LORENZO di Credi (Lorenzo d'Andrea d'Oderigo)
Nacque a Firenze tra il 1456 e il 1460 dall'orafo Andrea d'Oderigo e da una non meglio identificabile monna Lisa.
Non è possibile definire con maggior precisione la data di nascita di L. poiché allo stato attuale delle conoscenze gli unici documenti utili in tal senso appaiono discordi. Al 1469 risale infatti una dichiarazione catastale resa dalla madre, all'epoca già vedova, in cui è registrato lo stato di famiglia che contava in quel momento, oltre ovviamente alla stessa Lisa, tre dei suoi sei figli: Credi, di ventuno anni, Cecilia, di sedici, e L., il quale a questa data, secondo quanto riportato nell'atto, avrebbe avuto dodici anni: pertanto il suo anno di nascita andrebbe fissato tra il 1456 e il 1457. Ma tale congettura è smentita da una seconda dichiarazione catastale, datata 1480, in cui il pittore, che allora viveva ancora nella casa paterna insieme con la madre, risulta avere ventuno anni ed essere già a bottega presso Andrea del Verrocchio con un salario di 12 fiorini annui. Prestando fede a questa seconda dichiarazione la data di nascita dovrebbe essere dunque posticipata di tre anni, al 1459 o al 1460 (Dalli Regoli, 1966, p. 8).
Dubbi permangono pure intorno al nome completo di Lorenzo.
Nel Libro di possessioni e commessi dello Spedale di S. Maria Nuova dal 1485 al 1488 (c. 525), il pittore è citato come "Lorenzo d'Andrea d'Oderigo Barducci", nota che resta tuttavia l'unica occorrenza documentaria in cui compaia tale cognome; quando, per contro, l'artista è altrove solitamente menzionato come "Lorenzo d'Andrea di Credi" (Milanesi, in Vasari, p. 564) o anche più semplicemente come "Laurentius Credi pictor". Non è però certo se il patronimico con cui L. è ancora oggi universalmente noto derivi la sua origine dal nome di un avo, l'orefice Credi, nonno di Oderigo, oppure se si debba riferire alla relazione con l'omonimo fratello maggiore, Credi, anch'egli probabilmente orafo e forse, facendo le veci del padre perduto da L. in giovane età, sua prima guida e maestro nell'arte dell'oreficeria (Dalli Regoli, 1966, pp. 8, 92).
A fronte di tali incertezze un dato sembra essere comunque sicuro, corroborato non solo da una lunga tradizione cominciata già con Vasari, ma accertabile pure per evidenze documentarie, vale a dire l'apprendistato e la continuativa presenza di L. presso la bottega di Andrea del Verrocchio almeno dal 1480.
Certo questo ambiente dovette riuscire congeniale al giovane pittore che proprio nello studio verrocchiesco ebbe modo di conoscere e frequentare alcune delle personalità di maggiore spicco sulla scena artistica del Rinascimento non solo fiorentino: il Perugino, il Botticelli, Leonardo. Ma a differenza di questi egli rimase sempre fedele alla bottega - quella stessa che era già stata di Michelozzo e di Donatello - situata nel "popolo" di S. Michele Visdomini, l'odierna via dell'Oriolo, secondo quanto attesta con precisione un documento del 1495 (Dalli Regoli, 1966, p. 93). Dello studio del maestro L. finì infatti per essere erede diretto, come risulta dal testamento di Andrea, datato 25 marzo 1488, in cui al discepolo non solo è affidata la conduzione dell'attività della bottega, ma è persino conferito il ruolo di esecutore legale per i restanti beni, privilegio comprensibilmente poco gradito al fratello Tommaso di Andrea, il quale, due anni dopo, nel 1490, intentò una causa a L., evidentemente scontento dell'operato di questo (Gaye, I, pp. 367-369; Dalli Regoli, 1966, p. 92).
Proprio la prolungata e assidua collaborazione di L. con Andrea del Verrocchio, nonché la costante presenza e il ruolo attivo, ma diversificato, all'interno dei meccanismi di produzione della bottega, hanno peraltro contribuito a rendere più difficile l'individuazione e il riconoscimento delle sue prime opere compiutamente autografe. È il caso della tavola con la Madonna in trono e i ss. Giovanni Battista e Donato, originariamente destinata all'oratorio della Vergine di Piazza a Pistoia e ora conservata nella cattedrale della stessa città, mutila dell'originaria predella, oggi divisa in tre tavolette distinte e spartite fra il Museo del Louvre di Parigi, l'Art Museum di Worcester e la Walker Art Gallery di Liverpool (quest'ultima opera per lo più concordemente ascritta al Perugino).
Il dipinto ha da sempre richiamato l'attenzione della critica, divenendo un "caso" piuttosto dibattuto sul piano attributivo. Benché dalle carte d'archivio ritrovate alla fine dell'Ottocento risulti infatti chiaro che la commissione era stata allogata al Verrocchio dagli esecutori testamentari del vescovo Donato de' Medici (Chiappelli - Chiti, pp. 48 s.), la successiva letteratura artistica - a cominciare da Vasari (p. 566) - ha reputato la pala, senza la minima esitazione, l'opera di maggiore rilievo dell'esordiente Lorenzo. La questione non è di poco conto se si tiene presente che la stessa tavola, ove fosse da riconoscersi al maestro piuttosto che all'allievo, costituirebbe di fatto l'unica prova documentata della già non cospicua produzione di dipinti del Verrocchio, produzione di cui, conseguentemente, assumerebbe valore esemplare (Passavant, p. 49). La lunga querelle attributiva sembra tuttavia ormai sfociata in una pressoché concorde posizione della critica a favore dell'autografia di L. - sebbene non siano mancati suggerimenti a sostegno di una possibile collaborazione leonardesca, eventualmente limitata a una prima formulazione grafica - sia per ragioni stilistiche sia per ragioni storiche contingenti, quali si possono desumere dai documenti stessi. Stando alle fonti, infatti, la commissione dell'opera dovrebbe risalire agli anni intorno al 1477-78 e, sempre secondo le testimonianze, il lavoro sarebbe stato condotto a termine nel 1485. Considerando che fin dal 1482-83 L. era rimasto praticamente solo a dirigere la bottega - il Verrocchio era allora impegnato nella realizzazione del monumento di Bartolomeo Colleoni a Venezia e Leonardo era ormai partito per Milano - è plausibile supporre che egli abbia assunto autonomamente la responsabilità di perfezionare la commissione pistoiese, senza che con ciò si debba escludere l'altrettanto verosimile evenienza che a tal fine si sia servito di disegni e studi precedentemente elaborati o approvati dal maestro (Dalli Regoli, 1966, pp. 11-17, 111-114, e 1984, pp. 220-226).
Intorno a questo medesimo giro di anni si può collocare anche l'esecuzione di una serie di opere di piccole e medie dimensioni, destinate per lo più alla devozione privata, in cui è già chiaramente riconoscibile l'impronta personale della maniera di L., pur nell'ossequio a modelli iconografici consolidati e sotto il segno dell'inevitabile suggestione di ascendenza leonardesca.
Eloquente da questo punto di vista la serie di quadri raffiguranti la Madonna col Bambino, quali, per esempio, il dipinto delle Staatliche Kunstsammlungen di Dresda, le due tavolette della Galleria Sabauda a Torino o ancora il quadretto del Musée de la Ville di Strasburgo. Di là dall'influenza visibile del maestro e del più anziano e dotato collega tali opere consentono di apprezzare la progressiva definizione dello stile di L., uno stile diligentemente calligrafico, condotto in quel modo "tanto finito e pulito" che già Vasari (p. 569) siglava concisamente come carattere peculiare della pittura di Lorenzo.
Questa stessa maniera contraddistingue pure la produzione ritrattistica - che, sempre secondo Vasari, dovette essere assai cospicua - nell'ambito della quale fa spicco l'Autoritratto della National Gallery of art di Washington.
L'opera in questione riveste inoltre speciale interesse poiché costituirebbe un utile punto di ancoraggio cronologico, essendo firmata e datata, sul retro, 1488. Sennonché l'esame epigrafico non sembra confermare la pertinenza dei caratteri dell'iscrizione alla fine del Quattrocento e lascerebbe pensare piuttosto a una datazione intorno alla prima metà del secolo successivo, minandone con ciò il valore di sicuro appiglio documentario. Se il dipinto di Washington potesse identificarsi con il ritratto, ricordato ancora da Vasari (p. 566), che L. "quando era ancor giovane fece [(] di sé stesso che è oggi appresso Giovan Jacopo suo discepolo", si potrebbe supporre che l'iscrizione apocrifa conservata sul retro del quadro sia stata aggiunta dal suo possessore - forse proprio quello stesso Giovan Iacopo da Castrocaro, allievo di L. - a scopo di postuma autentificazione; sempre che non si voglia ammettere la meno verosimile ipotesi che l'autore stesso abbia avuto motivo di certificare la propria opera retrodatandola a distanza di anni (Dalli Regoli, 1966, p. 132).
Nel corso del suo apprendistato L. acquisì certamente adeguate competenze tecniche anche nell'ambito della scultura, con particolare riguardo a quella in metallo, circostanza persino scontata se si considera l'eminente vocazione della bottega verrocchiesca e la tradizione artigianale ben consolidata nella famiglia da cui L. proveniva. Tuttavia, e a dispetto di quanto tramandato dalle fonti, nessuna traccia rimane di una sua personale produzione scultorea. Tanto più degno di nota è dunque il fatto, certificato nel già menzionato testamento del Verrocchio, che l'anziano maestro decidesse di affidare al suo affezionato allievo il prestigioso quanto impegnativo compito di portare a termine la grande statua equestre di Colleoni lasciata incompiuta a Venezia, motivando con perentoria chiarezza la sua scelta: "quia est suffitiens ad id perficiendum" (Gaye, I, p. 369). Nonostante la fiducia accordatagli, L. non ritenne comunque opportuno incaricarsi personalmente della non facile commissione, tanto che, il 7 ottobre dello stesso 1488, mediante regolare contratto, preferiva cedere oneri e onori allo scultore suo concittadino Giovanni d'Andrea di Domenico, il quale venne poi a sua volta sollevato dall'incarico per decisione del governo della Serenissima, che risolse di appaltare definitivamente l'impresa al veneziano Alessandro Leopardi (Milanesi, in Vasari, p. 565).
L'ultimo decennio del secolo vide, invece, affermarsi la piena maturità artistica e professionale di Lorenzo a Firenze. Nel 1490 il pittore era convocato nella commissione di "esperti" chiamati a esprimersi in merito alla sistemazione della facciata di S. Maria del Fiore (Dalli Regoli, 1966, p. 92). Il 20 febbr. 1493 veniva esposta al pubblico dei fedeli, nella chiesa di S. Maria Maddalena de' Pazzi, la tavola raffigurante la Madonna con il Bambino e i ss. Giuliano e Nicola, che L. aveva eseguito a istanza di Filippo di Francesco Mascalzoni quale pala d'altare per la cappella di famiglia.
Il dipinto, oggi conservato al Louvre, rappresenta uno degli esiti di maggior momento nella produzione dell'artista ed è stilisticamente avvicinabile all'altra opera pure assai celebre di L., l'Annunciazione degli Uffizi, per la quale mancano al contrario estremi documentari certi. In entrambi i dipinti si ravvisano comunque la medesima brillantezza del colorito, un identico trattamento dei panneggi, sfilati con "metallica" precisione (questa è memore della lezione verrocchiesca ma ricettiva pure di modi fiamminghi) e soprattutto lo stesso rigore e nitidezza di impianto architettonico, per di più con motivi ornamentali che si direbbero ricalcati dall'una all'altra tavola. Un insieme di elementi che ha convinto gli specialisti a ipotizzare una cronologia strettamente contigua per le due opere (ibid., p. 50).
Di qualche anno più tarda, e forse da collocare già agli inizi del Cinquecento, è poi la pala con l'Adorazione dei pastori, anch'essa oggi custodita nella Galleria degli Uffizi, ma originariamente realizzata per una cappella laterale della chiesa fiorentina di S. Chiara, su commissione del mercante di stoffe Iacopo Borgianni (o Bongianni), che volle probabilmente essere effigiato tra i personaggi dipinti nella scena.
Sicuro termine post quem per la datazione della tavola è fornito dal testamento dello stesso Borgianni, redatto il 1( luglio 1497, nel quale si specificava come i lavori già avviati nella cappella non fossero allora ancora terminati e si dava perciò mandato agli eredi di provvedere al completamento, entro i due anni successivi, completamento che riguardava esplicitamente anche la "tabulam altaris Nativitatis Domini [(] que pingitur et perficitur per Laurentium Credi pictorem" (Kent, p. 540). La pala era certamente in opera al più tardi nel 1510, quando Albertini poté citarla nel suo Memoriale (p. 14); ma è probabile che essa fosse stata comunque consegnata prima ancora della morte del committente, avvenuta nel 1506, e dunque nei primissimi anni del secolo.
Il fatto che il nome del pittore venga citato espressamente e per esteso nel testamento - circostanza in effetti infrequente, almeno a questa altezza cronologica - ha indotto taluni a immaginare che fra l'artista e il committente potessero intercorrere rapporti di fiducia o addirittura di amicizia non meramente occasionali. Lo lascerebbe inferire anche un altro documento pure collegato a Borgianni, il quale infatti, in una lettera indirizzata all'amico Pandolfo Rucellai, riferiva di aver udito, proprio nella bottega di L., il racconto di alcuni frati domenicani che testimoniavano della veridicità di un miracolo operato da Girolamo Savonarola nel convento di S. Marco (Kent, p. 541). Le simpatie savonaroliane di un committente, sia pure abituale frequentatore della bottega, restano nondimeno elemento troppo labile per concludere circa le presunte personali convinzioni o propensioni religiose del pittore e tanto più per fare illazioni su possibili "riflessi" stilistici o iconografici nelle sue opere, benché non si possa escludere che il diffuso clima di turbolento fervore provocato a Firenze dal riformatore domenicano nell'ultimo scorcio del Quattrocento abbia influenzato L. o persino animato una più attiva adesione a quel movimento, come peraltro già riferisce la biografia vasariana, seguita dalla letteratura successiva.
Con l'inizio del nuovo secolo l'attività di L. si fece più intensa ma nello stesso tempo più selettiva, preferibilmente mirata alla produzione di dipinti di destinazione privata di piccole o medie dimensioni, evitando invece le commissioni di grandi pale d'altare pubbliche come pure la realizzazione di opere ad affresco. Una simile specializzazione poteva essere dettata da una ponderata strategia di mercato piuttosto che da una scarsa fiducia della committenza nelle possibilità e nelle competenze tecniche vantate dalla bottega. Non mancano, al contrario, copiose testimonianze che rivelano la stima e la considerazione che la cittadinanza, i colleghi e le istituzioni fiorentine tributavano alla professionalità e all'autorevolezza del pittore.
Bastano pochi significativi esempi. Il 25 genn. 1504 il suo nome compare fra quelli dei consulenti scelti dalla Signoria fiorentina per giudicare la più conveniente collocazione pubblica del David di Michelangelo (Gaye, II, p. 456). Di nuovo, nell'estate del 1507 L. era presente in qualità di esperto per decidere in merito alla prosecuzione dei lavori all'interno della cappella di S. Zanobi nel duomo; mentre ancora nel 1514 gli veniva affidato l'incarico di stimare gli affreschi di Ridolfo del Ghirlandaio in palazzo Vecchio (Dalli Regoli, 1966, pp. 94 s.). È poi particolarmente degno di nota, sotto questo medesimo profilo, che al successore del Verrocchio si facesse ricorso per interventi che oggi potremmo definire, con le debite differenze, di "restauro", per giunta su opere di prestigio e di pubblica rinomanza. Commissioni di questo tipo particolare il pittore ricevette in più occasioni: nel 1501, per intervenire sulla pala del Beato Angelico in S. Domenico a Fiesole (Baldini, p. 240); nel 1508, per provvedere al Crocifisso di Benedetto da Maiano nel duomo di Firenze e, nuovamente nella cattedrale fiorentina, nel 1524, per mettere mano ai due grandi affreschi di Giovanni Acuto e Niccolò da Tolentino, opere famose di Paolo Uccello e Andrea del Castagno (Dalli Regoli, 1966, p. 96).
I fatti nuovi che si affacciarono sul panorama artistico fiorentino tra il primo e il secondo decennio del XVI secolo dovettero comunque progressivamente far aumentare lo iato tra la consolidata maniera tradizionale di L., ben radicata nel modello verrocchiesco al quale il pittore si tenne sempre sostanzialmente fedele, e gli esiti sorprendenti cui mettevano capo le prove di una più giovane generazione di artisti, quella di Andrea del Sarto (Andrea d'Agnolo), del Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Jacopo), del Pontormo (Iacopo Carucci). Ancorché sensibile e aggiornato alle mediazioni ireniche di fra Bartolomeo, ma senza il respiro monumentale di quello, lo stile di L. resta vincolato a una concezione tecnico-esecutiva e iconografica tardoquattrocentesca della pittura, più che cercare il confronto con le spregiudicate sperimentazioni della nuova maniera.
La Sacra Conversazione per l'ospedale del Ceppo di Pistoia, una delle ultime pale d'altare eseguite da L. e oggi trasferita al Museo civico della città, benché databile ancora intorno al 1510, denuncia la fissità di quelle formule che si avviavano allora a passare di moda. Su questa stessa linea si collocano pure le opere più tarde, come il S. Michele Arcangelo realizzato per il duomo fiorentino all'incirca nel 1526.
A spiegare il generale decremento qualitativo della produzione ultima di L. si è spesso invocato l'intervento progressivamente più attivo e cospicuo degli allievi, che certo operavano numerosi a fianco del maestro nella conduzione di uno studio fiorente e ben avviato. Fra questi si possono almeno ricordare Giovanni Antonio Sogliani, poi omaggiato da Vasari di una propria biografia, e Giovanni Cianfanini, la cui mano, pur nella difficoltà di sceverare con certezza, è sembrato di poter riconoscere sempre più prevalente nelle opere tarde licenziate dalla bottega, a scapito di un'integrale autografia del maestro.
Il 1( apr. 1531 L., ormai più che settantenne, decise di ritirarsi nel convento di S. Maria Nuova, dove avrebbe condotto gli anni estremi della sua esistenza. A qualche giorno dopo risale la decisione di stendere le proprie volontà testamentarie che portano la data del 3 apr. 1531 (Milanesi, in Vasari, p. 569; Gaye, I, p. 372).
Di una sua attività in questo periodo finale, trascorso lontano dal mondo in un regime quasi monastico, non si hanno notizie; ma è pressoché certo che a questa scelta dovette accompagnarsi anche quella di rinunciare definitivamente al mestiere della pittura.
L. morì pochi anni più tardi, il 12 genn. 1536, secondo quanto riferisce la testimonianza di un oscuro Vettorio Rosso "tintore" trascritta nel Libro dei debiti e crediti dello Spedale di S. Maria Nuova a Firenze (Milanesi, in Vasari, p. 569).
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