LUCA da Penne (Lucas de Penna)
Nacque a Penne in una data posta da taluno verso il 1320 (Ullmann), da altri al 1310 sulla scorta dell'affermazione di Filippo Di Giovanni, un biografo locale non sempre attendibile. Maria Mercedes Wronowski, cui si deve la più completa raccolta di dati biografici su L., ritiene difficile una nascita posteriore al 1310, giacché L. sembra ricordare personalmente gli anni del vicariato di Carlo d'Angiò duca di Calabria, morto nel 1328. Un paio di elementi finora non rilevati potrebbero indurre a porre la nascita di L. intorno al 1305.
In primo luogo il tono della lettera delle Senili inviata da F. Petrarca (nato nel 1304) a L. nel 1374: in essa i due risultano coetanei ("poiché tu vecchio a me vecchio imponesti di scrivere" qui nella traduzione Fracassetti, p. 459). In una glossa alle Constitutiones del Regno Biagio da Morcone trascrive inoltre un consulto di L., verosimilmente nella forma del consilium sapientis reso al giudice nel processo. Poiché Biagio esercitò le funzioni di iudex fino al 1331, anno in cui fu nominato preposito di Atina, ne deriva che a quella data L. doveva già essere un giurista noto e reputato.
Anche sul luogo delle sue origini v'è stata discussione, quantunque sia ormai certa la sua provenienza da Penne.
Oltre che dai due antichi repertori biografici di Caccialupi e di Panciroli, infatti, l'opinione che L. fosse tolosano fu diffusa da Jean Chappuis, primo curatore del suo commento ai Tres libri del Codex giustinianeo: definito "doctor Gallicus" fin nel frontespizio dell'editio princeps del 1509, L. è descritto come nativo di Tolosa, dottore e poi maestro dell'importante Università di quella città nell'epistola dedicatoria dello stesso Chappuis. La successiva, rarissima edizione veneziana del 1512, peraltro, reca un frontespizio che fa giustizia dell'affermazione di Chappuis precisando di L. l'origine "de civitate Penne provincie Aprugii Regni Neapolitani". Qualche anno più tardi, nel 1538, Jean Nicolas di Arles ne pretese l'origine arlesiana nel proemio dell'edizione princeps da lui curata del trattato De praesumptionibus attribuito ad Andrea Alciato.
Dovute forse alla particolare diffusione in Francia delle sue opere, queste opinioni trovarono confutazione già nel corso del secolo XVI; del resto una lettura attenta dell'opera sui Tres libri non lascia dubbi sull'ambiente in cui il suo autore si formò, poiché i riferimenti al mondo meridionale italiano vi abbondano, come vi si trovano ricordi della città natale, identificabile senza dubbio nella Penne aprutina.
L. dovette compiere gli studi di diritto nell'Università di Napoli, che nella prima metà del Trecento era un centro di prim'ordine; ma vi sono dubbi sui suoi maestri, indicati solitamente in Enrico Acconciaioco e Simone da Brossano, entrambi rammentati nella Lectura con il titolo di "dominus meus", che usava riferire appunto ai professori seguiti più da vicino. Ma Simone da Brossano non si dedicò all'insegnamento prima del 1360, ed è più facile che il rispetto con cui è ricordato da L. faccia riferimento agli alti uffici da quello ricoperti presso la Curia avignonese nel periodo in cui vi lavorò L., sicché, come osserva Montorzi, l'appellativo di "dominus meus" potrebbe ben indicare un superiore di L. e non l'antico professore. Quanto ad Acconciaioco, non doveva essere più anziano di L., se nel 1382 esercitava ancora l'ufficio di giudice della gran corte di Vicaria.
L., comunque, concluse gli studi universitari piuttosto tardi, quando era già da molti anni giurista riconosciuto e magistrato affermato. A quanto riferisce Toppi, che afferma di aver visto il diploma della sua laurea conservato ancora nel Seicento dalla famiglia, egli sarebbe stato proclamato dottore soltanto nel 1345. Gli anni Quaranta del Trecento furono travagliati per Napoli e non è facile dire se L. li trascorse frequentando corsi universitari nello Studio cittadino o se, invece, la laurea ottenuta non fosse il frutto tardivo di studi compiuti qualche anno prima. Sembra certo, infatti, che L. abbia ricoperto l'ufficio di magistrato prima del 1343, anche se non risulta che sia mai salito su una cattedra universitaria.
Rapidi passaggi della Lectura trium librorum lasciano intendere che poco dopo il 1345 L. abbia lasciato Napoli per farvi ritorno brevemente nel 1348, quando si svolse l'incontro con l'umanista Paolo da Perugia rievocato nel proemio della Lectura. Di lì a poco L. lasciò di nuovo Napoli. Fu forse assessore in Toscana e in Umbria, per trovare poi accoglienza in Curia, dove conobbe il cardinale Pierre Roger, il futuro papa Gregorio XI, cui è dedicato il commentario ai Tres libri.
Probabilmente con l'ascesa del suo protettore al soglio pontificio nel 1370, L. ottenne l'ufficio di segretario pontificio, che lo condusse ad Avignone, da dove nel 1374 scrisse a Petrarca per chiedergli ragguagli sulle opere di Cicerone. La risposta di Petrarca (Sen., 16.1), lunga e diffusa, potrebbe essere stata sollecitata da Simone da Brossano, alto funzionario della corte avignonese. L'ambiente fecondo della corte pontificia dovette acuire il suo interessamento per le lettere classiche, testimoniato dal commentario a Valerio Massimo, che risale certamente agli anni Settanta. Con tutta probabilità, in seguito al ritorno a Roma di Gregorio XI e della Curia pontificia (17 genn. 1377) anche L. dovette lasciare Avignone.
La data della morte è incerta, ma si usa collocarla a Penne intorno al 1390 (cfr. Lefebvre).
Opere. La notorietà di L. è dovuta quasi unicamente alla sua opera principale, la Lectura ai Tres libri del codice giustinianeo, intrapresa verso il 1348 e tenuta a lungo aperta a integrazioni e aggiunte, sicché non è facile dire quando l'abbia effettivamente terminata. La Lectura è opera di altissimo valore, rappresentativa della cultura del suo tempo, ma anche straordinaria per l'originalità e l'erudizione, che ne fanno una fonte ricchissima di spunti singolari, al punto da aver sollecitato analisi accurate e minuziose di storici del diritto quali Francesco Calasso e Walter Ullmann: il che non si può dire sia accaduto per alcun'altra opera giuridica del secolo XIV.
Com'è attestato dal proemio, in cui si narra dell'incontro a Napoli con Paolo da Perugia, (che si era rifugiato nella città dove avrebbe trovato la morte di lì a poco nell'epidemia della peste nera), fu il grande erudito di gusti umanistici a suggerire a L. di dedicarsi all'opera. Magistrato come L., erudito nell'ars dictaminis, Paolo era un poeta-giurista che si apriva sempre più alle suggestioni dell'umanesimo: dedicato a Roberto da Capua, nipote del logoteta Bartolomeo, il suo commento alle satire di Persio rivela, pur nella struttura ancora scolastica, un'apertura decisa verso l'antico, che giustifica i rapporti calorosi intrattenuti con G. Boccaccio e potrebbe illuminare anche l'opera di L., definita da Ullmann - con qualche esagerazione - "the first humanistic commentary of law".
Nel vastissimo commentario agli ultimi tre libri del Codice, infatti, L. inserisce una grande quantità di riferimenti alla letteratura classica: di Aristotele cita l'Etica, la Politica, la Metafisica, la Retorica; di Cicerone non soltanto le opere consuete per i giuristi, come il De officiis, De legibus, De re publica, De oratore, ma anche quelle più lontane dal diritto, come le Filippiche o il De amicitia. Non manca Seneca né quel Valerio Massimo al quale più tardi L. avrebbe consacrato l'ultima sua fatica letteraria. Abbonda la letteratura cristiana antica: Lattanzio, Cassiodoro, Cipriano, Giovanni Crisostomo, Girolamo, Ambrogio, Orosio e più di tutti Agostino; ma non mancano poeti, prosatori, storici greci e romani citati per fornire esempi al lettore: Ippocrate, Erodoto, Livio, Sallustio, Apuleio, Egesippo (Giuseppe Flavio), Svetonio, Plinio, Solino; Virgilio, Orazio, Terenzio, Ovidio, Plauto, Tertulliano, Sidonio. Fra i filosofi medievali, su tutti Giovanni di Salisbury, ma anche Pierre de Blois, Ugo e Riccardo di S. Vittore, Alano di Lille, Egidio Colonna e il suo trattato De regimine principum, nonché, ovviamente, Tommaso d'Aquino. E poi Petrarca, "laureatus", citato almeno in un paio di luoghi.
Quest'abbondanza di riferimenti alla cultura extragiuridica (cui si accostano le usuali ampie citazioni di giuristi medievali) ha colpito profondamente la storiografia, che suole includere L. fra i pochi giuristi del Trecento che possono essere definiti "preumanisti" per la propensione all'uso di fonti letterarie e storiche, che si fanno spazio nella serrata prosa esegetica.
La scelta di commentare i Tres libri è una conferma di questo interessamento all'antico, che travalica l'ossequio per il testo delle norme romane per mutarsi in amore del mondo istituzionale romano. Antiche magistrature, legislazione fiscale, diritto militare, amministrazione dell'Impero: le materie disciplinate dagli ultimi tre libri del codice avevano respinto la maggior parte dei giuristi medievali, con eccezione di alcuni personaggi spesso appartati o singolari. Nel Regnum Siciliae, però, l'interessamento ai Tres libri aveva una certa tradizione: l'esegesi sui testi del diritto pubblico romano poteva infatti fare da sfondo culturale all'interpretazione dell'ordinamento particolare che a partire da Federico II aveva assunto caratteri pubblicistici spiccati.
D'altra parte, l'impulso a trattare storicamente le istituzioni pubbliche romane doveva provenire dal fervido ambiente culturale angioino della prima metà del Trecento, nel quale i giuristi letterati non mancavano: oltre a Paolo da Perugia, basti ricordare la figura di Pietro Piccolo da Monteforte, menzionato con rispettoso affetto da L., amico e ispiratore di Boccaccio, autore come L. di un commento a Valerio Massimo, come lui giudice e commentatore del diritto regio.
Questa propensione all'analisi erudita - si direbbe antiquaria - del testo indusse L. a proporre tante riflessioni sulle istituzioni del suo tempo, in un parallelismo fra antichità testimoniata dalle fonti e attualità politica che prelude effettivamente alla storiografia politica umanistica. Ed è questo l'aspetto della Lectura di maggiore attrazione per gli storici, che hanno rilevato allusioni al diritto del suo tempo così numerose da indurre a vedere nell'opera di L. un'efficace rappresentazione della "Medieval idea of law" (Ullmann).
La fortuna dell'opera non fu immediata: si conosce, infatti, soltanto un manoscritto della Lectura, il Vat. Lat., 2297-2299 della Biblioteca apost. Vaticana: tre grossi volumi in folio scritti probabilmente verso la fine del sec. XIV e decorati con cura, che tradiscono una destinazione lontana dalla pratica e dalla scuola. L. stesso, del resto, aveva inteso esplicitamente compiere un'opera non scolastica, né risulta che il commentario sia mai stato riprodotto in serie per la diffusione attraverso il sistema della pecia.
Più ampia diffusione attendeva la Lectura nell'era della stampa. Impressa per la prima volta a Parigi, il 15 genn. 1509, fu curata dall'attivissimo Jean Chappuis, che in quegli anni andava apponendo le ultime modifiche alle sue edizioni di decretali ch'erano destinate a prospettare il volto definitivo del Corpus iuris canonici. Dopo soli tre anni, nel 1512, la Lectura (designata con l'equivalente termine Commentaria) fu ristampata a Venezia, con la citata correzione della patria meridionale di Luca. Un errore congiuntivo presente nel proemio ("sciscitatus" invece di "facti citatus", leggibile correttamente nel ms. vaticano), peraltro, potrebbe rivelare che la stampa veneziana riprese il testo edito a Parigi senza correggerlo con altri esemplari manoscritti. Seguirono sette edizioni lionesi: 1529, 1538, 1544, 1545, 1557, 1582, 1586. Nel 1597 fu riproposta l'edizione 1582, che è oggi quella più ampiamente disponibile.
Il gran numero di edizioni lionesi non sarebbe in sé sufficiente ad attestare una diffusione francese dell'opera, giacché Lione fu centro di produzione libraria internazionale indipendente dai gusti locali. Ma le citazioni dell'opera di L. presenti negli scritti dei dotti francesi sono indice di una certa fortuna transalpina della sua opera, che si osserva a partire dal Cinquecento. Quanto all'Italia, il ricorso alla sua opera fu costante sia nel Medioevo sia nell'età moderna, soprattutto nel Regno di Sicilia.
Nel Meridione, inoltre, il suo nome fu legato ai commenti alla legislazione regia. Menzionato frequentemente nelle edizioni a stampa degli apparati alle compilazioni legislative siciliane, pare che L. abbia redatto additiones sparse soprattutto alla raccolta dei Capitula angioini; un controllo sulla tradizione manoscritta sarebbe però necessario per valutare correttamente il carattere e la portata del suo contributo all'esegesi del ius proprium meridionale.
Sembra provenire direttamente dall'attività professionale il consilium confluito fra le additiones al commento di Andrea d'Isernia al Liber Augustalis stampato in diverse edizioni in margine alla costituzione Maiestati nostrae (Lib. August., 3.83). Si tratta di un brano di Biagio da Morcone, che riferisce di aver richiesto un parere a L. in tema di conflitto di competenza fra il tribunale ecclesiastico e quello laico in materia di adulterio. Il consulto di L., a dire di Biagio, è trascritto "de verbo ad verbum".
La produzione propriamente giuridica di L. risulta insomma quasi tutta concentrata nel monumentale commento ai Tres libri, dal quale talvolta sono estratti brevi passaggi posti a mo' di commento alle norme siciliane. Anche un trattatello De praesumptionibus, che compare come opera a sé in un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma (ms. C.6.1), non è in realtà che un brano della Lectura artificialmente dotato di autonomia.
Grande importanza e sicura originalità ha il lavoro di commento ai nove libri Factorum ac dictorum memorabilium di Valerio Massimo: un'opera molto in voga nell'ambiente di Petrarca e di Boccaccio e oggetto di attenzione da parte di alcuni giuristi, anche grandi, che ne hanno lasciato commenti o parafrasi.
Accanto al diffuso commentario di Dionigi di Borgo San Sepolcro, al volgarizzamento dovuto forse a Boccaccio, alla più tarda traduzione francese di Nicolas de Gonesse, anche il principe dei canonisti Giovanni d'Andrea volle comporre dei Summaria in Valerium Maximum, e Pietro Piccolo da Monteforte, giurista che condivideva buona parte della formazione di L., ne lasciò un manoscritto ampiamente annotato. Ma il commentario di L. è certo più cospicuo e più profondo delle opere dei suoi colleghi giuristi, e dimostra che le propensioni verso la cultura grammaticale, evidenti nella Lectura sui Tres libri, si erano sviluppate in L. durante gli anni di permanenza alla corte pontificia. Redatta certamente intorno al 1374, come rivela un accenno alla recente morte di Petrarca, l'opera è dedicata allo stesso Pierre Roger cui era consacrato il commentario ai Tres Libri, ancorché l'antico cardinale fosse ormai papa Gregorio XI.
Al papa, che era stato giurista e allievo di Pietro degli Ubaldi, L. offre un'opera segnata dal convergere della propria formazione giuridica e dei nuovi, sempre più forti interessi per la storia e la costituzione dell'antica Roma. Se gli esordi dell'umanesimo giuridico possono identificarsi con il rinnovato interessamento dei giuristi per le arti grammaticali, questo ampio commento di Valerio Massimo è davvero emblematico di una svolta nella cultura dei giuristi trecenteschi: L. si sofferma molto, per esempio, sulle magistrature romane, comparandole a quelle del suo tempo, prefigurando gli interessi di tanti umanisti del Quattro e del Cinquecento.
Il commento a Valerio Massimo, che non è mai stato stampato, meriterebbe dunque uno studio approfondito. Ne sono segnalati tre manoscritti, uno solo dei quali completo: Auch, Bibliothèque municipale, ms. 8 (completo); Reims, Bibliothèque municipale, ms. 1332 (O. 884); Leida, Biblioteca dell'Università statale, Voss. Lat., F.89. Il proemio è edito, con interessanti note critiche, da Mario Montorzi, ma dal solo manoscritto leidense.
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