CONTILE, Luca
Nacque a Cetona (Siena) nel 1505 da famiglia forse non nobile, ma agiata e notevolmente stimata.
Lo stesso C. fornisce importanti ragguagli circa la sua famiglia nel Ragionamento sopra la proprietà delle Imprese. Attraverso quest'opera apprendiamo che il nonno paterno del C., Luca, aveva sposato a Perugia una Bevignati, famiglia imparentata con i Baglioni, e che il padre del C. "discadé dalla nobiltà non già per opera di mala vita... ma per essercitio non convenevole a gli antenati suoi". Si era probabilmente dedicato a qualche professione "meccanica" che aveva fatto scadere la reputazione della famiglia. Alla quale, comunque, il C. si dimostrò sempre molto legato nonostante le numerose peregrinazioni in Italia e all'estero aiutando, anche materialmente, la madre e i fratelli Guidotto, Camillo e Ceccante. Un figlio di Guidotto, Giovanni, per il quale il C. nutrì particolare predilezione, fu da questo sistemato come segretario di monsignor di Ceneda Michele Della Torre.
Sempre dal citato Ragionamento sappiamo che egli fu mandato a studiare a Siena frequentando corsi regolari ove lesse i maggiori scrittori in volgare e si impossessò del latino (tanto da corrispondere in questa lingua con l'amico Federico Orlandini). Forse solo da dilettante si interessò anche di filosofia, di matematica e di musica, alternando agli studi gli svaghi che poteva presentare un'allegra brigata studentesca. Proprio per il contrasto con le esperienze a venire saranno questi gli anni più felici della vita del C., impressi come tali nella sua memoria quando, ancora nel 1541, scrivendo da Roma all'amico Orlandini, egli si ricordava "del giocar d'armi, del giuoco della lotta, del lanciare il paio, et dei sollazzi ballereschi" (Lettere, I, c. 45).
Intorno al 1520il C. perse il padre e, nonostante si fossero aggravate le condizioni economiche della famiglia, egli fu mandato a studiare a Bologna ove seguì le lezioni di Ludovico Boccadiferro. In questo periodo al vago entusiasmo filosofico proclamato negli anni giovanili si sostituì un vero e proprio apprendistato aristotelico, orientato essenzialmente sui testi dell'etica e della retorica (e documentabile in varia misura nell'intero arco dell'attività letteraria del C., dagli immaturi Dialogi spirituali al tardo Ragionamento sulle imprese), ma è anche vero che tale disciplina era destinata a rimanere più un'aspirazione che un risultato acquisito per il C., il quale dovette precocemente avvezzarsi ad un costume ben diverso da quello del filosofo, cioè a quello del cortigiano, continuando (come autodidatta) gli studi intrapresi presso il primo mecenate che la fortuna (nelle vesti del conte Giulio Boiardo) non esitò a procacciargli: il cardinale Agostino Trivulzio.
Da Bologna il C. si trasferì presso il Trivulzio a Roma e lo spettacolo che la città di Paolo III offrì al giovane provinciale fu splendido: "Qui veramente si vive con universale contentezza, perché universale è la gratia, che sparge questo santissimo Pontefice. Qui trovano misericordia i poveri, qui sono premiati i dotti, qui sono stimati i buoni, qui sono accarezzati i valorosi soldati, qui stanno secure da le tirannie tutte le persone, qui ponno in tutti i modi fare le lor faccende i mercatanti, qui non ha luogo l'otio, perché i dotti quasi ogni dì disputano dinanzi al Papa, i gentilhuomini ogni dì nell'esercitio de la Cavalleria sotto la scorta di questi gratiosi e nobilissimi Nepoti di S. Santità si trattengono, non manca ancora ad alcuni sfaccendati il trattenimento o ne' giuochi de le carte, o de' dadi, o con le cortigiane... In somma Roma è come quel vaso di Pandora né più né meno, dove erano rinchiuse le virtù con i vitii" (Lettere, I, c. 22).
È un giudizio, questo del C., non dissimile da quello espresso da altri giovani letterati attratti a Roma dal mecenatisme, di Alessandro Farnese e votati a quell'attività oziosa, priva di ogni seria intenzione artistica che si svolgeva nelle varie accademie romane., quella della "Virtù", della "Poesia nova", dello "Sdegno". La prima, bollata dal Berni con un giudizio irrevocabile (parlava dei suoi aderenti come dei "morti dell'accademia"), è nota soprattutto per la squallida cicalata di Annibal Caro sul naso di Francesco Leoni; la seconda trae il nome dai tentativi infruttuosi di rinnovamento metrico della poesia in volgare in cui si cimentò Claudio Tolomel; la terza annoverava tra gli altri (Tommaso Spica, iI Molza, l'Atanagi) quel Trifone Benci che fu ricordato con disprezzo dal Berni nel celebre Sonetto di Ser Cecco e che costituirà il destinatario della Vita di Corte di Cesare Caporali: un personaggio minore ma sicuramente significativo per comprendere quell'ambiente di "scapigliati" che passa, intorno agli anni '30, da una licenziosità quasi soltanto verbale, connessa ancora al clima carnevalesco della Roma leonina, ad una più rigida e sorvegliata passività intellettuale voluta dalla Controriforma; dalla distrazione all'autodisciplina. Sotto questo aspetto è sintomatica proprio l'attività del Caro (che ha molti punti in comune con il C. quanto a preparazione culturale, ad alcune amicizie, e persino alla predilezione per determinati generi letterari: basti pensare all'epistolografia e alla commedia), il quale svolse nell'ambito delle accademie romane e all'insegna di un'azienda tipografica efficiente come quella del Blado (il celebre "Barbagrigia" degli Straccioni) un'opera di restaurazione per esempio nei confronti del bernismo, difficilmente sopravvalutabile in sede di storia della cultura rinascimentale. Parecchi "innocui" bernisti amici del Caro (Gandolfo Porrino, Francesco Bini, il Ruscelli) furono anche in stretta relazione col C., che si trovò a condividerne le più salaci avventure, le adunate gaudenti, i discorsi "a la sciamannata", ma anche un deplorevole isolamento intellettuale, quell'ostentato parassitismo che logora sempre più profondamente l'opera e la figura stessa del letterato di corte. Apparenze prestigiose nascondono insomma la superfluità dell'intellettuale ed è proprio tale scacco ciò che sperimenta il C. a Roma, mentre, d'altro canto, egli non può che riferire ad altri il motivo della propria inerzia e nelle Lettere si infittiscono le rimostranze per i continui disagi, per un tempo che appartiene interamente al mecenate e non a se stesso.
In realtà i servizi prestati al Trivulzio non furono né frequenti né troppo gravosi, anche se il C. ne scarica la presunta insopportabilità con toni della consueta inadempienza cortigiana, comici o beffardi. Nel 1541 egli accompagnò il cardinale a Lucca per l'ingresso di Carlo V. I temi all'ordine del giorno erano della massima importanza perché il marchese del Vasto sembrava intenzionato a rompere la tregua voluta da Paolo III tra Francia e Spagna, e il re di Francia, dal canto suo, cercava di intralciare l'impresa di Algeri, la cui riuscita avrebbe accresciuto il prestigio di Carlo V; ed ecco il ritratto che dell'imperatore compie per l'occasione il C.: "Credo certamente che Carlo V abbi spogliato qualch'un che andasse mercatando, perché quei suoi parinacci sono stati portati più di due anni, né crediate che la polvere gli facesse parer così, perché vedevo bene io che erano spelati, e'l fil bianchiccio si discerrieva di lontano" (Lettere, I, c. 39). In altra occasione, di ritorno da Urbino dove si era recato per conto del Trivulzio, il. C. dové sostare in pieno inverno a Montefiascone e di qui indirizza a Bernardo Spina una lettera che richiama molto da vicino quelle del Caro improntate a simili infortuni di viaggio: "La barba fa disgelare con panni caldi, i piedi fo intiepidire con mostrargli il fuoco, il palato si humetta con zuppa di buon vino et è di quel di Montefiascone. Le mani tengo avviluppate in un mantil caldo, ma ci sento le formiche dentro che scaramucciano, non mordono et non pizzicano, imperò tribulano i nervi e le gionture a più non posso" (Lettere, I, c. 81). Il motivo dello screzio coi Trivulzio fu il procrastinarsi dei matrimonio (di cui si era fatto personalmente garante il C.) fra Giovanni, nipote del cardinale, e Laura Gonzaga, ma in effetti l'irrequietezza del cortigiano e la sua ambizione di procacciarsi mecenati più prodighi aveva già avuto modo di manifestarsi. Durante il 1542 il C. risiede quasi ìninterrottamente a Milano e soggiorna presso il marchese del Vasto. Nel settembre di quell'anno egli scriveva a Orlando Marescotti in termini che non lasciano dubbi circa la prossima e definitiva rottura col Trivulzioz "Servo hora a dui Signori: al S. Marchese del Vasto per elettione et al Trivultio per bisogno che qui gli occorre..." (Lettere, I, c. 78). In realtà questa avvenne tra il 1543 e il '44, trovandosi già il C. nei primi mesi di quest'anno a Milano al servizio di Alfonso d'Avalos dopo un breve soggiorno a Siena e una visita a Modena ove poté rendere l'estremo saluto al Molza.
Frutto di questa prima esperienza cortigiana del C. sono i Dialoghi spirituali, che furono, secondo la testimonianza dell'autore, amorevolmente sollecitati da Giulio Boiardo nonché favoriti da Vittoria Colonna durante una conversazione avvenuta a Roma nel 1541. Elaborata nel '42 a Milano, l'opera vide la luce a Roma l'anno successivo e fu benevolmente accolta presso gli ambienti accademici, soprattutto dal Tolomei, che lodava l'ispirazione devota dei Dialoghi ("gli ho trovati pieni di dottrina, pieni di affetto, pieni di spirito, pieni di santità") avanzando solo qualche riserva sulla lingua del C.: "Ben vi dico che la grammatica da Voi usata in questi vostri dialoghi non mi piace" (C. Tolomei, Lettere, I, Napoli 1829, p. 41).
Si tratta di cinque conversazioni in materia religiosa che si fingono rivolte tra personaggi direttamente o indirettamente conosciuti dal C. durante il soggiorno bolognese ovvero in occasione dei viaggi compiuti al servizio del Trivulzio, tra cui Girolamo e Sforza Pallavicino, Giulio Boiardo, Giulio Landi, Ludovica Trivulzio, Camilla de' Rossi, Virginia Pallavicino. Nell'ordine in cui si succedono i terni affrontati riguardano: "Se Iddio è, et come è trino et uno", "Se la fede Christiana se può mostrare fra tutte l'altre sola essere la vera", "Perché gli Giudei sono ostinati in tanta certezza del nostro Messia", "Quale è la vita de' dannati, et quale quella de' beati", "Quale è il viaggio di salire in cielo". Nel complesso l'opera, priva di ogni interesse speculativo, può considerarsi una rigida chiusura verso ogni istanza di ordine riformistico in base al concetto di un'ortodossia che deve salvaguardarsi, manu armata, da qualsiasi forma di tralignamento all'intemo o di attacco dall'esterno della Cristianità. All'implacabile odio contro Lutero si unisce nel C. il risentimento contro l'alleanza francoturca e l'ammirazione per un principe (che è Carlo V e sarà Filippo II) che assuma su di sé, anche contro la Chiesa, la difesa del mondo cattolico. Queste direttive che costituiranno il costante sentimento politico del C. sono già tutte anticipate nella sua prima opera a stampa e non è da sottovalutare la perentorietà con cui il letterato senese si libera dai residui di una tradizione riformistica (accreditata, se non altro, dai rapporti con la Colonna) per imboccare la strada maestra dell'autoritarismo tridentino. Rispetto ai letterati ancora gaudenti della corte farnesiana, egli getta sulla bilancia (una volta di più come il Caro) l'adesione ad un preciso indirizzo ideologico che non verrà più smentito dalla futura attività letteraria.
Presso la corte di Alfonso d'Avalos le condizioni di vita del C. migliorarono notevolmente. Il condottiero era stato educato all'uso delle armi alla luce di ideali squisitamente cavallereschi ed era egli stesso un letterato, nutrito al culto della poesia da Vittoria Colonna e da Costanza d'Avalos; la moglie Maria d'Aragona, secondogenita di Ferrante, aveva recato con sé a Milano una splendida consuetudine di corte e rappresentava, assieme alla sorella Giovanna, un ideale di nobiltà e di bellezza vagheggiato dai più fecondi poeti contemporanei. In siffatto ambiente potevano ampliarsi notevolmente gli orizzonti culturali del C., che stabilì rapporti con letterati di gran lunga più famosi di quelli conosciuti alla corte del Trivulzio, quali l'Aretino, il Giovio, Girolamo Muzio e, tramite quest'ultimo, Giulio Camillo. Questi era di recente tornato dalla Francia ed era in auge per l'idea di quel famoso "teatro" che aveva interessato Francesco I e sembrava ora affascinare Alfonso d'Avalos. D'altro canto la corte milanese prometteva al C. un campo tanto più vasto d'azione pubblica onde far valere i propri servigi in qualità di segretario più che come semplice e anonimo cortigiano. Sfortuna volle che egli sperimentasse il destino già declinante di Alfonso, sconfitto, proprio nel '44, nella battaglia di Ceresole mentre tentava di arginare la vittoria francese contro Pirro Colonna, e poi governatore dimissionario dello Stato di Milano al cospetto di Carlo V, che aveva ìndetto per il 1545 la Dieta di Worms. Tra gli uomini che seguirono il marchese del Vasto in Germania erano il Muzio e il C., il quale nutriva fieri propositi all'idea di conoscere Martin Lutero ("lo voglio conoscer per vista - scriveva al Quinzio nel luglio 1548 - havendo gran nome di letterato, sì come è gran tristo, et vecchio, ha per moghe una monaca, è bellissima et giovanissima, la qual dice el suo marito non conoscere altra Trinità che la gola, la lussuria et l'avaritia. Et quel che egli non può fare con lei, con guadagno fa fare ad altri. Eccovi il testimonio di questa diabolica setta": Lettere, I, c. 120), mentre dové limitarsi ad una più angusta polemica ragguagliando Alfonso delle beghe che erano nel frattempo scoppiate in Italia tra due letterati ben noti alla corte milanese, l'Albicante e il Doni. Sembra comunque che non al C. ma al Muzio fosse riservata la delicata funzione di mediare le relazioni di Carlo V con Alfonso dAvalos al momento in cui questi pretese che fossero nominati degli arbitri per sindacare sul proprio operato. Il C. assolse l'incarico di distrarre il marchese accentuando le tinte caricaturali con cui l'Albicante si offriva alla stima dei mecenate ed anche quando Alfonso fece.ritorno a Milano le funzioni subalterne del C. non poterono esplicarsi all'infuori di rime di esaltazione e di compianto.
Il marchese dei Vasto morì a Milano nel marzo del 1546 e il C. approfittò per qualche settimana dell'ospitalità che il Tolomei gli offrì a Piacenza. Poi, quando Maria d'Aragona si trasferì a Pavia, la seguì il C. entrando a far parte, nella città lombarda, dell'accademia detta della "Chiave d'oro" che si insigniva dei nome di Andrea Alciato. Nel '47 la vedova di Alfonso d'Avalos tornò a Napoli, seguita ancora dal C., che la accompagnò sino ad Ischia, dividendosi poi per circa un anno tra la piccola corte isolana e Castel dell'Ovo ove soggiornava Giovanna d'Aragona. Senonché, forse a seguito della rivolta a Napoli capeggiata da Cesare Mormillo, improvvisamente degenerarono i rapporti tra Maria d'Aragona e il C. che fu costretto ad abbandonare la corte nel 1548. A più riprese, e finanche in occasione dell'edizione delle Rime (che furono pubblicate nel '60), il C. tenterà invano di ripristinare la propria reputazione presso l'Aragona, ma intanto bisognava far fronte alle necessità più imminenti, per cui il C., dopo una breve sosta a Roma e di nuovo a Piacenza, pensò dì far ritorno a Milano entrando al servizio di Ferrante Gonzaga. "La natura di questo principe - scriveva il C. all'Aragona nel finire del '48 - gli ha dipinto il sembiante di suprema severità, sì chq fin quando ride, mostra terribilità grandissima".
Questo secondo soggiorno milanese del C. è quello letterariamente più proficuo se si pensa che risalgono a tale periodo due delle commedie edite, La, Pescara e la Cesarea Gonzaga, nonché le favole mitologiche intitolate a Nice e ad Argia, oltre al Discorso sopra li cinque sensi del corpo. In realtà, se si eccettua un viaggio in Polonia compiuto per conto del suo signore nel 1550, gli incarichi assolti dal C. presso il Gonzaga, o meglio presso la moglie Isabella di Capua, furono estremamente lievi e consistettero essenzialmente nell'accompagnare la marchesa nei viaggi che questa compì a Napoli e nelle Puglie durante il 1549 e a Mantova nella primavera del '51. A simili impegni ufficiali faceva riscontro un'intensa partecipazione del C. alla milanese accademia dei "Fenici", ove si incontrava o tornava a frequentare amici di sicuro prestigio letterario quali il Muzio, il Betussi, Bernardo Spina e Giuliano Cosellini col quale si manterrà legato da sinceri vincoli di affetto. Fu sicuramente questa lontananza dai negozi di corte, unita ad una più attenta e affabile considerazione del costume quotidiano, che spinse lo scrittore verso quel genere letterario che contemperava le esigenze della rappresentazione con quelle del gioco cortese e dunque identificava il letterato con l'artefice di intrattenimenti signorili.
Veramente il C. si era dedicato alla commedia già nel periodo romano stampando nel 1542 La Trinottia (ampliata nel '44 e riedita definitivamente a Milano nel 1550). La scena si finge a Siena ove agiscono i protagonisti -Filargiro, Brondio, Icanio - che personificano rispettivamente i vizi capitali dell'avarizia, della lussuria e della superbia. Filargiro ha una figlia, Androfera, che è amata da Icanio, la cui matrigna Antofiloma è desiderata dal vecchio e impudico Brondio. Senonché Icanio non vuol perdere con la matrigna la sua ricca dote e suscita pertanto il risentimento di Brondio, che chiede per sé la figlia di Filargiro nonostante le resistenze della giovane Androfera e l'ira di Icanio. Questi allora fa trafugare da un servo il tesoro di Filargiro e, sotto il ricatto di non fargli più avere il denaro, costringe l'avaro a promettergli Androfera. A sua volta, per placare Brondio, Icanio gli concede la matrigna, ed anche la borsa del denaro tornerà - sebbene alleggerita - in possesso di Filargire, il quale giurerà di non aprirla per dieci anni temendo che l'aria gli involi il tesoro. Sembrano tutti contenti e invece ognuno dei protagonisti viene castigato dal vizio stesso che lo contraddistingue: Filargiro infatti è stato beffato nella sua avarizia; Brondio ha ottenuto per moglie una donna infedele, attratta dal giovane servo Dalichio; Icanio sconterà con Androfera lo stratagemma macchinato contro il padre di lei. Così non altro che la vita costituisce la pena per il vizio, nella stessa misura in cui la commedia è "morale" in quanto semplicemente rappresenta e l'esempio è intrinseco all'avvenimento narrato, senza bisogno di una particolare didascalia dell'autore, tant'è che l'"argomento" della Trinottia puòessere recitato dalla vita umana: "Io, così varia come mi vedete, sono la vita umana, tanti volti, di che sono composta, è la varietà mia". I volti cui accenna il prologo non sono soltanto quelli dei protagonisti, ma i volti innumerevoli dei servi e delle cortigiane, dei ruffiani e degli affaristi che invadono non accidentalmente la scena della commedia in quanto esemplificano in ogni loro atto una condizione di miseria e di segregazione morale che si sconta, prima di tutto, sulla scena. ú una lezione questa del C. che sicuramente si perpetua, attraverso i modesti contributi di Bernardino Pino e di Sforza Oddi, fino a Giovan Maria Cecchi, anche sotto il profilo della lingua, che, abbandonate le seducenti, ma fredde e libresche, invenzioni del Caro, si configura secondo un assetto razionalmente plausibile orientato verso una tecnica del convincimento.
è necessario partire da questo moralismo integrale della Trinottia per intendere gli sviluppi, ma soprattutto le deviazioni delle ulteriori prove teatrali del Contile. LaPescara (Milano 1550) mostra un esempio di amicizia virtuosa tra due giovani romani, Lucio e Curzio. Di Curzio si innamora Erminia, sorella di Lucio, ma Curzio non può corrisponderle se non nei limiti di un affetto fraterno. Sopraggiunge intanto a Roma un ricco mercante fiorentino, Virgilio, recando con sé una figlia adottiva, Antofilonia, che egli ha comperato ancora bambina a Costantinopoh e che ha fatto educare a Pescara. Di essa si innamorano entrambi i giovani, ma Antifilonia si promette a Lucio, mentre Virgilio, d'accordo con la vedova Comelia, madre di Curzio, la concede a quest'ultimo. Quando i due giovani apprendono di essere rivali, si prodigano con ogni mezzo perché nessuno dei due intende godere del sacrificio dell'altro: giungono a preferire la morte piuttosto che tradire l'amicizia e incorrono di fatto nelle sanzioni delle autorità romane che intendono far rispettare l'impegno assunto da Virgilio. L'intreccio si risolve allorché viene scoperto che Antifilonia è figlia di Cornelia e quindi sorella di Curzio. Questi dunque sposerà Erminia divenendo cognato di Lucio. Il lieto finale prevede anche il matrimonio di Comelia con Ascanio, padre di Lucio, che redime in vecchiaia una vita di dissolutezze. Per esplicita attestazione dell'autore il lavoro vuole essere una "commedia grave", ove l'insegnamento si affida soprattutto ai toni patetici con cui viene presentato i I contrasto tra amore e amicizia, l'eroismo dei giovani che preferiscone sacrificarsi anzichè venir meno al reciproco affetto. Ed è proprio tale duplicità di piani, tra intenzioni moralistico-patetiche e raffigurazione "comica" di uno spregiudicato ambiente urbano, che minaccia gravemente l'unità dello stile, mentre, d'altro canto, il pesante ricorso alla fonte plautina non fa che scierotizzare, più di quanto non moralizzi, i caratteri dell'opera.
Qui si rende più scoperto ed estrinseco il fine dell'autore che è quello di castigare un genere letterario epurandone le pretese licenziosità della tradizione. Al mecenate il C. si rivolgeva in questi termini: "Leggete... ogni sorte di lezioni che la civiltà non vieti e che la religione non proibisca, et leggete le comedie, non dico le mie, che non portano quella perfezione di soggetto come vorrei, ma tutte quelle che da persone tanto dotte come modeste e civili sono state composte et che in ciò non per far ridere ma per ammaestrare affatigate si sono". Su questa linea, che ormai rifiuta l'equilibrio della Trinottia per una netta subordinazione dell'elemento rappresentativo al fine edificante, si trova La Gesarea Gonzaga rappresentata nel 1549 a Milano, in concomitanza con GliInganni del Cecchi, per una festa di corte con cui Ferrante Gonzaga intendeva onorare la visita di Filippo d'Austria, e pubblicata a Milano nel 1550. La trama è estremamente semplificata. Due giovani, Ottavio e Lucanio, sono affidati dal padre Petronio (la scena si finge a Bologna) all'istitutore Ruberto. Senza pensare molto agli studi entrambi si innamorano della medesima fanciulla, Giulia, figlia della vedova Sempronia, la quale si promette ad Ottavio, mentre Lucanio è amato dalla sorella di Giulia, Camilla, L'intrico sembrerebbe inestricabile quando si scopre che Ottavio è in realtà una ragazza (travestita da uomo perché potesse senza pregiudizi compiere gli studi accadeniici) e Giulia è un uomo (resa irriconoscibile dalla madre per scampare a certi nemici di famiglia). Lucanio non può godere che di Camilla e tutto si sistema anche nel rapporto, semplicemente invertito, tra Ottavio e Giulia. Durante le relative agnizioni le due coppie vengono favorite dal benevolo Ruberto e ostacolate da Petronio, che tuttavia acconsente alle duplici nozze, e pensa alfine di suggellare il buon esito della vicenda sposando egli stesso Sempronia.
Gli scrupoli moralistici restringono i caratteri e l'azione scenica ad un livello di accettabilità destinato a sconfinare nel puro gioco cortese. Non è un caso dunque se alla commedia fa seguito nella produzione del C. la farsa pastorale e mitologica, connessa alle esigenze encomiastiche che condizionano l'attività del letterato presso la corte gonzaghesca, sempre più pesantemente improntata al ricorso cauterizzante della classicità. Tali prove consistettero nella Nice, rappresentata a corte nel '51 per festeggiare un soggiorno presso Ferrante del cardinale Ercole Gonzaga (e stampata a Milano nello stesso anno) e dell'Argia, ideata in onore di Ippolita Gonzaga, figlia di Ferrante e vedova nel '51 di Fabrizio Colonna (l'opera venne stampata a Milano nel 1552). La prima è un intreccio faticoso, e alla lunga stucchevole, di favole mitologiche "tragiche" (gli amori di Adone e di Venere, di Aci e di Galatea) accomunate dal tema della morte e della metamorfosi dell'eroe; la seconda è una ricantazione in terzine di squallidi endecasillabi del tradizionale tema dell'Amore sensuale che insidia le ninfe di Diana e viene infine costretto dalla dea a sentimenti più casti e costumati. L'Argia contempla, rispetto al puro descrittivismo della Nice, una forma drammatica: secondo una inveterata consuetudine del genere pastorale ad ogni figura mitologica corrisponde un personaggio reale della corte gonzaghesca che assiste o che interviene direttamente nella rappresentazione. Si tratta tuttavia di parti fittizie che obbediscono alle finalità apologetiche dell'autore e non servono davvero a movimentare la scontata rigidezza della trama.
Di ancor più scarso rilievo è il Discorso sopra li cinque sensi del corpo nel Comento d'un Sonetto del Signor Giuliano Goselini, Milano s.d. (ma quasi certamente 1552, come si deduce dalla lettera dedicatoria "all'Eletto di Trento"). L'opera consta di due parti che si sovrappongono con un certo squilibrio per l'economia dell'insieme: nella prima il C. legittima il genere letterario del commento (recando anche testimonianze preziose, come quando elogia l'abilità funambolica dei Camillo, capace di dar "diece interpretazioni" sopra un sonetto del Petrarca) e disquisisce sui sensi che si affmano fino a rendersi atti a percepire la bellezza ideale; la seconda parte costituisce il vero e proprio commento al mediocre sonetto dei Goselini "Gli occhi miei di lor chiaro aspetto" (in De le rime del S. Giuliano Goselini, Milano 1574, p. 151) e in questa sede la militanza poetica del C. non si solleva dal livello di decorosa ammirazione per l'amico. Ma qui non è tanto l'esperto nelle rime che vuol farsi valere quanto il dotto che legifera, sotto il profilo del commento, una tradizione che va da Pico della Mirandola al Varchi, e in effetti le parti meno stanche dell'opera sono quelle che in qualche modo si rifanno all'ermeneutica savonaroliana, come avviene per la descrizione dell'organo visivo che richiama l'esempio di Girolamo Beniveni. Resta comunque molto lontana questa attività erudita del C. (di cui sarà cosparsa l'ultima parte della biografia) dal momento dei teatro, che, soprattutto nella fase iniziale, lasciava supporre qualità rimaste successivamente inespresse.
Il Discorso sopra li cinque sensi, composto probabilmente a Milano, fu dato alle stampe quando l'autore si era già licenziato dai Gonzaga ed era entrato a far parte del seguito del cardinal Cristoforo Madruzzo, ai cui servig.; rimase dal 1552 al '57. Alle origini della rottura con il governatore di Milano stanno forse le notizie che il C. fece trapelare durante il soggiorno in Polonia circa l'azione militare che Ferrante Gonzaga stava preparando contro Parma (ne farebbe fede una lettera del (1 del 28 maggio 1560: Lettere, II, c. 256) suscitando a corte una corrente ostile che faceva capo ad Agostino de' Landi. Nel 1554 il C. accompagnò Ludovico Madruzzo, nipote del cardinale, alla Dieta di Augusta, nel '57 seguiva il neoeletto governatore a Milano, ma, nonostante le pubbliche professioni di fede filospagnola (furono stampate a Firenze nel 1556 le canzoni intitolate Le sei sorelle di Marte), è da supporre che già da questo momento egli brigasse in favore della corte piacentina; tant'è che nell'autunno dello stesso '57, dopo un'ambasciata a Roma presso Paolo IV, il C. venne licenziato da Cristoforo Madruzzo e assunto da Ottavio Farnese.
Da questo periodo gli itinerari del C. si infittiscono vertiginosamente. Spinto da necessità economiche che furono solo in parte ovviate dalla concessione (successivamente contestata) delle entrate del porto della Trebbia, nel 1558 egli abbandona il Farnese ed entra al servizio di Sforza Pallavicino favorendone a Venezia l'elezione a governatore generale delle truppe. A Venezia il C. frequenta il Ruscelli, il Dolce, corrisponde con i più noti accademici della Fama fra cui Bernardo Tasso e Francesco Patrizi, manell'aprile del '60 è di nuovo senza padrone e lo sorprendiamo scrivere da Milano una lettera sconfortata al Betussi. Tenta invano di riconciliarsi col Farnese recandosi personalmente a Piacenza, poi ripara nuovamente a Milano, sotto la protezione di una famiglia amica, gli Avalos, e per interessamento di Francesco Ferrante ottiene nel '62 l'incarico di commissario dell'estimo a Pavia (in onore dei vecchi mecenati il C. compone e dà alle stampe, a Pavia nel 1564, La Historia de' fatti di Cesare Maggida Napoli, che era stato un capitano lungamente al servizio degli Avalos). Ma nonostante le migliorate condizioni economiche l'impenitente cortigiano non desiste dal fantasticare più vantaggiose prospettive. Per questo si rivolge a Emanuele Filiberto, stringe relazioni con Chiappino Vitelli che era diventato signore di Cetona (e forse in questi appelli si celava per il C. il desiderio di concludere i suoi giorni nella terra natale), giunge persino a reclamare una pensione a Filippo II (Lettere, II, cc. 260 s.). Gli anni pavesi rappresentarono comunque il periodo più sereno della vita del C., quelli in cui l'autore poté dedicarsi con maggior tranquillità e ancora sotto la grande ombra di un'accademia, all'opera cui forse intendeva affidare la propria reputazione letteraria, il Ragionamento sopra la proprietà delle Imprese con le particolari de gli Accademici Affidati ... (Pavia 1574).
In primo luogo il C. distingue le impres vere e proprie dai generi affini, in cui si possono porre le "armi", le "divise", le "livree", le "fogge", gli "emblemi", i "riversi delle medaglie", le "cifre" e i "geroglifici". Perviene quindi ad una definizione dell'impresa, che è "componimento di figura e di motto rappresentando vertuoso e magnanimo disegno", per giungere, attraverso un fitto dialogo con gli autori che si erano cimentati nel medesimo tema, a rivendicare l'uso delle imprese solo a personaggi magnanimi e virtuosi, esclusi "li tinti d'infamia et i professori dell'arti meccaniche, eccettuati gli ingegneri che stanno a' servigi de' principi, i Pittori eccellenti e gli statuarii famosi". Infine lo scrittore, dovendo ragguagliare sulle imprese degli Affidati, fornisce notizie biografiche intorno agli accademici ed è proprio questa la parte più interessante dell'opera (in cui, tra l'altro, il C. parla abbondantemente di se stesso) rispetto alle sezioni precedenti, che per l'ambizione di suggerire una chiave interpretativa in senso assoluto - il primo ad usufruire delle insegne sarebbe stato Dio parlando per simboli agli uomini - si confermano ad un livello già superato da opere specialistiche quali quelle del Bargagli e dell'Ammirato.
Non aggiungono fama al C. neanche le due tarde sillogi delle Rime, Venezia 1560 (ma vedi anche tra le Rime per gli Accademici Affidati di Pavia, Pavia 1565, i versi del C. che vi furono compresi alle pp. 231-255), e delle Lettere, in due volumi, Pavia 1564 (per la corrispondenza dell'ultimo decennio vedi A. Ronchini, Lettere di L. C., tratte dagli autografi che si conservano a Parma nell'archivio governativo, in Archivio veneto, III[1871] pp. 96-119, 311-330; IV [1872], pp. 133-148, 289-336, e Lettere di scrittori italiani del sec. XVI stampate la prima volta, a cura di G. Campori, Bologna 1877).
Le Rime piacquero al Patrizi, che commentò la prima parte di esse (consistente in cinquanta sonetti in lode di Giovanna d'Aragona) aggiungendovi un Discorso sull'amore spirituale, ma non varcarono le soglie del Cinquecento e sembrano tutt'ora irrecuperabili, ispirate come sono a motivi di ordine occasionale ed encomiastico. Le Lettere non hanno né la forza di quelle dell'Aretino né la spigliatezza di quelle del Caro, e traspare quasi sempre la squallida figura del cortigiano impotente e restio ad ogni disciplina, del letterato ambizioso e incompreso. Entro questi limiti forse i motivi più apprezzabili dell'epistolario sono proprio quegli autobiografici, ove il C. dichiara a se stesso i contrasti insiti nella propria condizione: "Vero è che chi si sottopone a la servitù - confessava al fratello Guidotto - entra in sì dure conditioni che si può chiamare huomo infelice perché primamente non è di se stesso, cosa contra natura, non è per gli amici, uso contra l'umane leggi, non è per il padre, non per la madre, né per il restante del suo sangue, violenza contra la divina ìnstituzione, e che peggio? non è ancor per Dio, perdita finalmente de l'eterna salute. A insomma la servitù il postremo di tutti i mali" (Lettere, I, c. 42). Una testimonianza che farebbe pensare al Berni se non esistesse, appunto. la discriminante incolmabile del ricorso alla fede e alle istituzioni.
Nella piccola civiltà letteraria degli Affidati il C. visse gli ultimi anni, "guidato" (fu il suo nome accademico) dal superiore esempio del Giraldi e confortato dagli amici Filippo Binaschi, Ippolito Orio, Giambattista Pico, che sarà il suo esecutore testamentario. Morì a Pavia il 28 Ottobre del 1574.
Si ricordano ancora del C. Le istitutioni dell'Imperio contenute nella Bolla d'oro, nuovamente dalla latina lingua nella volgar lingua tradotte (Venezia 1558) e L'origine degli elettori dell'Imperio (ibid. 1559). Altre opere devono considerarsi perdute, fra cui la traduzione del dodicesimo libro dell'Eneide, un Discorso sopra il duello di Turno ed Enea ed alcune lezioni proferite al cospetto degli accademici della Fama e Affidati.
Fonti e Bibl.: Per l'elenco dei corrispondenti del C. e la sua presenza nelle numerose raccolte cinquecentesche di lettere curate dall'Atanagi, dal Turchi, dal Ruscelli, si rinvia all'appendice bibl. di A. Salza (L. C., uomo di lettere e di negozi, Firenze 1903, pp. 278-281), cui bisogna aggiungere le edizioni moderne delle Lettere del Giovio (a cura di G. G. Ferrero, Roma 1956-58) e del Caro (a cura di A. Greco, Firenze 1957-61), ad Indices. Tra le lodi elargite al C. dai contemporanei si ricordano quelle di G. Ruscelli nei Discorsi tre a M. Ludovico Dolce, Venezia 1553, p. 78, e nel Tempio della Divina Signora Giovanna D'Aragona, I, Venetia 1554, c. 2; di G. Betussi nelle Immagini del Tempio alla Signora Donna Giovanna Aragona, Firenze 1556, c. 2; di G. Fratta nella Malteide, Venezia 1596, c. XXIV, stanza 2 (su cui vedi A. Belloni, Gliepigoni della Gerusalemme liberata, Padova 1893, p. 98). Un indizio della fortuna cinquecentesca è anche costituito dal fatto che due commiati di canzoni dei C. furono musicati da G. T. Cinello nel Libro primo de Canti a quattro voci sopra madrigali et altre rime, Venezia 1548 (vedi sull'argomento G. Gaspari, Catal. della biblioteca dei Liceo musicale di Bologna, III, Bologna 1893, p. 60). Oltre alla monografia dedicata al C. dal Salza sono da vedere: G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, Milano 1622, pp. 296 ss.; C. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi, I, Pistoia 1649, pp. 571 ss.; G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, II, Venezia 1731, pp. 383 ss.; A. Zeno, in G. Fontanini, Biblioteca dell'eloquenza ital., I, Venezia 1753, pp. 180 ss., 278 ss.; I. Affò, Mem. della vita di Donna Ippolita Gonzaga duchessa di Mondragone, Guastalla 1781, pp. 18 ss.; G. Tiraboschi, Storia della ietter. ital., VII, Venezia 1824, pp. 1223 ss.; Nel Quarto centenario di L. C., Sarteano 1907 (viene discussa la data fornita dal Salza in base all'iscrizione sepolcrale posta nella chiesa di S. Gervasio a Pavia sulla scorta di testimonianze epistolari: vedi Arch. stor. ital., XLI[1908] pp. 251 s.); G. Sassi, Figure e figuri dei Cinquecento, in Nuova Riv. stor., XII (1928), p. 585; G. G. Ferrero, Manoscritti e stampe delle lettere di P. Giovio, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXVIII (1951), p. 405; E. Carrara. La Poesia Pastorale, Milano s.d., ad Indicem;F. Fiamini, IlCinquecento, Milano s.d., ad Indicem.