ignoto, ma i due gesuiti lo conoscevano; perciò era forse un ex allievo del Collegio romano (un Fabio Fabi vi era stato rettore poco prima), o dello stesso Valerio. Non risultano suoi tentativi di pubblicare gli inediti, che in seguito non sono stati più segnalati.
Fonti e Bibl.: Per le lettere di Valerio a Galileo, con epistole di altri e documenti che lo menzionano, vedi Le opere di Galileo Galilei, I-XX, Firenze 1890-1909, I, V, X, XI, XII, XVIII, XIX, ad ind.; P.D. Napolitani, Metodo e statica in V. Con edizione di due opere giovanili, in Bollettino di storia delle scienze matematiche, II (1982), 1, pp. 3-173 (contiene il Phylogeometricus tetragonismus e una ristampa del Subtilium indagationum liber primus); U. Baldini - P.D. Napolitani, Per una biografia di L. V. Fonti edite ed inedite per una ricostruzione della sua carriera scientifica, ibid., XI (1991), 1, pp. 3-157 (raccolta di tutti i documenti biografici e della bibliografia critica fino al 1990). Tra gli studi successivi: La matematizzazione dell’universo. Momenti della cultura matematica tra ’500 e ’600, a cura di L. Conti, Assisi 1992 (in partic. A. Alessandrini, L. V. linceo, pp. 238-252; S. Maracchia, L. V., matematico linceo, pp. 253-302); G. De Miranda, Una quiete operosa. Forme e pratiche dell’accademia napoletana degli Oziosi, Napoli 2000, pp. 115, 147; P.D. Napolitani, Le innovazioni di L. V. e Bonaventura Cavalieri, in Storia della scienza, V, La rivoluzione scientifica, Roma 2002, pp. 412-428; P.D. Napolitani - K. Saito, Royal road or labyrinth? L. V.’s De centro gravitatis solidorum and the beginnings of modern mathematics, in Bollettino di storia delle scienze matematiche, XXIV (2004), 2, pp. 71-138; A. Alexander, Infinitesimal. How a dangerous mathematical theory shaped the modern world, London 2014, pp. 225-227. Sul rapporto con Margherita Sarrocchi, oltre alla bibliografia in S. Pezzini, Sarrocchi, Margherita, in Dizionario biografico degli Italiani, XC, Roma 2017, pp. 630-632, vedi: N. Verdile, Contributi alla biografia di Margherita Sarrocchi, in Rendiconti dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli, LXI (1989-1990), pp. 165-206; M. Sarrocchi, Scanderbeide: the heroic deeds of George Scanderbeg, king of Epirus, a cura di R. Russell, Chicago-London 2006; M.K. Ray, Margherita Sarrocchi’s letters to Galileo. Astronomy, astrology and poetics in seventeenth-century Italy, New York 2016, ad indicem.