PANCIATICHI, Lorenzo
PANCIATICHI, Lorenzo. – Nacque a Firenze, l’11 febbraio 1635, da Niccolò di Lorenzo e da Ginevra Soldani, figlia del senatore Iacopo. Dal matrimonio nacquero altri sette figli.
Fin da giovane dimostrò un ingegno vivace, arguto e ben disposto agli studi. Se ne accorse per primo Antonio Mucini, prete e maestro dalle rinomate qualità didattiche, che ebbe tra i suoi allievi anche Leopoldo de’ Medici e Cosimo III. Sotto la sua guida Panciatichi si formò nello studio della grammatica e delle umane lettere e il suo valore non tardò a manifestarsi. Già prima dei 13 anni compose e recitò un’orazione in lode di s. Lorenzo, riscuotendo l’approvazione del maestro.
Poco dopo Panciatichi, che pure era il primogenito maschio, entrò in religione per ragioni economiche, legate al censo della famiglia allora non particolarmente elevato, e per volere della madre, donna di severi costumi, che, dopo essere rimasta vedova, educò i figli con devozione e pietà religiosa. Per lei, morta nel 1655, Panciatichi dettò l’iscrizione funebre posta nella chiesa dell’ospedale dei Ss. Ambrogio e Donnino a Quarrata.
A 16 anni, presi i voti, decise di dedicarsi allo studio delle leggi e si trasferì a Roma, dove conseguì la laurea in entrambi i diritti e si dedicò all’apprendimento della lingua greca e alle scienze antiquarie. Tornato a Firenze all’inizio degli anni Cinquanta, entrò nelle Accademie Fiorentina e degli Apatisti, frequentò il circolo dei Cuculiani e fu in buoni rapporti con i Mammagnuccoli, così come con i Piattelli e i Piacevoli; strinse amicizia con Alessandro Segni, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti, Orazio Rucellai e altri intellettuali del tempo. Divenne amico di Antonio Magliabechi, con cui si stabilì un legame fondato sull’amore per i libri.
Appassionato lettore dai gusti tanto vari quanto ben definiti, come si evince dal carteggio con Magliabechi, in possesso di una erudizione varia, sacra e profana, Panciatichi non disdegnava la compagnia di poeti e teologi, traeva diletto dallo studio delle scienze naturali, attendeva al greco, possedeva egregiamente il latino e fu cultore della lingua italiana
Il 12 agosto 1654 fu chiamato dall’Accademia della Crusca a portare, insieme con il canonico fiorentino, poi cardinale, Francesco Martelli, e il cavaliere Francesco Altoviti, nuove idee e rinnovato vigore sulla «nave arenata del nostro idioma» (Guasti, 1856, p. XVI). Presso gli accademici era ancora viva la memoria del padre Niccolò, consigliere nel 1642-43, consolo nel 1643 e arciconsolo nel 1644-45, così come quella del senatore Soldani, molto vicino al principe Leopoldo, non a caso amico e primo mecenate di Panciatichi. In Accademia ricoprì diverse cariche: nel 1655-56 fu massaio, censore nel 1658-59 e nel 1666-67, provveditore allo stravizzo nel 1660, infine arciconsolo nel 1666 e nel 1669.
Alla vita della Crusca si lega buona parte della prolifica produzione del vivace e ingegnoso Panciatichi, noto per il suo spirito irrequieto, colto e «insofferente di giogo» (Passerini, 1858, p. 226). Compose scherzi rimati, cicalate e contraccicalate, orazioni e arringhe, ditirambi e madrigali, brindisi letti in occasione degli stravizi accademici, sonetti, satire e vari altri componimenti. La prima lezione in burla da lui tenuta fu il commento a un sonetto di Gregorio Bracceschi, conosciuto come Sonetto dell’Angioloni perché composto in occasione del dottorato del nipote, Angiolone Angioloni, ma migliore riuscita ebbe la Cicalata in lode della padella e della frittura, pronunciata in occasione dello stravizzo del 14 settembre 1656 (Raccolta di prose fiorentine, 1723, pp. 189-215; Cicalate, 1729, pp. 7-35). Nel ms. 85 dell’Archivio della Crusca, autografo, è conservata l’Orazione tenuta nel prendere l’arciconsolato.
Grazie alle sue virtù oratorie ricevette incarichi prestigiosi dalla dinastia regnante, come quello di comporre e recitare le orazioni funebri per l’imperatrice Leonora Gonzaga (1655), per il cardinale Giovan Carlo de’ Medici (1663) e per Filippo IV di Spagna (1655); o quello, commissionatogli dall’arciduca Ferdinando II, di sovrintendere ai lavori di pittura della volta della galleria degli Uffizi, a cui si legano gli «appena sbozzati» Pensieri per la pittura della galleria degli Uffizi (Guasti, 1856, pp. XXXIV s., 147-170).
Collaborò alla terza impressione del Vocabolario della Crusca e diede fuori lavori di lessicografia: un Dizionarietto di voci proprie della marineria, edito da Raffaella Setti (1999, pp. 267-330; v. anche Guasti, 1856, p. lxxvi) e conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nel codice Panciatichiano 201 (cc. 21-46), successivamente trascritto da Cesare Guasti (Archivio Storico dell’Accademia della Crusca, Carte Medici, Card. Leopoldo, fascetta 1, quaderno allegato); e un lavoro, condotto insieme con Valerio Chimentelli, Francesco Redi e Ottavio Falconieri, intorno all’Etimologico toscano diretto da Carlo Dati, mai dato alle stampe a causa della contemporanea pubblicazione delle Origini della lingua italiana di Gilles Ménage.
Tuttavia, come emerge dalla corrispondenza con Magliabechi (Guasti, 1856, p. XXXII), non erano quelli lessicografici gli studi prediletti da Panciatichi, che si sentiva più portato per l’erudizione varia e pensava innanzi tutto ad arricchire la propria biblioteca. Sensibile alla sua passione bibliofila, il principe Leopoldo lo nominò gentiluomo di camera e bibliotecario personale dopo la morte di Ferdinando Del Maestro (1665).
Tale era «l’inclinazione [...] di stare fra’ libri» (lettera a Leopoldo de’ Medici, 30 gennaio 1664 in Guasti, 1856, p. XXXVI) che, tra il 1664 e il 1665, Panciatichi non esitò a scrivere a Leopoldo per chiedere di essere ammesso come bibliotecario granducale al posto «del povero signor Francesco Rondinelli», prima afflitto da «disperata salute» e poi defunto (ibid., pp. XXXV-XXXVIII). Le sue richieste non furono però ascoltate e bibliotecari ufficiali rimasero Rondinelli, fino alla morte, e Alessandro Segni.
Nel marzo 1668, pochi mesi dopo la nomina cardinalizia, Leopoldo volle Panciatichi con sé a Roma e nel 1670 lo inviò ambasciatore a Parigi, insieme con Matthias Maria Bartolommei, per informare Luigi XIV della morte di Ferdinando II. Successivamente, Panciatichi fu in Inghilterra, dove incontrò Robert Wood, Robert Boyle e Isacco Vossio; attraversò le Fiandre, percorse gran parte dell’Olanda e della Germania e si fermò diverso tempo ad Amsterdam alla ricerca di un autoritratto di Palma il Vecchio oggi conservato nel corridoio vasariano. Rientrato in patria, non prima del 1671, insieme con il giovane Antonmaria Salvini, riprese gli studi, concentrandosi sulla lingua greca, sulla numismatica e sull’origine dei proverbi toscani.
Cominciarono a manifestarsi allora i primi segni di ipocondria e depressione. Già da un decennio circa, da quando nel 1661 era stato eletto canonico della città di Firenze in seguito alla rinuncia di Francesco Martelli (Salvini, 1782, p. 133) la sua indole si era fatta sempre più cupa. Con l’aumento degli impegni previsti da una vita cortigiana e diocesana era cresciuto il bisogno di quiete e il piacere di trascorrere periodi sempre più lunghi nelle ville di famiglia della Petraia e di Torre degli Agli. Tra l’inverno del 1675, quando morì il cardinale Leopoldo, e l’estate dell’anno successivo, lo stato della frenesia peggiorò gravemente. Le cure ricevute presso l’ospedale di S. Dorotea non arrestarono un processo degenerativo che culminò la notte del 12 luglio 1676, quando, approfittando del sonno del guardiano della sua stanza, Panciatichi si gettò nel pozzo antistante all’ospedale, morendo sul colpo.
Si parlò variamente delle cause del suicidio e prevalse la tesi di attribuirlo all’umore melanconico; Antonfrancesco Marmi collegò però la tragica fine all’avvertimento dello sfavore di Cosimo III nei suoi confronti. La tesi di una presa di distanza del granduca non è infondata. Panciatichi era da tempo finito nel mirino del S. Uffizio a causa di testi eretici rinvenuti nella sua ricchissima libreria. Pur essendo chierico, fu inviso alla Chiesa al punto tale che, stando a quanto riportato da Gregorio Leti (Il Vaticano languente dopo la morte di Clemente X, III, Firenze 1677, p. 77) e dalle lettere di Magliabechi a uno dei fratelli (Guasti 1856, p. LIII), gli inquisitori proposero di dissotterrarne il corpo dal sepolcro dei canonici per seppellirlo in luogo sconsacrato. Molte sue fatiche furono date alle fiamme post mortem (Passerini, 1858, p. 229) e questo rende ciò che resta della sua opera inevitabilmente mutilo e parziale.
Punto di partenza per avvicinarsi all’opera panciatichiana è la Tavola degli scritti così editi come inediti curata da Cesare Guasti (1856, pp. LXVII-LXXXIII), dove si dà un elenco riassuntivo dei lavori all’epoca conosciuti e pubblicati in parte dallo stesso Guasti e, successivamente, da Francesco Ugo (1910), che aggiunse alcune lettere non note. Si tratta di una cinquantina di opere in prosa e in poesia, tra cui, oltre alle già menzionate, spiccano il Ditirambo d’un bevitore assai brillo (23 settembre 1657), il Ditirambo di uno che per febbre deliri (14 settembre 1659), tanto divertente che avrebbe fatto «sganasciare dalle risa lo stesso Eraclito» (Passerini, 1858, p. 228), la Contraccicalata alla cicalata dell’Imperfetto [Orazio Rucellai] sopra la lingua ionadattica (1662).
Quella del Panciatichi fu una produzione varia ed eterogenea: la vena satirica è riscontrabile nei sonetti composti in occasione del conclave di Clemente X (1669-70) e nella satira in quartine L’esclusione di san Pietro, composta durante il medesimo conclave. Per quanto riguarda la prosa, ricche di erudizione sono le epistole familiari inviate a Magliabechi, al cardinale Leopoldo, a Redi e a Magalotti, così come la «bella e dottissima» (Passerini, 1858, p. 227) lettera in cui si discute del significato del termine Cisium, indirizzata all’abate Ottavio Falconieri nel 1655 e stampata nel 1697 a Napoli da Antonio Bulifon (Lettere memorabili, istoriche, politiche, ed erudite scritte). Si segnalano poi lavori meno noti, come le Notizie intorno a Mario Mercatore, la Vita di Amerigo Vespucci, una narrazione storica sulla Guerra di Castro e della Lega, una novelletta dal titolo La barba fatta per carità, il Memoriale dell’Imperfetto dedicato a Orazio Rucellai e conservato nel codice 45.IX.CRUS.5.190 dell’Archivio storico dell’Accademia della Crusca (Diari e memorie, cc. 105-110). Nello stesso codice (c. 81r) è anche il Comento sopra il sonetto dell’Angiolini, di mano di Andrea Alamanni.
Le opere di Panciatichi sono a stampa in Raccolta di prose fiorentine, III, 1, Firenze 1723, pp. 189-215; in edizioni a lui solo dedicate: Scherzi poetici, Firenze 1729; Cicalate, s.n.t. (ma Firenze ca. 1730); Scritti vari, a cura di C. Guasti, Firenze 1856; La barba fatta per carità, a cura di G. Papanti, Livorno 1878; Scritti inediti, a cura di F. Ugo, Modica 1910.
Fonti e Bibl.: Firenze, Arch. dell’Opera di S. Maria del Fiore, Battezzati, reg. 40, cc. 89r, 155r; I. Soldani, Satire, a cura di S. Dardi, Firenze 2012, p. XXVIII; S. Salvini, Catalogo cronologico de’ canonici della Chiesa metropolitana fiorentina compilato l’anno 1751, Firenze 1782, p. 133; L. Passerini, Genealogia e storia della famiglia Panciatichi, Firenze 1858, pp. 223-230; G. Garollo, Dizionario biografico universale, Milano 1907, p. 1492; F. Massai, Le «Origini Italiane» del Menagio e l’«Etimologico toscano» degli accademici della Crusca. Undici lettere inedite di Carlo Dati ad Alessandro Segni (1665-1666), in Rivista delle Biblioteche e degli Archivi, XXVIII (1917), pp. 1-22; M. Merkel, Di L. P. nel carteggio di Antonio Magliabechi al p. Angelico Aprosio, Genova 1919; G. Belloni, Il Seicento, Milano 1929, ad ind.; Catalogo degli accademici [della Crusca] dalla fondazione, a cura di S. Parodi, Firenze 1983, p. 101; R. Setti, Un dizionarietto di marineria nel laboratorio lessicografico del principe Leopoldo de’ Medici, in Studi di lessicografia italiana, XVI (1999), pp. 267-330.