SAVELLI, Luca
– Non si ha nessuna attestazione sulla data di nascita e la famiglia di Luca Savelli prima del 1233, anno nel quale egli avrebbe ricoperto la carica di podestà di Todi, almeno stando alla tardo-quattrocentesca cronaca tudertina di Giovanni Fabrizio degli Atti («Meser Lucha Savello da Roma fo podestà. MCCXXXIII», Mancini, 1955, p. 87).
Negli anni successivi fu però protagonista di una veloce ascesa nel panorama politico e sociale capitolino, in contemporanea con l’affermazione della famiglia Savelli che in breve tempo arrivò a primeggiare in Roma o quantomeno a eguagliare per prestigio, potere e ricchezze i grandi lignaggi baronali che nei primi decenni del Duecento stavano consolidando il loro primato, anche grazie a quel nepotismo papale e cardinalizio, che fu alla base della crescita esponenziale dei Conti o degli Orsini (solo per citare i principali).
È da rigettare la tradizionale (e accreditata sino a tempi recenti) attribuzione al casato romano dei Savelli del potente cardinale Cencio, cancelliere e camerlengo papale, divenuto pontefice nel 1216 con il nome di Onorio III, frutto di una fortunata invenzione erudita risalente alla metà del XVI secolo, dovuta all’agostiniano Onofrio Panvinio, che in tal modo intendeva accrescere il prestigio dei Savelli, dei quali egli stava celebrando la grandezza con la sua opera De gente Sabella. La circostanza avrebbe spiegato con una certa facilità la prepotente ascesa di Savelli negli anni Trenta del XIII secolo.
È soprattutto il suo incarico di senatore unico di Roma, ricoperto tra l’ottobre del 1234 e l’aprile del 1235, a far comprendere a pieno il seguito del quale Savelli poteva allora godere nell’ambito della vita municipale romana. Non furono affatto chiare le alchimie politiche che gli permisero di assurgere alla principale carica del Comune romano (da qualche anno contesa tra le famiglie baronali, che con l’eccezione di brevi regimi popolari e della fase angioina la monopolizzavano). I suoi due predecessori (dal 1231) erano stati Annibaldo Annibaldi e Giovanni Conti: dunque, o Savelli aveva raggiunto una caratura pari a quella dei personaggi citati, ovvero – come sembra più probabile – la sua nomina fu il frutto di una discontinuità politica, sostenuta proprio da forze antagoniste ai casati baronali poste ai vertici municipali: forze magari amalgamate da un progetto di rilancio di una politica municipale svincolata dal potere papale e orientata verso una maggiore espansione del dominio territoriale della città, che da oltre un quarantennio era pressoché immobile.
Il senatorato di Luca Savelli lasciò in effetti un segno profondo: nel corso di esso si verificò quella che senza ombra di dubbio può esser definita la più grave insurrezione antipapale messa in atto dai cittadini romani (o più esattamente da una consistente parte di essi) in tutta la storia medievale della città di Roma.
L’anonimo biografo del pontefice Gregorio IX (non sempre attendibile per la sua indecorosa parzialità) riconduce i motivi del grave dissidio all’azione che il senatore aveva intrapreso a discapito della sovranità territoriale della Chiesa romana («Urbis senator inter statuta que in ecclesiastice libertatis exitium et enormem sedis apostolice lesionem temerarius edidit [...] in Petri patrimonio quereret novi comitatus abusum. Pro quibus deducendis in actum legatos in Tusciam et Sabiniam destinavit, viros omni cupiditate notabiles et immanissimorum scelerum», Vita Gregori IX pape, a cura di P. Fabre, 1889, p. 25). Ed effettivamente con il senatorato di Luca il Comune di Roma mosse le sue milizie per una campagna militare orientata sia verso la Tuscia romana sia verso la provincia meridionale di Campagna e Marittima.
Di ciò dà conto anche il testo della scomunica comminata da Gregorio IX tra maggio e luglio 1234 contro Savelli, i tesorieri (Parenzo e Giovanni de Cinthio), i membri del consiglio e i giustizieri comunali, nonché altri quattro cittadini romani (Paolo di Pietro Iudicis, Pietro de Stephano, Sanguigno e Pandolfo di Giovanni Crassi) colpevoli di aver fomentato le azioni censurate.
Il papa si trovava allora a Rieti dove si era prontamente rifugiato con i cardinali, in attesa che si spegnessero gli ardori antipapali dei Romani. Il durissimo provvedimento papale era in particolare motivato dalla conquista, dall’occupazione e dalla fortificazione da parte delle truppe comunali romane del castello di Montalto di Castro – direttamente soggetto alla Chiesa di Roma – per farne evidentemente un caposaldo nelle manovre militari contro Viterbo. Più in generale i vertici del Comune capitolino erano accusati di aver occupato indebitamente altri centri abitati e strutture religiose fedeli alla Chiesa, tanto nella Tuscia romana quanto nella provincia di Campagna e Marittima.
Oltre alle sanzioni ecclesiastiche, il pontefice provvide a sciogliere dal giuramento di fedeltà verso il Comune di Roma tutte le città del Patrimonium beati Petri e non tardò a organizzare una controffensiva militare per la quale richiese un’ampia partecipazione di comunità e signori della Tuscia. Anche Federico II inviò un contingente e questa scelta dovette spiazzare i romani, che si aspettavano un appoggio diretto dell’imperatore, al quale si erano ovviamente rivolti, confidando nella sua posizione di aperto contrasto verso Gregorio IX. Federico II raggiunse Viterbo congiungendo le sue truppe a quelle pontificie, capitanate dal cardinale Raniero Capocci; l’esercito così riunito pose l’assedio alla rocca di Rispampani, che era stata occupata dai romani. Dopo due mesi, le truppe del Comune di Roma presero a loro volta l’iniziativa e marciarono contro Viterbo. L’8 ottobre sotto le mura della città avvenne lo scontro aperto, una dura battaglia che alla fine si risolse in una pesantissima sconfitta per i romani; senz’altro, però, dev’essere considerato esagerato il numero delle vittime indicato dal monaco cronista inglese Ruggero di Wendover (Liber..., a cura di G. Hewlett, 1889): «ceciderunt autem hinc inde ad triginta millia armatorum; sed Romani tamen majorem perpessi sunt stragem, ut qui agminibus dissipatis ad suam civitatem praecipites confugerunt» (p. 101).
Una prima risposta di Savelli fu quella di bandire ufficialmente da Roma il cardinale Raniero Capocci; ma molto più grave fu il successivo proclama con il quale il senatore, a nome del popolo romano, esiliò da Roma il pontefice fino a quando questi non avesse provveduto a saldare i debiti contratti con prestatori di Roma e a risarcire i danni di guerra patiti dai cittadini romani («… super facto statuto vel privilegiis quod Romanus pontifex non regrediatur ad Urbem seu non faceremus pacem cum ipso, nisi prius restituerit quinque milia librarum, recepta mutuo super Rocca de Papa, et omnes expensas et damna illata Romanis cuiuscumque conditionis vel ordinis», F. Bartoloni, Codice..., 1948, p. 129). Sembra, peraltro, che nel frattempo Savelli abbia proceduto a disporre alcuni di quei risarcimenti, requisendo beni delle diocesi di Ostia, Tuscolo e Palestrina e di altri istituti religiosi del Patrimonium. Cosa accadde nei mesi successivi non è possibile stabilirlo; ciò che è sicuro è che nell’aprile del 1235 Luca non ricopriva più la carica di senatore, sostituito da Angelo Malabranca, il quale ebbe il compito di sancire un trattato di pace tra il Comune capitolino e il pontefice.
Non si hanno altre notizie su Savelli fino al 1266, quando appare nuovamente in carica come senatore (così Carocci, 1993, p. 416, discostandosi da Duprè Theseider, 1952, p. 140, il quale riteneva che si trattasse di due esponenti omonimi del casato). Dopo quasi un lustro nel corso del quale la carica senatoria era stata ricoperta da Carlo d’Angiò (agosto 1261-maggio 1266), si tornò infatti all’elezione di una coppia di senatori, Luca Savelli appunto, e l’orvietano Corrado Monaldeschi.
Poco si sa dell’operato dei due senatori: sembrerebbe che già nell’estate del 1266 – dunque appena eletti – essi avessero iniziato a esercitare forti pressioni nei confronti della Curia affinché questa provvedesse al saldo degli ingenti debiti contratti in passato con i cittadini romani.
Al riguardo si può citare un passo della lettera indirizzata da Viterbo il 15 giugno al vicario Simon de Brion, cardinale del titolo di Santa Cecilia. In essa il papa affermava: «duo facti sunt senatores. Predones et fures intus et extra libere debacchantur. Angimur igitur ab eisdem, precipue propter debita, que tu nosti et pro quibus obligate possessiones ecclesiarum Urbis existunt». (Die Briefe Papst Clemens’ IV..., a cura di M. Thumser, 2015, pp. 135 s., n. 208). Vi è anche l’ipotesi che i due senatori avessero in programma una ripresa delle attività diplomatiche e belliche volte ad ampliare la sfera di influenza territoriale del Comune, cosa che Clemente IV non vedeva affatto con favore.
Savelli all’epoca doveva essere molto anziano; morì proprio durante l’incarico, come recita l’epigrafe apposta sulla sua sepoltura – un antico sarcofago reimpiegato – nella chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli: «Hic iacet dominus Lucas de Sabello pater domini pape Honorii, domini Iohannis et domini Pandulfi, qui obiit dum esset senator Urbis, anno Domini M° CC° LX° VI°, cuius anima requiescat in pace. Amen» (Die mittelalterlichen grabmäler..., 1994, p. 64).
Luca ebbe sei figli (nulla si sa dell’identità della moglie): Giacomo destinato a una ‘trionfale’ carriera ecclesiastica, culminata con la sua elezione al soglio pontificio nel 1285 con il nome di Onorio IV; Giovanni e Pandolfo, che si distinsero nella politica municipale romana; Mabilia, che in prime nozze sposò Giovanni Normanni e in seconde Agapito Colonna; Marsibilia, andata in sposa a Napoleone di Matteo Rosso Orsini e, infine, Finizia, della quale non è noto il nome del marito, ma solamente quello di due figli, Leone e Giovanni.
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