LUCA di Armento (di Demenna), santo
Nacque nei primi decenni del secolo X da Giovanni e da Tedibia, esponenti del patriziato di Demenna, centro fortificato di Val Demone, regione nordorientale della Sicilia.
La figura di L., a partire dal testo della sua Vita, offre di sé una doppia chiave di lettura. La prima, prettamente agiografica, si sostanzia nell'immagine di un personaggio precocemente distintosi per la sua fede e per suoi diversi carismi, con un percorso articolato nelle scansioni tipiche del modello agiografico italo-greco.
L. fu accolto nel monastero di S. Filippo d'Agira, grande centro del monachesimo siculo-bizantino, dove transitarono numerose altre celebri figure monastiche del secolo X, altamente rappresentative della cultura religiosa italo-greca. L. passò poi in Calabria, dove approfondì la sua preparazione religiosa presso la famosa "grande grotta", nel territorio di Reggio, sotto l'egida di Elia lo Speleota. I doni profetici di L. non tardarono a manifestarsi: preannunciò ai suoi confratelli la prossima incursione saracena e lasciò la grotta per il centro fortificato di Noa (Noepoli), ai confini tra Calabria e Lucania; là restaurò la chiesa di S. Pietro, dove si raccolse una comunità monastica. Tuttavia la sua fama crescente gli procurò anche una quantità indesiderata di persone curiose di vederlo, per cui L. decise di raggiungere un luogo più solitario, le rovine del monastero di S. Giuliano presso il fiume Agri.
Ancora secondo il racconto agiografico, la sua opera di restaurazione del monastero sembra disturbasse i progetti di annessione del territorio di un nobile locale, Landolfo, le cui varie iniziative intraprese per impedire il pacifico possesso del luogo da parte di L. furono miracolosamente respinte con l'aiuto di Dio. A S. Giuliano, le doti taumaturgiche di L. facevano grandi prodigi: cacciava i demoni, guariva i malati, sfamava miracolosamente la popolazione in tempo di carestia.
La discesa dell'imperatore germanico Ottone I in Italia meridionale nel 968-969 provocò un nuovo spostamento di L., con i suoi discepoli sempre più numerosi, verso un luogo solitario facilmente fortificabile della Lucania, di nome Armento, dove cominciarono la costruzione di una chiesa dedicata alla Vergine e, ancora una volta, all'apostolo Pietro, il nucleo di un nuovo centro di vita monastica. Qui furono raggiunti da un'altra incursione saracena, tra le tante che, partite dalla Sicilia, tormentarono nella seconda metà del secolo X il Sud dell'Italia. Si verificò allora l'episodio di gran lunga più originale tra quelli narrati nella Vita di L., che questa volta non fuggì. Contro i predoni accampati presso il suo monastero, L. in preghiera ottenne una sorta di investitura da parte di Dio a reagire con la forza del suo bastone, sull'esempio di Mosè. Dunque, alla testa di alcuni dei suoi discepoli, scelti tra i più robusti, L. si dispose a cacciare i Saraceni dal territorio di Armento.
Iniziato con una visione sublime e terrificante, quella di L. sul suo cavallo bianco, in una mandorla di fiamme, l'attacco inusitato dei monaci si risolveva in uno scontro fisico vero e proprio, con morti e feriti, naturalmente vittorioso.
L. fu raggiunto dalla sorella Caterina e dai figli di questa. Tutta la famiglia di Caterina prese l'abito monastico e la sorella di L. fu posta alla testa di una nuova comunità femminile. L. infine, cui fu preannunciata la morte, chiuse la sua vita esemplare il 13 ott. 6493 secondo l'era del mondo, ossia l'anno 984 dell'Incarnazione (sebbene per un errore nel passaggio da un computo all'altro la traduzione latina della sua Vita riporti l'anno 993 dell'Incarnazione). Lo assistette nei suoi ultimi momenti, e lo seppellì, Saba, normalmente identificato, tra più personaggi omonimi, come Saba da Collesano.
Questo racconto edificante è stato trasmesso da una Vita, il cui originale greco è andato perduto e che, secondo Caruso, doveva essere stato elaborato nello stesso ambito di produzione della Vita di un contemporaneo di L., Vitale da Castronovo, in epoca molto vicina agli eventi narrati. La versione latina della Vita, adattata dal greco con qualche successiva interpolazione, è perlopiù convenzionale nella sua aderenza agli schemi agiografici, con la sola rilevante eccezione dell'episodio della battaglia dei monaci contro i Saraceni, un unicum nel contesto culturale italo-greco; tuttavia essa offre anche una seconda chiave di lettura che fa di L. il modello di una dinamica sociale caratteristica degli ambienti grecofoni dell'Italia del Sud nel secolo X: l'emigrazione dei ceti greci di maggiore rilievo economico-sociale dalla Sicilia e il loro inserimento nella società bizantino-longobarda di Calabria, Puglia e Campania.
Emblematico da questo punto di vista è l'abbandono per la Calabria della regione di Val Demone, dove più a lungo la cultura siculo-bizantina aveva resistito, in una Sicilia ormai quasi interamente musulmana. Dall'inizio della Vita di L. l'accento è messo sulla sua formazione religiosa, nutrita di buoni precetti e santi costumi, sull'esempio prima dei genitori, poi dell'abate di S. Filippo d'Agira, ma priva di una vera e propria istruzione, sia perché la durezza dei tempi non lo consentiva sia perché lo stesso L. vi aveva di buon grado rinunciato: un aspetto interessante della sua biografia, sottolineato però solo da Lancia di Brolo. Questa vocazione religiosa dissociata da una formazione culturale è forse sintomatica di una volontà d'affermazione e di resistenza identitaria italo-greca, cui non corrispondevano adeguati supporti culturali per gli abitanti di Val Demone che tentavano di resistere alla disintegrazione del loro quadro sociale.
Dunque il giovane L., intorno al 930-940, decise di lasciare il prestigioso monastero di S. Filippo d'Agira per proseguire la sua preparazione religiosa in Calabria, evidentemente attratto dall'esempio e dallo stile di vita di Elia lo Speleota. Buona parte della restante vita di L. si organizza secondo uno schema ripetitivo di restaurazione (la chiesa di S. Pietro, il monastero di S. Giuliano) o di fondazione (Armento) di comunità religiose in migrazione man mano sospinte verso Nord dal proseguire delle incursioni arabe. È infatti lo stesso ritmo di quelle incursioni che consente qualche ulteriore ipotesi sulla cronologia degli spostamenti. La migrazione dal territorio di Reggio verso la roccaforte di Noa, dove L. sarebbe rimasto sette anni - numero chiaramente simbolico - potrebbe essere una conseguenza della fine di un periodo di relativa tranquillità per le popolazioni italo-greche dopo l'estromissione dal potere dell'imperatore bizantino Romano I Lecapeno. Costantino VII Porfirogenito avrebbe infatti rinunciato alla politica di compromesso del predecessore con gli Arabi di Sicilia, optando per una soluzione di forza, culminata però nella disastrosa disfatta del suo inviato, il patrizio Malachino, a Gerace nel maggio 952.
Lo spostamento di L. ad Armento è invece facilmente databile, poiché dovuto alla discesa delle truppe ottoniane in Italia meridionale nel 968-969. L'episodio curioso della battaglia dei monaci ad Armento contro i Saraceni - naturalmente non attestato in altre fonti e, se non meramente agiografico, da ridimensionare comunque al livello di una scaramuccia - coincise verosimilmente con il periodo più intenso delle incursioni arabe nella regione, dopo la disfatta del generale bizantino Manuele Foca in Sicilia (caduta dell'ultima roccaforte bizantina, Rometta, nel 964) e culminante con la spedizione dell'emiro Abū l-Qāsim del 976: dovrebbe essere un episodio degli anni 970-980, perché le infermità attribuite a L. verso la fine della sua vita escluderebbero simili imprese, come suggerito da Caruso (2003). Certi tratti della Vita permettono di dare a questa alternanza di fuga e di resistenza verso l'aggressore musulmano, dalla Sicilia alla Calabria centrale, alla Lucania, una vera dimensione sociale. Colpisce l'ampiezza dell'emigrazione, intere famiglie come quella di L., polarizzata dai grandi centri religiosi del continente, emigrazione che lascia supporre una parziale ricostituzione delle reti di solidarietà e delle strutture sociali da parte degli emigrati nel loro nuovo ambiente continentale.
L'episodio di Landolfo, probabilmente non Landolfo (IV) di Capua come voleva Da Costa-Louillet, ma piuttosto un signorotto longobardo locale, e quello più rilevante della discesa delle truppe ottoniane mettono in evidenza il rafforzamento di un bastione grecofono continentale sostenuto dall'autorità bizantina, a dispetto dei vari assalti - arabi e occidentali - e della locale concorrenza longobarda. Tale rafforzamento passa per la ristrutturazione dell'abitato, spostato verso le alture e le roccaforti, che ha plasmato le caratteristiche ancora oggi salienti della geografia storica calabrese.
Anche a livello personale, L. mostra la profonda trasformazione della società italo-bizantina, in cui il modello emergente è una certa figura carismatica di religioso. La santità e il carisma non sono allora necessariamente associati al sapere: L. è un santo illetterato, uno spirito concreto, un costruttore, che fonda o restaura gli edifici monastici di propria mano. Ma, all'occasione, L. sa anche brandire la spada. Egli ha qualcosa del modello del santo-soldato, il che, rispecchiando le esigenze di una società di frontiera, rimanda alla diffusione del culto di S. Michele Arcangelo, da Agira al Gargano, e suggerisce l'interazione con altri modelli di santità stratiotica caratteristici della Grecia continentale (s. Demetrio) e delle province orientali dell'Impero bizantino, altre zone di frontiera.
Se la figura di L. stenta a distaccarsi dal convenzionalismo agiografico, la sua Vita, attraverso l'idealizzazione del suo percorso, offre una prospettiva generalizzante, non priva di valore, delle profonde mutazioni in corso nella società grecofona di Sicilia e del Sud d'Italia nel secolo X, in un periodo critico caratterizzato dalla atrofizzazione rapida della Sicilia di cultura greca, in contrasto con la rivitalizzazione dell'Italia bizantina continentale, per quanto in condizioni instabili.
L'episodio più spettacolare della Vita, la semileggendaria vittoria dei monaci guidati da L. sui Saraceni, va intesa come un riassunto emblematico di questo mutamento magnificato dalle élites grecofone e bizantinofile, in quanto resistenza vittoriosa a minacciose forze esterne.
Fonti e Bibl.: Vita s. Lucae abbatis Armenti, in Vitae sanctorum Siculorum, a cura di O. Gaetani, Panormi 1657, II, pp. 96-99; Idem, in Acta sanctorum Octobris, VI, Parisiis-Romae 1868, pp. 337-342; D.G. Lancia di Brolo, Storia della Chiesa in Sicilia, II, Palermo 1884, pp. 414-417; G. Da Costa-Louillet, Saints de Sicile et d'Italie méridionale aux VIIIe, IXe et Xe siècles, in Byzantion, XXIX-XXX (1959-60), pp. 142-146; S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell'Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963, pp. 50 s.; A. Acconcia Longo, Santi greci della Calabria meridionale, in Calabria bizantina. Testimonianze d'arte e strutture di territori. Atti dell'VIII e IX Incontro di studi, Reggio Calabria( 1985 e 1988, Soveria Mannelli 1991, pp. 211-230; Id., Santi monaci italogreci alle origini del monastero di S. Elia di Carbone, in Boll. della Badia greca di Grottaferrata, n.s., XLIX-L (1995-96), pp. 132-138; S. Caruso, Sicilia e Calabria nell'agiografia storica italo-greca, in Calabria cristiana. Atti del Convegno di studi, Palmi-Cittanova( 1994, a cura di S. Leanza, Soveria Mannelli 1999, pp. 572-581; Id., "Crucisque signo munitus". L. da Dèmena e l'epopea antisaracena italo-greca, in Byzantion, LXXIII (2003), 2, pp. 319-338; D. Motta, Percorsi dell'agiografia, Catania 2004, p. 324.