TORRENTINO, Lorenzo (Laurens van den Bleeck). – Nacque a Gemert, nel ducato di Brabante, nel 1499 da Lennart (Leonardo) e da Luytje (Lucia) Michiels. Bleek in fiammingo equivale a ‘sostanza sbiancante’, ‘candeggina’, la professione di famiglia doveva essere dunque di tintori: al momento di italianizzare il cognome Lorenzo avrebbe optato per un equivalente più nobile (Slits, 1995, p. 7)
La forma van der Beke, presente nella bibliografia, è errata retrotraduzione: beek è il ruscello o torrente.
Torrentino iniziò probabilmente la sua attività come libraio a Lione. Nel 1547 riscosse nella città francese metà della cifra pattuita con il rappresentante mediceo per l’installazione della tipografia ducale a Firenze. Nel 1560 fece imprimere a sue spese nella tipografia di Sebastiano Onorato, un fiorentino attivo da molti anni a Lione, i De somno et vigilia libri duo di Giovanni Argenterio, da lui stampati quattro anni prima a Firenze.
In Italia, dagli anni Trenta fu attivo a Bologna e il 14 giugno 1543 vi prese in moglie Nicolosia di Sebastiano de Amicis: dal matrimonio nacquero Virginia, Bartolomeo e Leonardo. Contatti con il tipografo ed editore basileese Giovanni Oporino sono documentati per gli anni 1539-46: tramite l’umanista e riformatore svizzero Joachim von Watt (Vadianus) Torrentino spediva a Oporino edizioni umanistiche italiane. Tali rapporti saranno stati verosimilmente propiziati dall’umanista brabantino Arnoldo Arlenio (Peraxylos) che, dopo avere studiato a Ferrara, dal 1537 soggiornò a Bologna. Egli mise al servizio del connazionale le sue competenze, stabilendo un sodalizio destinato a durare fino alla morte di Torrentino. La bottega libraria di quest’ultimo era situata nel centro della città presso la cappella di S. Andrea delle Scuole. Non ci sono prove che a Bologna egli abbia esercitato anche la tipografia, tuttavia doveva essere in possesso dell’arte a buon livello, se il mercante fiorentino Bartolomeo Gualterotti lo segnalò a Firenze come elemento al quale affidare la costituenda stamperia alle dirette dipendenze del potere ducale.
A Firenze dopo l’instaurazione del potere assoluto dei Medici ragioni molteplici, di natura culturale, economica e politica, spingevano a organizzare una impresa con questa caratteristica. La decisione di istituire una tipografia ufficiale fu però legata al progetto ideato da Lelio Torelli, auditore e primo segretario di Cosimo, di pubblicare il codice delle celebri Pandette fiorentine, il pezzo più prestigioso ospitato dalla biblioteca medicea, sul quale a partire da Poliziano avevano lavorato due generazioni di filologi e giuristi. L’edizione aveva un significato politico: sotto il governo del nuovo principe a Firenze regnava la giustizia e nel suo spirito venivano stabilite le leggi nell’interesse generale dello Stato dopo la fine delle lotte intestine. Come si ricava dalla prefazione dell’opera, uscita tra il 1550 e il 1553, il progetto era stato avviato nel 1543. Per l’impresa erano stati consultati i Giunti, gli unici a Firenze in grado di garantire un supporto tecnico adeguato, ma Bernardo Giunti si era tirato indietro forse spaventato dalla mole del lavoro. Inoltre, il loro legame con l’epoca repubblicana li rendeva inadatti a ricoprire l’incarico di tipografi ducali. Senza esito rimase anche la candidatura che Francesco Priscianese, pure lui con trascorsi repubblicani, avanzò il 6 maggio 1543 in una lettera da Roma a Pietro Vettori. Chiari pure i motivi dell’esclusione di Anton Francesco Doni, che nel 1546-47 soggiornò a Firenze e nel febbraio del 1546 fu eletto consolo dell’Accademia Fiorentina. Nella sua officina stampò diverse opere di accademici e sembrò perciò proporsi come il personaggio più autorizzato a ricevere da Cosimo un privilegio per la stampa, ma il carattere incostante e bizzarro lo portò a guastarsi con i letterati fiorentini e se ne tornò a Venezia, dopo avere venduto parte dell’attrezzatura a Torrentino.
Il fiammingo sarà parso alla fine la persona più adatta, in quanto al possesso di capacità tecniche univa il requisito di presentarsi come un uomo nuovo, secondo un indirizzo di accoglienza di artisti e tecnici forestieri che rimase una costante della politica culturale della dinastia medicea. Delle trattative si incaricò Torelli. L’8 gennaio 1547 era già stata concordata una bozza del contratto e Torrentino, persuaso dalle condizioni favorevoli che gli erano state prospettate, aveva rifiutato un socio trovato da Gualterotti disposto a partecipare alla società con un capitale di 1000 scudi. Nel contratto, stipulato il 4 aprile 1547, si impegnò ad allestire entro otto mesi a far data dal 3 gennaio precedente la tipografia dotata di due torchi serviti da nove serie di lettere (sei latine e tre greche). A lui spettava il reclutamento delle maestranze, ma per il loro salario e la pigione dei locali dell’officina (di proprietà della famiglia Rinuccini) fu assegnato dal duca uno stipendio di 100 scudi annui per i dodici anni previsti dal contratto. Una rata di 500 scudi per le spese di allestimento era stata versata, metà a Lione metà a Bologna, in gennaio, garantita dai libri di proprietà di Torrentino, per un valore di 700 scudi, già trasportati a Firenze. Le edizioni dovevano avere l’autorizzazione preventiva del duca, cui spettava per diritto di stampa una copia rilegata. Una serie di misure protezionistiche metteva il tipografo in una condizione di netto vantaggio rispetto agli altri stampatori sulla piazza. Oltre all’esclusiva dodecennale sulla stampa, fu assicurato a Torrentino il monopolio dell’importazione di libri dalla Francia e dalla Germania, a eccezione delle opere giuridiche, e fu concessa l’esenzione parziale del dazio sulle balle di carta introdotte a Firenze. Quest’ultimo punto comportava tuttavia una clausola gravosa, cui sono probabilmente da imputare le precoci difficoltà finanziarie che l’azienda si sarebbe trovata ad affrontare: l’esenzione era infatti stabilita nel numero fisso di 130 balle l’anno con la condizione che se ne fossero state importate di meno il tipografo avrebbe comunque dovuto pagare al fisco la somma pattuita. Cosimo prometteva inoltre di far ottenere privilegi presso gli Stati amici e confederati, come in effetti avvenne per le edizioni più importanti. La tipografia, con annessa bottega per la vendita dei libri, magazzino e fonderia per i caratteri, fu installata nella via del Garbo, parrocchia di S. Apollinare, presso la chiesetta di S. Romolo sotto la cui protezione fu probabilmente posta l’impresa.
Entro il 1547 fu stampato il Libellus quomodo quis ingrati crimen et nomen possit effugere di Lilio Gregorio Giraldi, senza sottoscrizione (attribuito da Moreni, 1819, pp. 1 s.). L’attività della tipografia, per la quale lavorò come volgarizzatore e correttore anche Lodovico Domenichi, che aveva già collaborato con Doni, conobbe subito un’espansione eccezionale con edizioni numerose e di ottimo livello. Tuttavia l’impresa si rivelò da subito poco redditizia: già nel 1549 Torrentino per fronteggiare le spese dovette contrarre due prestiti cospicui con la Magona del ferro (cioè la società delle ferriere) garantiti da due mercanti, Bartolomeo Panciatichi e Luigi Francesco Pieri, rispettivamente per circa 2000 e 1000 scudi. Torrentino riuscì a estinguere soltanto uno dei due debiti e alla sua morte Raffaello Nasi, subentrato nel credito a Panciatichi, dovette essere soddisfatto con parte degli strumenti della tipografia. Nonostante i nuovi investimenti, dopo il 1553 la produzione subì una netta flessione. Torrentino pensò allora di aprire una succursale a Pescia, dove contava sull’appoggio di alcuni personaggi influenti (i fratelli Pompeo e Simone Della Barba, il canonico Turino Turini) e riteneva di poter operare più vantaggiosamente sottraendosi agli obblighi contrattuali vigenti per l’officina fiorentina. Resta in dubbio se le tre stampe del 1554-1555 che riportano l’indicazione di Pescia furono effettivamente impresse tutte qui (l’Heptaplo di Giovanni Pico, nella traduzione di Antonio Buonagrazia, ha due emissioni, una con indicazione «stampato in Fiorenza»). A seguire l’attività della nuova officina fu mandato Domenichi, il quale alloggiò nell’edificio delle cartiere per cui andava famosa la cittadina. Proprio la possibilità di avere materia prima di qualità a prezzi inferiori avrà determinato la scelta di Pescia come sede di una nuova stamperia: di «carestia di carta» parla Paolo Giovio in una lettera del giugno-luglio 1550 a proposito della stampa della Prima parte dell’Historie (1551), in cui Torrentino aveva ridotto margini e interlinei per guadagnare spazio.
L’atteggiamento del duca si era nel frattempo alquanto raffreddato anche, sembra, per il comportamento reprensibile del tipografo. Nel febbraio del 1552 Torrentino uscì indenne dallo scandalo in cui era stato coinvolto Domenichi per la pubblicazione della versione italiana dei Nicomediana di Giovanni Calvino eseguita due anni prima con la falsa indicazione di Basilea. Domenichi, denunciato da un delatore, fu costretto a sconfessare il contenuto del libro e fu condannato al carcere perpetuo nella fortezza nuova a Pisa. Grazie all’intercessione di Renata di Francia, in maggio fu trasferito alle Stinche di Firenze e in agosto la pena fu commutata nel domicilio coatto di un anno nel convento di S. Maria Novella, da dove gli fu consentito di uscire quotidianamente per recarsi a correggere la volgarizzazione delle Historie di Giovio in corso di stampa. Il 28 dicembre 1556 Torrentino fu sorpreso nottetempo in compagnia di un tale Martino de Ruidi, stampatore francese alle sue dipendenze, armato di coltello senza la bolletta per il porto d’armi prevista dal contratto e condannato a una multa e a tre tratti di fune poi graziati.
Morta la prima moglie, il 19 settembre 1558 Torrentino si risposò con la vedova Lucrezia Albertinelli, da cui ebbe Romolo e Bonaventura. Allo scadere del contratto nel 1559 chiese che gli fosse rinnovato il privilegio ducale e che gli fosse affidato nuovamente l’incarico di stampare le polizze del Monte della farina, che aveva tenuto per sette anni. Autorizzazione questa particolarmente redditizia in quanto le stampe di polizze, avvisi, gabelle avevano costi bassissimi per la qualità scadente della carta e trovavano uno smercio sicuro. La pratica segreta che decise in merito alle richieste avanzate da Torrentino abolì tutti i privilegi previsti dal contratto del 1547, compresa l’esclusiva nell’importazione di libri francesi e tedeschi, e non rinnovò il diritto di stampa delle polizze (l’auditore delle Riformagioni, cui era destinata la supplica, definì Torrentino «uomo spensierato e dedito ai piaceri», cfr. Maracchi Biagiarelli, 1965, p. 311). Il rescritto del principe confermò queste decisioni; a Torrentino venne tuttavia pagata la pigione della casa dove abitava e della bottega per altri cinque anni, affinché potesse garantire il sostentamento della famiglia.
In queste ristrettezze egli tentò nuovamente di reagire allargando la sua attività. Nel maggio del 1562 si trovava per sua iniziativa (l’autorizzazione di Cosimo I arrivò a cose fatte il 18 agosto) a Mondovì, incaricato di installare una tipografia nella città dove Emanuele Filiberto di Savoia aveva istituito l’Università. Non disponendo Torrentino di capitali, fu creata una Compagnia della stampa alla quale contribuirono finanziariamente in quote diverse Emanuele Filiberto, professori dello Studio, il governatore di Mondovì e altri soggetti. A Torrentino fu affidata la parte organizzativa, dopo i tre anni previsti dal contratto avrebbe partecipato agli utili. Il soggiorno piemontese fu breve: Torrentino lasciò a Giovanni Argenterio, professore dello Studio, la procura per la stipula degli atti e in dicembre era di nuovo a Firenze.
Morì a Firenze il 12 febbraio 1563.
La tipografia monregalese stampò dal 1564 al 1566 con il nome del figlio di Torrentino Leonardo, che ne aveva assunto la direzione, e dopo la sua morte con la sottoscrizione «Officina Torrentiniana» o «Stamperia delli Torrentini» fino al 1571. Ma l’impresa si rivelò fallimentare per i Torrentino, che non furono in grado di restituire l’anticipo ricevuto dal padre. Allo scioglimento della compagnia Arlenio, che si era assunto l’incarico di procuratore, in considerazione dello stato di indigenza in cui essi versavano, ottenne dal duca di Savoia il riconoscimento dei loro crediti.
Alla morte di Lorenzo i figli Leonardo, Romolo e Bonaventura (dal 1566 solo Romolo e Bonaventura) rilevarono l’azienda fiorentina e il 16 febbraio richiesero che fosse mantenuta la concessione fatta al padre nel 1559 e cioè l’usufrutto dell’abitazione e della bottega del Garbo. Il sussidio fu concesso e i Torrentino rimasero in attività, affiancandosi tipografi più esperti o lavorando su commissione. Parte dell’attrezzatura fu rilevata da Giorgio Marescotti, mentre i Giunti si assicurarono la libreria con l’intenzione di smerciare i libri dopo aver cambiato frontespizi e colophon. Secondo Edit16, dal 1563 al 1570 impressero da soli una ottantina di edizioni (alcune a istanza di Marescotti e dei Giunti) e inoltre associandosi con altri stampatori: nel 1564 con Bernardo Fabroni (cinque edizioni), nel 1565 con anonimi (cinque edizioni), dal 1565 al 1570 con il tipografo bolognese Carlo Pettinari (44 edizioni eseguite a Firenze). Il loro catalogo è ovviamente eterogeneo ma interessante: vi troviamo autori stampati dal padre o gravitanti intorno all’Accademia Fiorentina (Domenichi, Lionardo Salviati, Giovan Battista Cini, Orazio Lombardelli, Girolamo Razzi, Francesco D’Ambra), opere devozionali, ben cinque edizioni degli Statuti dell’Ordine di S. Stefano, ma anche diciotto libri di Variae lectiones di Pietro Vettori (1568; i primi venticinque presso L. Torrentino, 1553), la Topica di Aristotele con il commento di Alessandro d’Afrodisia (1569) e anche le Pjesni razlike (Poesie varie) del dalmata Domenico Ragnina in illirico (1563).
Il catalogo delle edizioni di Lorenzo Torrentino compilato da Domenico Moreni (1819) ammonta a oltre 260 titoli, elevati a 285 da Edit16, sebbene l’attribuzione, in assenza di indicazioni tipografiche complete, risulti talora problematica. La distribuzione dei titoli negli anni non è omogenea. Nel catalogo torrentiniano, che con il suo carattere composito rappresenta uno spaccato della cultura fiorentina del tempo, troviamo rappresentati più o meno tutti i generi letterari: in ordine decrescente, letteratura, storiografia, religione, filosofia, diritto, medicina, biografia e arti, per un rapporto tra volgare e latino a favore del primo di quasi il doppio. Spiccano per eleganza formale e importanza filologica le belle edizioni in folio prodotte nei primi anni attingendo ai tesori della biblioteca medicea. Oltre alle Pandette, pubblicate in quattro volumi in folio tra il 1550 e il 1553 dopo un lavoro decennale di preparazione cui avevano atteso Lelio e Francesco Torelli e per il testo greco Pietro Vettori, del 1550 sono l’edizione dell’Opera omnia greca di Clemente Alessandrino allestita da Vettori, dell’Architettura di Leon Battista Alberti nella traduzione di Cosimo Bartoli e delle Vite di Giorgio Vasari. Cospicua la sezione dei testi scientifici forniti dai professori dello Studio pisano, come il medico Giovanni Argenterio e l’aristotelico Simone Porzio o il filologo Francesco Robortello. Particolarmente folto il cartello dei volgarizzamenti, di classici così come di contemporanei: si segnalano quelli della Retorica e Poetica (1549), dell’Etica (1550), del Trattato de’ governi (cioè la Politica, 1550) di Aristotele eseguiti da Bernardo Segni; le ben tre versioni del De consolatione philosophiae di Boezio composte a gara da Domenichi, Benedetto Varchi e Bartoli (1550-1551); quella di Pausania a opera di Romolo Amaseo (1551); della Vita di Apollonio Tianeo di Filostrato per Francesco Baldelli (1549); di Eustazio (1550) ed Eliano (1552) a opera di Lelio Carani e ancora Cicerone, Polibio, Sallustio, Seneca. Tra gli autori contemporanei andranno segnalate almeno le due edizioni delle Prose di Pietro Bembo (1548 e 1559), la Historia di Italia di Francesco Guicciardini curata dal nipote Angelo (un’edizione in folio e una in ottavo nel 1561), gli Hieroglyphica di Valeriano (1556). Largo spazio ebbe Giovio, di cui furono stampate le principes delle Vitae (1549), degli Elogia (1551) e delle Historie (1550-1552), tutte disponibili anche nelle traduzioni di Domenichi. Rilevante la presenza di autori della Riforma cattolica resa possibile dal clima di tolleranza in materia di religione garantito da Cosimo I fino al 1552: Gasparo Contarini (Istruzione cristiana, 1553; De sacramentis Christianae legis, 1553; Quattro lettere, 1558; De potestate pontificis, 1558), Erasmo da Rotterdam (Il paragone della vergine e del martire, traduzione di L. Domenichi, 1554; Sermone della grandissima misericordia di Dio, traduzione di G. Alati, 1554), Marco Antonio Flaminio (Paraphrasis in triginta Psalmos, 1549), Calisto Furnerio (Cento soliloqui del Verbo d’Iddio, 1550). Francisco Torres con il De residentia pastorum (1552) si attirò accuse di eresia da cui dovette difendersi in un Antapologeticus uscito lo stesso anno. Notevole anche la presenza di testi chiave della tradizione ermetico-cabbalistica rinascimentale come il già citato Heptaplo di Pico, la Strega del nipote Giovan Francesco (Pescia 1555) e l’Idea del teatro di Giovanni Camillo Delminio di cui fu impressa la prima edizione nel 1550. Tali opere sono bilanciate da un buon numero di scritti devozionali e di apologetica cattolica che si infittiscono nel secondo periodo di attività (Dichiaratione della S. M. Cesarea in che modo s’habbia da vivere per l’imperio nel negotio della religione sino alla definitione del Concilio, 1548; Concordantia ecclesiastica contra tutti gli heretici, 1552; S. Porzio, Del modo di orare cristianamente, 1551).
Per marca Torrentino usò costantemente lo stemma mediceo, corredato dalla corona ducale e da altri simboli araldici allusivi a Cosimo I, e talvolta inserito in un frontespizio architettonico. Il bel frontespizio monumentale ricorrente nelle edizioni in folio, disegnato da Vasari, fu concepito per l’edizione dell’Architettura di Alberti nel 1550 (cfr. Vasari, 1986, tav. I). Per l’edizione delle sue Vite Vasari ne elaborò una variante più semplice usata nei formati in quarto, di grande eleganza, con una vedutina di Firenze (ibid., p. LXVI). Ritratti sono presenti nell’Architettura di Alberti, nel Guicciardini del 1560 e nelle Lezioni di Pierfrancesco Giambullari (1551); quello di Giovan Battista Gelli nella Circe (1562), nei Capricci e nella Sporta (1548) fu rilevato da Doni che lo aveva adoperato nella sua edizione dei Capricci (1546). Per quanto riguarda le iniziali figurate, Godefridus Hoogewerf (1926) distingue nelle Vite di Vasari una serie con scene delle Metamorfosi di Ovidio tagliata nelle Fiandre, a cui Torrentino unì iniziali con volute vegetali di tipo italiano, forse fiorentine, provenienti da due alfabeti diversi entrambi probabilmente incompleti. I sei alfabeti con cui Torrentino iniziò la sua attività aumentarono in maniera consistente: nel 1559, quando il tipografo richiese il rinnovo del privilegio, nella supplica egli parla di quattordici serie di lettere tutte differenti tra loro, sebbene nell’inventario dei beni stilato il giorno dopo la morte ne risultino meno. Lettere ebraiche furono usate nel De Etruriae regionis [...] originibus, institutis, religione et moribus (1551) di Guillaume Postel. Dal punzonista francese Guillaume Le Bé, che dopo aver lavorato nell’officina di Robert Estienne nel 1545 si era trasferito a Venezia, Torrentino comperò nel 1547 una serie del cosiddetto Gros Canon romano che passò ai Marescotti. Nel 1548 usò per primo in Italia i corsivi 98b e 118a dell’incisore francese Robert Granjon e fu il primo in Europa ad adoperare il corsivo 80, a cui abbinò le maiuscole del corsivo 64 sempre di Granjon, detto anche Petit Romain. Per il greco adoperò i caratteri impiegati a Roma per la stampa del primo volume del Commento di Eustazio di Tessalonica ai poemi omerici impresso nel 1542 da Antonio Blado su incarico del cardinale Marcello Cervini. Ma del marzo 1551 è un contratto (Perini, 1981, p. 795 nota 28) tra Lelio Torelli e un Giovanni di Piero Vergezio da Candia per la fornitura di 1000 punzoni e altrettante matrici di lettere greche destinate alla stamperia ducale.
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