DELLA TOSA, Lottieri
Figlio di Odaldo, nacque a Firenze intorno alla metà del sec. XIII. Membro di una potente casata guelfa, strettamente legata a quella consorteria dei Visdomini che aveva per tradizione il compito di amministrare e custodire il vescovado nei periodi di interregno episcopale, pur avendo intrapreso la carriera ecclesiastica non tardò a dimostrarsi attivamente impegnate e compromesso nelle lotte tra le fazioni cittadine.
Già durante la vacanza della sede fiorentina seguita alla morte del vescovo Giovanni Mangiadori e protrattasi dal 1273 al 1286 il D. tentò, senza successo, di farsi eleggere vescovo di quella Chiesa, ponendo la sua candidatura alla succesione. 1 Visdomini e i Della Tosa, durante gli anni di sede vacante, avevano visto infatti aumentare notevolmente le proprie entrate e consolidarsi la propria autorità. Erano pertanto intenzionati a conservare il controllo dei beni vescovili attraverso un presule che, essendo un esponente della loro consorteria, dava garanzie dì salvaguardarne gli interessi. A questa autorevole candidatura guelfa gli avversari opposero quella di Schiatta degli Ubaldini, canonico di Bologna e di Liegi, nonché fratello del vescovo di Bologna e dell'arcivescovo di Pisa. Il contrasto tra i fautori dell'uno e dell'altro candidato assunse immediatamente i toni accesi di un confronto politico, che trascendeva gli ambiti municipali, dal momento che se Schiatta fosse riuscito a divenire vescovo di Firenze, tre membri di una medesima famiglia feudale ghibellina avrebbero retto altrettante diocesi tra le più importanti dell'Italia centrosettentrionale. Poiché anche il capitolo fiorentino si divise in due fazioni, pari di forze, rendendo impossibile qualsiasi accordo, come spesso accadeva in simili circostanze, la Curia romana bocciò ambedue le candidature e nominò d'autorità alla cattedra di Firenze un ecclesiastico estraneo alle lotte e agli interessi locali, il domenicano Iacopo Rainucci di Perugia (28 maggio 1286).
Il D. riuscì a ottenere, quale compenso immediato, la nomina ad arcidiacono del capitolo fiorentino. Poco più di un anno dopo, nell'agosto del 1287, venne eletto vescovo di Faenza per l'aiuto e le pressioni esercitate da Maghinardo Pagani da Susinana "grande e savio tiranno" come scrive G. Villani (Cronica, VII, 149), di parte ghibellina ma strettamente legato alla Firenze guelfa per tradizione di famiglia e per aver sposato Rengarda, appartenente proprio alla famiglia Della Tosa.
Con l'elezione di un presule di sua fiducia a Faenza, Maghinardo da Susinana - che per il suo ambiguo atteggiamento politico venne definito da Dante "il leoncel dal nido bianco / che muta parte da la state al verno" (Inferno, XXVII, 50-51) -, intendeva rafforzare il proprio dominio sulla città che egli resse quasi ininterrottamente fino alla morte facendosi nominare podestà o capitano del Popolo. L'elezione del nuovo vescovo non avvenne né in Faenza, né in una località di quella diocesi, ma in un monastero della diocesi di Imola, poiché sulla città e sulla Chiesa di Faenza gravava in quel momento un interdetto.
Il 30 sett. 1287 il D. entrò solennemente in Faenza accompagnato da un gran numero di prelati e di nobili fiorentini. Tra i primi atti del suo episcopato faentino vi fu la scomunica lanciata per conto dell'arcivescovo di Ravenna contro i Forlivesi, rei di aver incarcerato alcuni abitanti del castello di Oriolo, situato nelle vicinanze di Forli ma sottoposto alla giurisdizione temporale della Chiesa ravennate. Pochi anni dopo si trovò coinvolto nella rivolta antipapale dei Comuni romagnoli, promossa principalmente dal ravennate Guido da Polenta e dallo stesso Maghinardo a partire dal 1290. Inoltre, dato che, a dispetto della scelta di vita, era per indole un violento, il D. si mise personalmente in urto con il pontefice Niccolò IV: quest'ultimo, infatti, proprio nel 1290 lo censurò per aver fatto incatenare mani e piedi e gettare in carcere il priore a lui non gradito di un ospedale di lebbrosi. Conclusasi nel maggio del 1294 la rivolta dei Comuni romagnoli, i quali deposero almeno per il momento le armi e stipularono un trattato di pace con il rettore. papale, su incarico di quest'ultimo il D. proclamò, un mese dopo, l'assoluzione generale dalle scomuniche e dagli interdetti che erano stati lanciati contro diverse città della Romagna nel corso della rivolta.
Durante il periodo del suo episcopato il D. favorì, d'accordo con Maghinardo, la nomina di propri familiari alla podesteria della città; dal settembre del 1293 al febbraio del 1294 a ricoprire tale incarico fu infatti chiamato Rossellino di Arrigo Della Tosa; dal settembre del 1294 all'agosto del 1295 Rosso, che era già, all'epoca, l'esponente più in vista della nobile casata guelfa. Il 1° giugno 1295 il D. presenziò, nella piazza del Comune a Faenza, alla stipula della pace che nelle intenzioni del suo promotore, il papa Bonifacio VIII, doveva finalmente porre fine alle lotte che opponevano da tempo Maghinardo, gli Acciarisi e gli Zambrasi da un lato, ai Manfredi, ai Rogati e ai conti di Cunio dall'altro. Non sappiamo se in quell'occasione il D. si sia limitato a svolgere il semplice ruolo di testimone o abbia anche avuto una parte attiva nella pacificazione delle fazioni cittadine; certo è che nel giro di tre mesi Maghinardo riuscì a cacciare di nuovo i suoi avversari.
L'opera pastorale del vescovo faentino non sembra invece aver registrato momenti degni di particolare rilievo, ad eccezione, forse, del permesso da lui concesso, nel novembre del 1298, alle suore frisie, così chiamate dal nome della fondatrice, di edificare una chiesa e un proprio convento. Nel 1299 il D. ricevette da Bonifacio VIII l'ordine di scomunicare i membri della famiglia Colonna. che da tempo si erano ribellati al pontefice ed avevano trovato l'estremo rifugio nel castello di Móntevecchio, nei pressi di Forlì, assediato e conquistato successivamente da Maghinardo, nell'ottobre di quell'anno. Nel febbraio del 1302, pochi mesi prima della morte del suo amico e protettore romagnolo, il D. lasciò Faenza per tornare a Firenze, della cui'Chiesa Bonifacio VIII lo aveva nominato vescovo, permettendogli in tal modo di coronare il suo antico desiderio. Dopo aver visitato il papa a Roma per riceverne istruzioni e dopo aver distribuito, come d'uso, costosi donativi per i quali dovette prendere in prestito dalla banca degli Spini 4.000 fiorini d'oro, il 24 febbraio fece il suo ingresso in Firenze, che fu ancor più solenne di quanto non fosse stata, quindici anni prima, la sua entrata a Faenza.
Ad attendere il nuovo vescovo alle porte della città erano schierati tutti gli Ordini monastici e il clero cittadino, insieme con i notabili della consorteria Visdomini-Della Tosa, "protettrice" della Chiesa di Firenze. Il nuovo vescovo avrebbe dovuto attraversare in corteo la città per raggiungere il convento di S. Pier Maggiore, dove, per tradizione, sarebbe stato simbolicamente consumato il matrimonio tra il presule e la Chiesa di Firenze. Tutto si svolse secondo la consuetudine, ma alla tradizione il D. volle aggiungere un tocco personale, che suscitò immediatamente strascichi polemici: invitò a banchettare con lui nel convento, dopo la cerimonia, oltre al seguito, anche i più ragguardevoli membri della sua consorteria e alcuni canonici dei duomo. Lusso e agiatezza caratterizzarono del resto lo stile di vita del D., come quello di molti alti prelati del tempo: egli poteva disporre, ad esempio, di una villa di sua proprietà sulle rive del Mugnone e di essa fece uso come comoda dimora estiva. Già durante il suo episcopato faentino si era indebitato - per esigenze personali e di rango - con famiglie di noti usurai e di banchieri come i Sassetti, i Franzesi e gli Spini, ai quali poi fu costretto a concedere l'appalto della riscossione delle decime in quei territori di cui era collettore in nome del papa.
Nei sette anni in cui fu vescovo di Firenze il D. si mise in luce non tanto per la sua attività religiosa e pastorale, quanto per Pimpegno politico. Vero è che fin dall'inizio intraprese il tentativo, di per sé degno di lode, di riacquisire il pieno dominio sulle proprietà terriere della Chiesa fiorentina, reclamando per la mensa vescovile anche la restituzione di quella parte dei beni di cui si erano abusivamente impossessate le famiglie partecipi del vìcedominato. Ma proprio per la tenacia e la costanza con cui condusse quest'azione, documentata da numerosissimi atti notarili dell'epoca nei quali si riaffermano le prerogative del vescovo sui propri "fideles", il D. entrò in conflitto con alcuni dei suoi stessi familiari e si trovò al centro delle discordie e dei disordini suscitati dall'allontanamento della parte bianca da Firenze e dai contrasti in un secondo tempo sorti all'interno della fazione dei neri.
Già da tempo i membri della famiglia Della Tosa si erano divisi tra la parte bianca - cui avevano aderito il valoroso Baschiera, Biligiardo e lo stesso nipote del vescovo, Baldo -, e la fazione capeggiata da Corso Donati, con la quale si erano schierati Rosso con il fratello Arrigo e il figlio di quest'ultimo, Rossellino. Dopo l'esilio comminato nell'aprile 1302 ai principali esponenti bianchi, cominciò a palesarsi in seno alla parte nera una divisione, cui non erano estranee motivazioni di carattere sociale e che vide contrapposti, da un lato, Corso Donati - che dopo il trionfo sui bianchi non si riteneva sufficientemente onorato per i suoi meriti -, e dall'altro Rosso Della Tosa, che, pur settantenne, rappresentava il vero personaggio emergente della fazione nera, tanto da essere sospettato di ambire al governo della città "a guisa de' signori di Lombardia", stando a quanto riferisce il Compagni (Cronica, 111, 2).
In questa situazione, che stava diventando sempre più incandescente, venne a inserirsi il D., il quale, in ordine alla sua politica di riaffermazione delle prerogative episcopali, nell'aprile del 1303, pretese da Rossellino di Arrigo Della Tosa - lo stesso di cui aveva favorito l'elezione a podestà di Faenza dieci anni prima - la restituzione dell'importante castello di Montegiovi, nella Val di Sieve. Molto probabilmente, nell'opporsi alle intimazioni del vescovo, Rossellino dovette chiedere l'aiuto dello zio Rosso, che in quel momento, godendo dell'appoggio del popolo grasso -cioè dell'unica parte della cittadinanza cui dal 1293, per effetto degli ordinamenti di giustizia, era consentito l'accesso al priorato -, poteva considerarsi come il personaggio più autorevole della città. Questo spinse inevitabilmente il D. a schierarsi apertamente, insieme con il nipote Baldo, dalla parte di Corso Donati, il quale, per contrastare Rosso e il popolo grasso, stava allora tentando un'alleanza con il popolo minuto ed era riuscito ad assicurarsi l'appoggio di oltre trenta grandi famiglie fiorentine e quello dei Della Tosa del ramo bianco. Il presule divenne in tal modo un importantissimo alleato per il partito di Corso, anche perché - stando a quanto afferma uno dei suoi più giovani parenti, il cronista Simone Della Tosa -, se avesse chiamato alle armi tutti i suoi "fedeli", avrebbe potuto mettere in campo una forza armata di 4.000 uomini. Molti armati dovette effettivamente far venire il D. a Firenze dagli sparsi fondi vescovili del contado, in vista del conflitto che stava per scoppiare. Le torri delle consorterie cittadine furono poste in assetto di guerra: in particolare venne fortificata la torre rotonda del palazzo vescovile, che fu munita, tra l'altro, anche di una manganella destinata a lanciare pietre contro le vicine case dei parenti nemici del vescovo.
Il 4 febbr. 1304 la rivalità tra le due fazioni, che ormai erano rispettivamente definite la "parte del vescovo" e la "parte del popolo", sfociò nello scontro aperto. Il D. fece attaccare la casa di Rosso. Per sei giorni, fino al 10 febbraio, tutte le botteghe e le officine rimasero chiuse, le strade sbarrate da catene e barricate, mentre le due fazioni si affrontavano con le armi in una serie di tafferugli senza che l'una riuscisse a prevalere sull'altra. Per far cessare la guerra civile il pontefice Benedetto XI inviò allora a Firenze Niccolò da Prato, cardinale vescovo di Ostia, a far da paciere.
All'inizio l'opera dei cardinale sembrò destinata al successo. Già poco dopo il suo arrivo a Firenze, avvenuto il 2 marzo, egli riuscì infatti a comporre il dissidio tra Rosso e il D., facendo valere su quest'ultimo anche l'autorità conferitagli dal pontefice. Tra l'aprile e il maggio, poi, altre paci furono stipulate tra i neri dissidenti e tra bianchi e neri. Tuttavia, nonostante questi positivi risultati, o forse proprio per essi, l'ala più intransigente della parte nera accusò Niccolò da Prato - che pur appartenendo a famiglia di tradizioni ghibelline, si era condotto come uomo imparziale - di parteggiare per i bianchi e per i ghibellini fuorusciti. Respingendo qualsiasi ipotesi di soluzione pacifica, il gruppo oltranzista fece fallire con l'intrigo e la violenza l'azione conciliatrice del cardinale, il quale, venuta meno ogni speranza di riportare la concordia nella città, abbandonò segretamente Firenze e scagliò su di essa l'interdetto: provvedimento che non venne ritirato nemmeno dopo la morte di Benedetto XI (7 luglio 1304) ed i deludenti risultati delle missioni inviate da Clemente V nel 1305 e nel 1306.
In una città bollata dall'interdetto e dominata da una ristretta élite in cui spiccavano Rosso Della Tosa e pochi altri magnati di parte nera il D. preferì evitare ogni ulteriore impegno politico per dedicarsi all'attività pastorale, a testimonianza della quale ci restano soltanto una costituzione riguardante il clero e il capitolo della cattedrale da lui promulgata nel 1305, e un decreto emanato nel 1308, con cui si dava licenza ai monaci silvestrini del convento di S. Marco, di accogliere come terziarie anche le donne.
Il D. morì nell'aprile del 1309, a Firenze, ed il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Maria Novella. Pronunziò l'orazione funebre fra' Remigio Girolami, che evitò di elogiare in modo particolare i meriti del defunto.
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