GHINI, Luca
Nacque a Croara (Casalfiumanese) presso Imola (in località "Le colline", un podere di proprietà della famiglia) nel 1490 (non sono noti il giorno e il mese), terzo di cinque fratelli, da ser Ghino e da Leonora Ravaglia di Molinella.
La famiglia apparteneva alla piccola nobiltà della cittadina emiliana, dove risulta presente almeno dalla prima metà del XIII secolo, proveniente da Casola Valsenio, nel Ravennate. Tra i suoi membri vi erano medici, notai e amministratori della città (nei Consigli degli anziani, dei conservatori e dei novanta pacifici). Il padre era notaio; dei fratelli, Giovanni Battista era medico e padre di un Vincenzo spesso nominato nel carteggio di Ulisse Aldrovandi, Orazio era frate nel convento di S. Giovanni in Monte col nome di Francesco; degli altri due è noto solo il nome, Ottaviano e Antonio. Uno dei fratelli visse a lungo a Creta, da dove spedì al G. piante e semi.
Il 3 dic. 1528 il G. sposò Gentile dei Sarti, figlia di un medico bolognese, dalla quale ebbe un figlio, Galeazzo (1552), che esercitò la professione di notaio in Bologna dal 1573 al 1615.
Nulla sappiamo della sua vita prima dell'immatricolazione all'Università di Bologna, dove si addottorò il 17 genn. 1527. Quando il G. iniziò i suoi studi universitari doveva essere ancora viva l'eco dell'insegnamento di Arnaldo da Villanova, autore di un Herbolario (Venezia 1503). È probabile, inoltre, che egli frequentasse le lezioni di Nicolò Leoniceno, professore a Bologna dal 1504 al 1524 e autore di un Libellus de epidemia, quam vulgo morbum Gallicum vocant (1497) e di un famoso De Plinii et aliorum medicorum erroribus. Il 9 febbr. 1527 fu chiamato alla lettura di medicina pratica in tertiis (con diciotto voti favorevoli e due contrari). Nel 1533, a causa di disaccordi con il Senato bolognese, lasciò l'insegnamento per una condotta medica, anche se l'anno precedente gli era stata accordata la lettura di medicina. Nel 1534 gli fu offerta una cattedra di medicina destinata alla lettura dei semplici (ovvero delle piante medicinali) senza l'obbligo di seguire i classici, senza aumenti dello stipendio e restando la sua cattedra congiunta e subalterna a quella di medicina. Il 28 giugno 1535 ricevette la cittadinanza bolognese, che gli sarà poi solennemente confermata il 22 sett. 1554. I contrasti con il Senato bolognese non dovevano, tuttavia, essere del tutto appianati, se in quel periodo il G. si trasferì a Fano, dove - a partire dal 19 marzo 1536 - esercitò la professione medica, percependo uno stipendio di gran lunga maggiore rispetto al precedente. Nel 1539, infine, lo Studio bolognese cedette alle richieste del G. (il cui nome non figura nei rotuli per gli anni accademici 1536-37, 1537-38, 1538-39), istituendo una lettura "de simplicibus medicinalibus", elevandogli lo stipendio e accordandogli un contratto quinquennale.
Gli anni del primo periodo bolognese, ancorché documentati da una serie di atti ufficiali, risultano, quanto all'effettivo insegnamento impartito dal G., abbastanza avari di informazioni. Ciò che emerge è il difficile rapporto del G. con le autorità accademiche, dovuto senz'altro all'aspetto economico non del tutto soddisfacente, ma soprattutto legato alle difficoltà incontrate dal G. nell'affermare l'autonomia del suo insegnamento. La stessa istituzione della cattedra "de simplicibus medicinalibus", da interpretare come un accoglimento delle sue istanze, era tuttavia attenuata dalla persistente subalternità di tale insegnamento a quello di medicina. Solo nell'anno accademico 1556-57, quando il G. era ormai morto, con Ulisse Aldrovandi e Cesare Odoni, si avrà una lettura "de simplicibus" che tornerà di nuovo a essere, nel 1561-62 e nel 1562-63, "de simplicibus medicinalibus"; ma ormai l'insegnamento della botanica era saldamente nelle mani dell'Aldrovandi, per il quale era stata istituita, nel 1561, una cattedra di "Philosophia naturalis. De fossilibus, plantis et animalibus".
Non trovò soddisfazione nemmeno la richiesta del G. di istituire un giardino di semplici. È molto probabile che egli ricorresse a un giardino privato (forse il giardino di un tal Paolo Poeta), così come è pressoché certo che facesse uso di un erbario essiccato.
Gli studiosi discutono sulla priorità dell'introduzione, in epoca moderna, degli erbari essiccati (o horti sicci) e secondo taluni tale primato spetterebbe proprio al Ghini. È certo tuttavia, a prescindere dalla soluzione di questa disputa, che tanto il G. quanto i suoi discepoli (Michele Merini, U. Aldrovandi, Andrea Cesalpino, Gherardo Cibo) fecero ampiamente - pur se non esclusivamente - ricorso a tale metodologia.
Il G. e i suoi allievi affiancarono alla nuova pratica essiccatoria anche la raffigurazione dei vegetali, e all'erbario essiccato e agglutinato l'erbario dipinto. Proprio in questi anni l'iconografia, abbandonando il piano simbolico, si dimostrava, non solo nella storia naturale, ma anche nell'anatomia (del 1543 è il De humani corporis fabrica di A. Vesalio), uno strumento scientifico di grande rilievo. Grazie agli studi di S. Seybold e alla sintesi di F. Garbari sappiamo che alcune delle tavole dell'erbario figurato del grande botanico tedesco Leonhart Fuchs (conservato a Vienna) gli furono inviate (per sua stessa ammissione) dal G.; altre tavole del G. andarono disperse dopo la sua morte o forse, come ipotizzò Pietro Andrea Mattioli, entrarono anch'esse in possesso di Fuchs.
Nell'estate del 1543 il G. accettò l'invito del duca di Firenze Cosimo I de' Medici, che stava compiendo un notevole sforzo per dare lustro allo Studio pisano, ricostituito in quell'anno, e che aveva ricevuto un rifiuto da parte di Fuchs. Inutili furono i tentativi del Senato bolognese di trattenerlo, riconfermandolo per altri tre anni e ordinando che lo si pagasse "sine exceptione". Il G. chiese dunque a Luigi Squalermo, detto l'Anguillara, in qualità di erbolario, di preparare il materiale per il futuro insegnamento pisano (l'Anguillara erborizzò nelle zone di Livorno e di Lucca); nell'estate del 1544, scaduto il contratto che lo legava a Bologna, il G. si trasferì a Pisa, dove ebbe la lettura dei semplici: a Bologna fu sostituito dopo un anno da C. Odoni.
Il suo arrivo a Pisa segna una data importante nel rinnovamento dell'insegnamento dei semplici, soprattutto grazie alla creazione dell'orto botanico. P.A. Mattioli, secondo il quale l'istituzione dell'orto pisano seguì quella dell'orto padovano, ricorda l'importanza avuta dal G. in questa circostanza: "… lo Illustrissimo et Eccellentissimo Cosma Duca di Fiorenza, e di Siena, a persuasione principalmente del Clarissimo Medico M. Luca Ghini ha anchora egli fatto fabricare nella antichissima Città di Pisa uno altro simile giardino dove per opera del suo promotore, verdeggiano hoggi molte rare piante, che per avanti non si sono in Italia vedute, a commodo e ornamento pubblico de i Medici, de gli scholari, e d'ogni altro, che di questa facultà si diletti" (Discorsi…, p. 2).
Pur mancando per l'orto pisano un formale atto istitutivo - a differenza di quello di Padova, il cui decreto di fondazione è del 29 giugno 1545 -, già dal 1543 il G. aveva ricevuto 250 ducati proprio in vista della creazione di un orto botanico. Utile testimonianza in proposito è una sua lettera a Francesco Riccio, maggiordomo del duca, inviata da Bologna il 2 febbr. 1545. Il G. vi narra del suo viaggio attraverso l'Appennino e l'Alpe di monte Frigatese, quando con il suo erbolario raccolse molte piante da porre nel già avviato giardino pisano per farne "d'utile alli scolari". Si ha inoltre notizia di altre escursioni, vere e proprie campagne botaniche, compiute dal G. con i suoi allievi; in particolare quella nell'isola d'Elba e, soprattutto, quella sul monte Baldo (sul lago di Garda), nel 1554, cui parteciparono, tra gli altri, l'Anguillara, Andrea Alpago, futuro professore a Padova, U. Aldrovandi e Francesco Calzolari. Il Calzolari, speziale di Verona, aveva conosciuto il G. tramite l'Aldrovandi ed è probabile che entrambi avessero frequentato un suo corso a Pisa nel 1551-52. Di questo viaggio abbiamo una dettagliata relazione di F. Calzolari, che ne fornì un resoconto appena due anni dopo nell'opera intitolata Il viaggio di monte Baldo (Venezia 1556).
Il G. ebbe un ruolo di primo piano anche nella creazione dell'orto botanico di Firenze (1° dic. 1545) ed esercitò la sua influenza su quello di Padova, affidato all'Anguillara: maestro e discepolo si scambiarono piante delle rispettive regioni. Il G. tornò a Bologna nel 1554, dove, grazie all'interessamento di U. Aldrovandi, ottenne per il 1555-56 la lettura di medicina ordinaria vespertina.
Il G. morì a Bologna il 4 maggio 1556 in condizione di povertà e fu sepolto nella chiesa dei Servi.
Non aveva dato nulla alle stampe e le sue carte andarono disperse dopo la morte, sicché i pochi suoi scritti pervenutici hanno seguito percorsi assai tortuosi. Le Lezioni sul morbo gallico ci sono giunte come appendice della Practica theorica empirica morborum interiorum di Johan Marquard (Spirae 1589). Questa edizione dell'opera del G. si basa sulla trascrizione di uno studente tedesco, rinvenuta nel 1588 da Philip Schopf di Forchheim (laureatosi a Padova il 16 sett. 1569), che la pubblicò l'anno successivo. Una seconda edizione uscì nel 1592 con in più le Lezioni sulla lue del padovano Girolamo Capodivacca. Mentre nel testo il G. parla di "morbo gallico", tanto la prima quanto la seconda edizione recano come titolo Morbi Neapolitani curandi ratio perbrevis, forse per riguardo del dedicatario, l'abate di Fontainebleau Johann Schopf, cui il pronipote Philip dedicò l'operetta. Con queste lezioni, tenute a Pisa, il G. interveniva su un tema allora ampiamente dibattuto; dalla prima apparizione del morbo gallico (al 1493-94 risale il primo caso conosciuto), numerose erano state le pubblicazioni sull'argomento: il menzionato Libellus del Leoniceno, lo scritto di G. Paracelso del 1530 e quelli di G. Fracastoro del 1530 e 1546; il G. stesso fa riferimento a G.B. Monte, G. Manardi, G. Rondelet, Fracastoro e Vesalio. Nei quattordici capitoletti in cui è divisa l'opera il G. esamina, in una prospettiva umoralista, la natura o essenza del morbo gallico (una intemperies caldo-secca che si evolve in una freddo-secca, con un decorso secondo il quale l'infezione - infectio o venenum - si diffonde dal fegato al cervello e al cuore); le cause esterne e praecipientes (il coito "cum infecta") e quelle interne e antecedentes (gli umori surriscaldati dalla intemperies del fegato, diversi a seconda dell'ammalato, del cibo, dell'aria ecc.); i sintomi, che, osserva il G., nei primi tempi furono più acuti che nel presente. Infine tratta della profilassi (astensione dai rapporti sessuali o abluzioni del pene con aceto assoluto o mescolato a olio di rosa) e, più ampiamente, della terapia (curatio); soprattutto in quest'ultima parte poté far valere la sua competenza in fatto di semplici (in particolare: la salsapariglia, la radice di china e il legno di guaiaco).
Della sua produzione più propriamente botanica si conservano tracce in opere altrui. Nelle tavole incluse nell'erbario di Fuchs sono sicuramente sue quelle di Irisgraminea, Citus salvifolius, Stembergia lutea, Campanula media, Orobanche gracilis e probabilmente anche quelle di Tulipa sylvestris, Erythronium dens-canis, Ophrys holoserica, Ophrys Pseudobertolonii, Orchis provincialis, Orchiscoriophora, Orchispapilionacea, Orchislaxiflora, Dactylorhiza Fuchsii, Anacamptis pyramidalis, Serapias vomeracea. Nella seconda edizione dei suoi Discorsi su Dioscoride, P.A. Mattioli inserì abbondante materiale inviatogli dal G., che nel frattempo stava preparando per suo conto un commentario a Dioscoride: esemplari di piante essiccate o fresche, disegni e soprattutto una serie di descrizioni (placita). Ma il lascito più cospicuo delle sue conoscenze botaniche è contenuto tra le carte di U. Aldrovandi, in cui sono conservati circa una sessantina di placiti inviati al Mattioli: In quibusdam placita ad Andream Mathiolum Senensem celeberrimum medicum conscripta. È possibile cogliervi l'atteggiamento antidogmatico e antiaccademico del G., capace di prendere le distanze dagli antichi (piena di ironia la fantasiosa etimologia "Deus discordiae", del nome di Dioscoride, le cui descrizioni di piante - brevi, oscure, frammentarie - danno luogo a dispute senza fine), ma non meno pronto ad ammettere la propria ignoranza di fronte a piante che non conosce. In essi, accanto a Dioscoride e a botanici come Fuchs, trovano posto anche persone comuni, soprattutto mercanti e viaggiatori: il porto di Livorno, dove ogni anno attraccavano navi provenienti da tutto il mondo gli appare come un ideale luogo di "osservazione". I viaggiatori non portano solo essenze di terre lontane, ma sono i loro racconti, le loro descrizioni ad attirare l'attenzione del G., che le confronta, le valuta e non disdegna di porle accanto a quelle di Dioscoride.
In contatto con alcuni dei maggiori naturalisti dell'epoca, il G. visse in un momento particolarmente fecondo per gli studi botanici: non solo segnato da un interesse per gli antichi, nuovamente editi, tradotti e commentati (Dioscoride, Plinio, Teofrasto), ma anche caratterizzato dall'osservazione diretta e dall'identificazione di un gran numero di vegetali e dalla loro descrizione, conservazione e riproduzione per fini conoscitivi e didattici, in una visione della botanica emancipata dalla medicina. Il G. contribuì a rinnovare l'insegnamento universitario dei semplici creando una vera e propria scuola e, in piena autonomia rispetto agli antichi, fornì la descrizione e la rappresentazione di numerosi vegetali. I contemporanei furono solleciti a sottolineare un'altra caratteristica del G., la sua disponibilità alla collaborazione scientifica e la sua grande liberalità nell'offrire i risultati del suo lavoro o la sua consulenza.
Tra i titoli dei suoi scritti sono anche gli Experimenta in praxi, cui fa riferimento H. Velschius nei suoi Curationum et observationum medicinalium chiliades duae (Ulmae 1676). Johan Jacob Wercker, nel suo Antidotarium generale et speciale (Basileae 1617, p. 441), riporta una ricetta del G. sulla composizione dell'acquavite (Aqua vitae optima).
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