PULCI, Luca
PULCI, Luca. ‒ Nacque da Iacopo di Francesco e Brigida de’ Bardi, probabilmente al Palagio, la proprietà di famiglia collocata nell’amato Mugello, nel 1431, quindi solo pochi mesi prima del più celebre fratello Luigi.
A differenza di quest’ultimo, dopo la morte del padre tentò di intraprendere varie attività per risollevare la pesante situazione finanziaria della famiglia. Prima lavorò a Roma presso il banco di Amerigo di ser Arrigo, poi, nel 1460, si iscrisse all’arte del cambio fiorentina e svolse la sua attività con il più giovane fratello Bernardo; tra la fine del 1464 e l’inizio dell’anno successivo, però, il banco di Luca fallì, esponendo tutti e tre i fratelli alle pretese dei creditori. Seguirono cospicue alienazioni del patrimonio familiare e anche, almeno per un certo periodo, il bando dei fratelli da Firenze e il loro forzato rifugio nelle possessioni in Mugello: queste vicende sono adombrate in alcuni passi delle opere del maggiore dei fratelli, come la prima delle Pistole (Lucrezia a Lauro, vv. 58 ss.). Il soccorso di Piero e Lorenzo de’ Medici, che interverranno ancora nel settembre del 1468, impedì più gravi conseguenze e almeno Luigi poté presto rientrare a Firenze (marzo 1466).
Degli ultimi anni della breve vita di Pulci si conosce pochissimo: nel febbraio del 1468 era di nuovo a Firenze e lavorava presso la Zecca (i Registri della Zecca ricordano il suo nome fra gli «addiutatores et exprolatores monetarum dicte zeche cum sicuritate et aliis consuetis» cfr. Parretti, in L. Pulci, Ciriffo Calvaneo, 2009, p. 59), dove operava ancora nel settembre dell’anno successivo e si occupava in particolare di scoprire le falsificazioni monetarie. Da questo incarico fu probabilmente sollevato perché accusato di qualche illecito, anche se la fonte che ci documenta questo fatto è tendenziosa: Matteo Franco, poeta avversario di Luigi, definisce infatti Luca «ladro di zecca» (Libro dei sonetti, XXX, 11; XXXII, v. 19). Di sicuro gli ultimi anni Sessanta furono per lui molto difficili: le due vicende – quella del fallimento e quella della Zecca – potrebbero essere collegate, come pare di capire da una lettera di Luigi a Lorenzo, non datata ma da collocare verosimilmente tra il settembre e il 2 dicembre 1469 (il padre di Lorenzo, Piero, che si era offerto come garante per i debiti di Pulci, è menzionato come vivente): «mi credevo che nella zecca e ne’ suoi traffichi guadagnassi» (L. Pulci, Morgante e lettere, 1962, pp. 959 s.), scrive Luigi, che si scusa per il fratello e chiede ancora aiuto, rivelando che tutti e tre i fratelli si erano «disperati partiti» da Firenze. D’altra parte, contrariamente a quanto sinora accertato dagli studiosi, la presenza di Pulci nella Zecca come «magistro et provisore» va anticipata almeno al marzo 1462 e si estese fino al 1° settembre del 1464, come risulta dal Libro della Zecca (il primo documento in cui compare come «magistro» un altro personaggio è del 1° marzo 1465).
Certo è che la parabola esistenziale di Pulci non era ancora giunta al punto più basso: allo stesso 1469 si fa di solito risalire il suo imprigionamento per debiti, di cui però non abbiamo testimonianze sicure (il suo nome non risulta tra quelli dei detenuti di quegli anni). Ben documentato è invece il giorno della morte, il 29 aprile 1470, ma non si sa se il decesso avvenne in prigione, come si ripete da tempo. Aveva sposato Piera di Raimondo d’Amaretto Mannelli, da cui aveva avuto Raffaello Maria, Agnoletta e Aldronessa.
La breve e travagliata esistenza non impedì a Pulci di comporre tre opere letterarie di una certa mole, anche se è tutt’altro che facile, in diversi casi, distinguere la sua mano da quella del fratello Luigi. Proprio questa incertezza permette d’altra parte di documentare l’effettiva esistenza di una comune matrice culturale dietro le opere dei due fratelli, ben distinguibile da altre tendenze della cultura fiorentina coeva (il platonismo di Marsilio Ficino, l’umanesimo di Poliziano o di Bartolomeo Scala). I Pulci si attestano in una posizione che, se non può essere definita francamente attardata, è comunque conservatrice, ancorata, più che al tradizionale aristotelismo, a modelli letterari ben definiti e non peregrini, quali Virgilio, Ovidio e le tre corone. Forti e pervasive risultano, nell’opera di Pulci, ben allineata, da questo punto di vista, con le scelte più frequenti del Quattrocento poetico volgare, le tracce della Commedia dantesca, dei Trionfi petrarcheschi e delle opere minori di Giovanni Boccaccio. E se soprattutto per Luigi si deve mettere nel massimo rilievo un’altra componente, quella comico-burchiellesca, le muse dei Pulci evocate in un passo famoso del Morgante (XXVIII, 138-139) trovano una loro piena riconoscibilità in un preciso genere letterario: al loro nome – in questo anche Bernardo ha un ruolo di primo piano – si associa infatti la rinascita della poesia pastorale in volgare a Firenze. Al circolo pulciano fa indiscutibilmente capo lo «studio di buccolici» evocato in un passo del Driadeo (III, 84, 1) e, più in generale, nell’esperienza poetica dei tre fratelli, pur diversamente articolata, si deve riconoscere una delle più significative espressioni dell’Umanesimo volgare quattrocentesco, non ignaro, anche per la rappresentazione del Mugello come una novella Arcadia, delle albertiane Mirtia e Tyrsis.
Le opere di Pulci ebbero tutte molta fortuna e circolarono ampiamente in forma manoscritta (soprattutto il Driadeo, in misura minore le Pistole), ma soprattutto approdarono precocemente alla stampa e furono più volte ripubblicate. Il Ciriffo Calvaneo, poema cavalleresco che, composto «ad petitione del Magnifico Lorenzo de’ Medici», come attesta la prima stampa (Firenze 1485 ca.), riprende le vicende del Foucon de Candie e delle Storie nerbonesi di Andrea da Barberino, ma senza risultare a essi sovrapponibile, ha posto seri problemi di attribuzione ai filologi. Il poema compare infatti nelle più antiche edizioni assegnato a Luca a cominciare dalla princeps (Firenze, A. Miscomini?, ca. 1485-90), nelle successive congiuntamente a Luca e Luigi (a partire da quella di Firenze, A. Tubini e A. Ghirlandi, 1509); gli studiosi per lungo tempo hanno tendenzialmente assegnato a Luca la sezione iniziale dell’opera (la prima delle cinque parti, più le prime ottave della seconda), che poi sarebbe stata continuata da Luigi, che pur la lasciò interrotta verosimilmente a causa della morte (non mancarono, all’inizio del Cinquecento, ulteriori giunte per portare a compimento la trama: una, anonima, in 29 ottave strettamente aderenti al dettato del Morgante; un’altra, opera di Bernardo Giambullari, molto più estesa e pubblicata nel 1514). La perizia attributiva riguardo al Ciriffo, in assenza di elementi più concreti, si appoggia esclusivamente su dati stilistici. Se pare auspicabile un approfondimento delle indagini, pare ormai certo che il ruolo di Luigi sia stato tutt’altro che marginale. Anche questo poema cavalleresco, come il Morgante, «procede per nuclei narrativi segmentati e certo non lineari» (Orvieto, 1996, p. 428): l’eroe eponimo occupa anche qui una porzione non preponderante del racconto; le sue vicende, infatti, si trovano concentrate in poche ottave della seconda parte, dopo le quali l’eroe scompare dal romanzo, restituendo la scena al Povero Avveduto, che domina nel resto del poema. Di una composizione stratificata è prova eloquente il contrasto fra l’invocazione iniziale a Venere e il precoce abbandono del tema amoroso, a vantaggio di quello bellico; le vicende parallele dei due eroi, Ciriffo e Povero Avveduto, e i loro propositi di vendetta nei confronti dei rispettivi padri costituiscono comunque il tema portante dell’intreccio, che pure si apre a inserti comici avvicinabili a quelli del Morgante. Anche la questione, simile a quella ben nota per il Morgante, dei rapporti del poema con il Libro del Povero avveduto, ampio testo in prosa trasmesso da un codice quattrocentesco conservato alla Biblioteca Laurenziana, attende nuove investigazioni. Questo testo, in ogni caso, non può ritenersi la fonte del poema, ma piuttosto una sua continuazione, che in parte coincide, per le vicende narrate, con la giunta di Bernardo Giambullari.
A metà degli anni Sessanta si può riferire l’altro poema di Luca, il Driadeo d’amore, che godette di notevole fortuna. Si tratta di un poemetto mitologico in ottave, diviso in quattro parti introdotte da brevi argomenti in prosa, dedicato a Lorenzo de’ Medici. Sulla scia del Ninfale fiesolano e delle Metamorfosi ovidiane, si narrano le favole eziologiche di ninfe e satiri che danno il nome ai vari luoghi della terra cara ai Pulci e al loro giovane patrono (si ricordi almeno, di Lorenzo, l’egloga Corinto). Nel proemio l’autore definisce l’opera «istoria o vero fabula ricitata fabulosamente per tragedia da’ nostri pastori», anche se poi gli argomenti danno conto di alcuni episodi cantati «per comedia». Difficile, anche in questo caso, riconoscere una trama lineare: alla storia della ninfa Lora e del satiro Severe (i fiumi Lora e Sieve, che confluiscono nei pressi della Cavallina) si alternano e si intrecciano altre favole e digressioni ovidianamente ispirate. Si assiste, tra l’altro, all’entrata in scena dello stesso Lorenzo (nei panni di un signore «giovine d’anni e di virtù senile»), che disputa con il pastore Tavaiano sulla primazia fra vita agreste e vita cittadina (III, 82-104), e all’intermezzo comico – già consacrato all’ottava da un best seller di primo Quattrocento come il Geta e Birria – sui casi di Anfitrione e Sosia. Le numerose convergenze con l’opera del fratello (in particolare con il Morgante) hanno fatto sospettare a più di un interprete la presenza della mano di Luigi anche in quest’opera, mentre altri (Baldassarri, 1998) ha intravisto nelle fabulae narrate elementi allegorici e morali intrecciati con l’innegabile motivo encomiastico.
Quest’ultimo elemento è sicuramente documentabile almeno in alcune delle Pistole, raccolta di componimenti in terzine composta in Mugello prima del 1467 (a fine 1466-inizio 1467 rimanda la prima lettera, che è proemiale). Anche in quest’opera Pulci si ispira alla materia ovidiana, ma prende a modello le Heroides (non senza vistose interferenze con le Metamorfosi), contaminando di nuovo il modello classico con quello boccacciano e affiancando all’argomento amoroso elementi ideologici politicamente connotati (celebrazione della tradizione repubblicana di Firenze, incarnata da Piero e Lorenzo de’ Medici). Lo stile di queste diciotto lettere che si presentano come inviate da eroi ed eroine del mito o della storia antica – a parte la prima, indirizzata da Lucrezia (Donati) a Lauro (Lorenzo) – ai loro amanti, per lo più lontani o defunti, si caratterizza per uno sfoggio di vistosi artifici linguistici, come la forte presenza di latinismi, e metrico-retorici, quali l’ampio ricorso alla rima sdrucciola e al bisticcio, l’uso a volte sistematico di rime identiche ed equivoche. Tutto ciò rivela la vena più espressionistica e alessandrina dell’autore, a cui anche i critici più severi riconoscono uno sperimentalismo storicamente costruttivo, in quanto figlio dell’esperienza albertiana e preparatore degli sviluppi della piena età laurenziana.
Edizioni. Pistole di Luca de’ Pulci al Magnifico Lorenzo de’ Medici, Firenze, A. Miscomini, 1° febbraio 1481 (= 1482); Poemetti mitologici dei secoli XIV, XV e XVI, a cura di F. Torraca, Livorno 1888, pp. 161-319; Il Driadeo d’amore, a cura di P.E. Giudici, Lanciano 1916; Ciriffo Calvaneo, a cura di M. Parretti, Firenze 2009 (tesi di dottorato).
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