TIZZANO, Lorenzo (Benedetto Florio). – Nacque verosimilmente a Napoli, intorno al 1513: nel 1553 era definito «di età d’anni 40 in circa, con barba tonna e mista, pieno di volto, di statura mediocre, li occhi bianchi, naso piccolo et stretto» (Berti, 1877-1878, p. 79)
Nulla si sa della sua famiglia, salvo che avesse un fratello di nome Pietro Antonio.
Altrettanto oscuri sono i primi anni di vita, su cui è noto solo che a un certo punto prese gli ordini entrando nel monastero benedettino di Monte Oliveto, a Napoli, dove risiedette «circa anni sei» (ibid., p. 68). In seguito, nei primi anni Trenta, Tizzano ebbe una crisi di rigetto della vita monacale, come raccontò egli stesso, «non volendo [...] stare in dicta religione: sì perché non poteva comportare quella vita, sì perché non me ce era fatto di mia propria voluntà ma per satisfare a mia madre». Era entrato in monastero solo per compiacere la volontà materna sicché, morta la genitrice, si sentì finalmente libero di scegliere: «Poi che morse io non volsi starvi più, et procurai havere una bulla da la Penetentiaria» (ibid.). Così, ottenuta la dispensa dopo un complicato iter burocratico, don Lorenzo poté «vivere liberamente come preite seculare, administrar sacramenti et tenere beneficii» (pp. 68 s.).
Passò allora a esercitare, per circa un triennio, l’ufficio di sacerdote in tre chiese napoletane, per poi divenire cappellano nel monastero di S. Francesco delle Monache, ove restò «quattro anni incirca» (p. 69). Finché non ricevette la proposta di Caterina Sanseverino, sorella del principe di Bisignano Pietrantonio, di «andare ad servirla per cappellano». Accettata l’offerta, Tizzano stette presso la nobildonna «anni nove in circa». Dopodiché, «essendo mal sano [...] maxime de una gamba [...], et non possendo più servire» (ibid.), le domandò licenza tornando a vivere nella casa paterna, ove restò per un paio d’anni.
A quanto pare, fu nel periodo trascorso a servizio di donna Caterina che incontrò Juan de Valdés, attorno al quale si era raccolto un nutrito gruppo di discepole e discepoli entusiasti per il suo spiritualismo. Come ricorderà Tizzano stesso, «credo diece anni dapoi che io fui partito dal monasterio [di Monte Oliveto], essendo in Napoli uno Spagnolo ditto il signor Valdés, il quale facea professione, secondo lui dicea, di christiano, et vedendo io che la signora donna Julia di Gonzaga, il signor Mario Galeota, messer Antonio Imperato et altri ne faceano grande stima et diceano che era tanto grande homo et componea molte cose belle, mi venne in animo di parlarli» (ibid.).
Il riferimento a Giulia Gonzaga induce a pensare che proprio lei facesse da tramite con l’esule spagnolo. La nobildonna, infatti, dal 1535 visse nel convento di S. Francesco del quale fu cappellano don Lorenzo, e di Valdés donna Giulia era l’allieva prediletta. Pertanto, benché l’incontro di Tizzano con l’eresiarca spagnolo pare risalisse agli anni in cui risiedeva presso donna Caterina, verosimilmente furono le relazioni intessute in S. Francesco a portarlo al suo cospetto. Infatti, Tizzano confesserà di aver parlato delle opinioni di Valdés con Giulia Gonzaga proprio «in San Francesco in Napoli» (p. 73), dove pure ne parlò con la sua «creata» Lucrezia Poggiola (ibid.), «con una suor Jacoma, la quale fu un tempo abbadessa del detto monastero, et con una suor Aurelia del medesimo monastero [...] molte volte» (p. 75). Ancora: con «suor Catherina del detto monasterio» aveva discusso «molte volte», anche di temi radicali (p. 73). Trattati «più volte» anche «con una suor Bernardina, monaca del sopranominato monasterio di San Francesco di Napoli» (p. 75). Senza dimenticare il governatore di S. Francesco, don Pedro de Castilla, anch’egli poi denunciato da Tizzano. «Et parlava con loro – preciserà – come con persone che fossero della medesima religione et dottrina che era io» (p. 73). Difatti, a parte donna Giulia, varie di quelle idee pure suor Bernardina le «haveva già intese dal Valdesio, et ne era assai bene instrutta» (p. 75). In ogni caso, dopo il primo incontro Tizzano fu affascinato da Valdés tornandolo a trovare, secondo la sua ricostruzione: «Li parlai non so che volte et lo trovava molto gentile, benché con me non se allargasse molto, et così lo pregai me volesse far legere alcune delle cose sue, et così me disse che lo faria, poi io vedendo che teneva molta reputatione non ce andai più» (p. 69).
Seppure dopo alcuni incontri non lo vedesse più, in realtà da allora Tizzano s’avviò su un percorso che l’avrebbe portato al distacco dal cristianesimo e da ogni religione istituita. Lo stesso Valdés ne affidò la conversione a uno dei suoi più intimi discepoli, Juan de Villafranca, «un altro spagnolo suo più amico di me [... che] mi prestò poi molti delli scritti soi, da donde io più largamente intesi le sue opinioni, perché da sua bocca solum intesi non so che de primatu pontificis, et sempre dicendo che bisogna star sopra di noi perché questa Chiesa romana ci ha ingannato» (p. 69). Accanto alla lettura degli scritti di Valdés, Villafranca gliene «predicava» le idee oralmente (p. 71); e sia lui sia «altri complici» gli passavano «altri libri lutherani», sicché Tizzano giunse a condividere quelle che definirà «lutherane opinioni» (p. 69), ma nella piena consapevolezza delle divergenze con la dottrina luterana. Se con questa consentivano l’incredulità nella potestà papale, nella confessione, nel purgatorio, nei digiuni, nelle preghiere ai santi e alla Madonna, differenze affioravano sul libero arbitrio e la predestinazione, nel solco del magistero valdesiano.
«Circa dui anni dopo» (p. 71), comunque, Tizzano intraprese un percorso radicale, e pur legando al calabrese Girolamo Busale («lo primo che mi parlò di queste opinioni fu l’abbate Busale», p. 70) tale svolta, preciserà essere avvenuta «al tempo di Villafranca spagnolo» (ibid.), dato che Villafranca dei valdesiani radicali (Busale incluso) era stato il caposcuola. A contatto con il vulcanico abate calabrese, Tizzano comprese quali conseguenze potessero trarsi dalle idee apprese fino a quel momento. Dopo un primo approccio ancora luteraneggiante nel rimarcare l’«idolatria» del sacramento della messa (ibid.), si vide demolire il sacramento dell’eucaristia, con la negazione della presenza in essa del corpo di Gesù e la degradazione a mero atto simbolico in ricordo dell’ultima cena. A quel punto avvenne il salto al radicalismo vero e proprio, poiché Busale lo portò a negare la trinità, la divinità di Gesù («nato di Maria et di Joseph come nascono li altri homini, interveniente il coito», ibid.), la verginità della Madonna e l’esistenza dell’inferno, nonché a dubitare dei passi dei Vangeli che sembravano affermare la divinità di Cristo. Erano queste le idee diffuse da Villafranca e che lo stesso Tizzano passò a sua volta a propagare.
Fra il 1544 e il 1545, però, al gruppo dei valdesiani radicali s’affiancò l’ex cappuccino calabrese Francesco Renato, che innestò sul tronco valdesiano il frutto delle sue concezioni, accolte da vari allievi di Villafranca, mentre questi spirava nel 1545. Se alla sua scuola avevano appreso che Cristo non era Dio ma un uomo, Renato li persuase che non era neanche il messia con evidente concessione alla tradizione ebraica; ma declinata in chiave millenaristica e intrecciata all’islamismo nel riconoscere a Gesù un ruolo preminente da profeta. Inoltre, mentre Villafranca induceva a credere che solo alcuni passi dei Vangeli fossero falsificati, Renato, e con lui Busale, Tizzano e altri, bollarono l’intero Nuovo Testamento come totalmente falso.
Erano queste le idee che nei propri costituti Tizzano definirà «diaboliche» (p. 70), termine forse suggeritogli da un inquisitore. Apparentemente una fuoriuscita dal percorso valdesiano e così più volte è stata interpretata; ma in realtà non era che uno dei possibili sbocchi di quello spiritualismo fondato sul dubbio critico e su un’eccezionale libertà soggettiva, che portò altri valdesiani come Giulio Basalù, Valentino Gentile e Scipione Capece su lidi ancor più estremi, deisti o panteisti.
A ogni modo, fra il 1546 e il 1547 Busale, Renato e altri radicali lasciarono Napoli, probabilmente in fuga dall’incipiente repressione inquisitoriale. Tizzano, invece, a quanto pare in un primo momento non partì; ma al massimo nel 1550 raggiunse a Padova i compagni, trovando con Busale suo fratello Bruno e il cavese Giovanni Laureto (ma non Renato, arrestato nel frattempo), che si erano uniti alla setta degli anabattisti ampiamente diffusa nel Nord-Est della penisola. L’incontro fra due tradizioni molto diverse di radicalismo, in confronti nei quali «ogniun diceva quel che li pareva», portò ad animate discussioni e a veri e propri scontri, dipanatisi nel 1550 fra Padova, Vicenza (i cosiddetti collegia Vicentina) e Ferrara (Addante, 2010, pp. 10 s., 95-108). Guidati dal misterioso Tiziano (con cui Tizzano è stato spesso confuso malamente), diversi anabattisti resistevano di fronte alle idee dei valdesiani, che accettarono l’atto fondamentale del credo anabattista facendosi ribattezzare ma proposero, a loro volta, i cardini dell’insegnamento di Juan de Villafranca, spingendoli a dubitare della divinità di Gesù, della verginità della Madonna, dell’inferno e di quei luoghi dei Vangeli che parevano attestare che Cristo fosse Dio. Tali opinioni cozzavano con alcune delle tradizionali istanze anabattiste e in particolare con il loro rigoroso biblicismo, messo a dura prova da chi sollevava il problema della falsificazione delle Sacre Scritture. Vari di essi, però, aderirono alle idee portate avanti soprattutto da Busale e si creò una spaccatura fra quanti lo seguirono e quanti restarono fermi alle dottrine di Tiziano.
Per uscire da un’insolubile divaricazione, fu deciso di convocare un concilio a Venezia, tenuto nel settembre del 1550 e nel quale prevalsero ampiamente le idee di Busale, che portò il più numeroso gruppo radicale italiano sulle posizioni di Juan de Villafranca. Solo in un secondo momento i napoletani iniziarono a mettere in circolazione le idee apprese da Renato, e in ciò fu particolarmente attivo Tizzano, che a Padova aveva assunto il falso nome di Benedetto Florio e s’era iscritto all’Università per studiare medicina. Tuttavia, nel febbraio del 1551 fu arrestato uno dei principali leader degli anabattisti, l’asolano Benedetto Dal Borgo, decapitato e arso sul rogo il mese successivo. Dal Borgo non rivelò alcunché, ma non altrettanto fece il compagno (e compaesano) Francesco Sartori, che fornì agli inquisitori dei primi elementi sulla setta anabattistica ormai orientata sulle posizioni di Busale. Quest’ultimo, eletto dopo il concilio di Venezia vescovo degli anabattisti di Padova, di fronte ai primi arresti si diede alla fuga raggiungendo Napoli con Laureto, per poi esulare in terra ottomana, mentre Florio/Tizzano restava a Padova con suo fratello Bruno. In ottobre, però, l’anabattista marchigiano Pietro Manelfi si presentò all’Inquisizione di Bologna denunciando i propri compagni e fornendo un elenco ampio e dettagliato di nomi, fra i quali quelli dei Busale, di Laureto e di Tizzano. Partì così in dicembre un’autentica retata nella quale furono catturati una ventina di anabattisti, mentre vari altri andarono poi costituendosi a mano a mano e altri ancora si salvarono con l’esilio Oltralpe o nei domini dell’Impero ottomano. Tra i primi arrestati ci fu Bruno Busale con il quale Tizzano conviveva, con «due altri scholari napoletani», «alli heremitani in Padova»; Tizzano, invece, risultò contumace (Addante, 2010, pp. 111, 151, 189).
Egli, infatti, s’era dato alla fuga per tempo con Laureto, nel frattempo rientrato a Padova. I due si spostarono a Venezia per passare poi a Ferrara. Dopodiché si divisero e Tizzano andò a Genova, intenzionato a imbarcarsi alla volta del Regno di Napoli. Sfumato il tentativo dovette tornare a Padova, dove visse imboscato per qualche tempo mentre il suo nome emergeva da altre testimonianze, sia del mondo anabattistico sia di quello valdesiano, negli stessi anni decimato dalle inchieste inquisitoriali. A quel punto decise di pentirsi, presentandosi all’inquisitore di Padova nell’autunno del 1553 e poi all’Inquisizione di Venezia.
Sebbene ci tenesse a sottolineare di essersi presentato spontaneamente, il 6 ottobre 1553 l’Inquisizione romana aveva spiccato un ordine d’arresto nei suoi confronti (p. 151), che seguiva quello veneziano pendente dal 1551. A ogni modo, egli fu prodigo di informazioni, fornendo un ampio spaccato di idee, nomi e circostanze sul mondo valdesiano (mentre fu molto reticente su quello anabattista), chiarendo vari aspetti decisivi agli inquisitori. Così poté cavarsela (come altri suoi compagni), ritornando successivamente a Napoli. In seguito, in più di un’occasione l’Inquisizione si avvalse dei suoi servigi come informatore.
Sono ignoti sia la data sia il luogo della morte.
Fonti e Bibl.: D. Berti, Di Giovanni Valdés e di taluni suoi discepoli secondo nuovi documenti tolti dall’Archivio veneto (1877), in Atti della R. Accademia dei Lincei, Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 3, CCLXXV (1877-1878), 2, pp. 61-81 (qui i costituti di Tizzano, che sono in Archivio di Stato di Venezia, Sant’Uffizio, Processi, b. 11, f. IV, cc. n.n.); E. Pommier, L’itinéraire religieux d’un moine vagabond italien, in Mélanges d’archèologie et d’histoire, LXVI (1954), pp. 293-322; C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze-Chicago 1970, pp. 18, 33, 47, 68 s.; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari 2010, ad ind.; S. Peyronel Rambaldi, Una gentildonna irrequieta. Giulia Gonzaga fra reti familiari e relazioni eterodosse, Roma 2012, pp. 138, 154, 260, 278, 289; M. Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2016, ad indicem.