LORENZO di Amalfi
Se ne ignora la data di nascita. Membro della famiglia comitale amalfitana - "filium domini Musci de Leone comite cognomento Gettabette" (Kehr, p. 389 n. 7) -, entrò nel monastero di Monte Cassino probabilmente intorno al novembre 1021. Fu consacrato arcivescovo di Amalfi nel luglio 1029 da Giovanni XIX, ma nel 1039 fu costretto all'esilio quando il principe di Salerno Guaimario (IV) si impossessò di Amalfi.
Pelliccia sostiene che l'arcivescovo amalfitano Leone (II) e L. sarebbero stati la stessa persona, ma ne data la morte al 996.
L. si rifugiò dapprima presso i canonici del duomo di Firenze e dal 1045 fu a Roma, nella canonica di S. Giovanni a Porta Latina, ospite dell'arciprete Giovanni Graziano (il futuro papa Gregorio VI), dove rimase fino alla morte. Durante la permanenza romana visitò più volte nel monastero di S. Maria all'Aventino l'abate Odilone di Cluny, cui era legato da stretta amicizia.
L. incontrò certamente Pier Damiani, come si ricava da alcune epistole damianee a lui rivolte; l'incontro avvenne probabilmente a Firenze negli anni dell'esilio del monaco (Reindel, 1976; Lucchesi, 1977).
Tra le fonti cassinesi l'unica a riferirsi a L., mancando ogni accenno nella Chronica di Leone Marsicano, è un necrologio frammentario dell'XI secolo, che ricorda la morte di un Lorenzo arcivescovo e monaco (I necrologi cassinesi).
Più significative, ma da valutare alla luce della militanza ideologica dei rispettivi autori, sono le notizie presenti nella Vita Odilonis di Pier Damiani e nei Gesta Romanae Ecclesiae (p. 376) del cardinale Benone, fautore di Enrico IV e fra i più accesi denigratori di Gregorio VII (Ildebrando di Soana).
I due testi offrono infatti un'immagine assai contrastante di L., raffigurato in odore di santità nel testo agiografico e definito invece "princeps maleficiorum" dal polemista filoimperiale. Secondo Benone, L. sarebbe stato intimo di Teofilatto (futuro papa Benedetto IX) e insieme con lui discepolo di Gerberto di Aurillac (poi papa Silvestro II), da cui avrebbe appreso le dottrine demoniache; con la narrazione di vari aneddoti ne vengono evidenziate le potenti capacità di negromante trasmesse a Gregorio VII e da questo perfezionate.
Sebbene anche il testo damianeo possa riflettere una posizione mediata dall'ideologia, la riconosciuta faziosità dell'opera di Benone, che in vari luoghi scade nel pettegolezzo, toglie attendibilità all'unica informazione a suo tempo accolta come verosimile: l'ipotesi di un discepolato di Ildebrando di Soana presso L. e Giovanni Graziano a Roma, nel monastero di S. Maria all'Aventino. Mancano infatti attestazioni sicure di un simile magistero di L., anche se risulta plausibile la possibilità di un rapporto fra Ildebrando, Giovanni Graziano, di cui Ildebrando fu cappellano, e lo stesso L. (Miccoli).
Secondo Borino (1952), invece, Giovanni Graziano e L., fautori della vita regolare comune, avrebbero accolto come maestri Gregorio VII quale clericus canonicus a S. Giovanni a Porta Latina.
L., secondo Pier Damiani "potens in litteris ac biglossus, graece noverat et latine, et, quod longe preastantius, laudabilis vitae claritate pollebat" (Vita Odilonis, col. 944), fu senza dubbio uno dei principali protagonisti del rinnovamento e del fervore culturale propri dell'abbaziato di Teobaldo a Monte Cassino (1022-27); la sua opera e il suo magistero rivelano un'originale sensibilità per l'eredità culturale classica e un nuovo modo di considerare e studiare il mondo antico, in base al quale i classici non erano più considerati solo quali strumenti di apprendimento scientifico e modelli retorici, ma anche come fonti di dottrina e di sapere.
A Pier Damiani si deve la datazione della morte di L. al 1049: egli lo dice morto nella quaresima seguente la scomparsa di Odilone, avvenuta il 31 dic. 1048 (Acta sanctorum; Vita Odilonis). Secondo il Chronicon archiepiscoporum Amalphitanorum (cfr. Kehr), invece, L. sarebbe morto il 7 marzo 1050.
A L. si deve l'ideazione, se non la compilazione, di un florilegio di excerpta tratti da autori classici, inedito e conservato in un codice della Biblioteca naz. Marciana di Venezia - il Lat. Z.497 (=1811), cc. 19r-58v - copia di un esemplare che conteneva una miscellanea usata nella scuola cassinese nell'XI secolo. Il florilegio rivela un'architettura e un progetto autonomi e, lungi dal proporre un'inerte adesione agli schemi delle miscellanee didattiche in uso nella scuola medievale, è caratterizzato da significative novità nella scelta dei materiali e delle fonti: accanto alle tradizionali materie del Trivio e del Quadrivio si arricchisce, infatti, di notevoli aperture alla medicina e alla musica, a sottolineare l'originalità della pratica didattica del monaco.
L'aspetto saliente dell'opera risiede soprattutto nel fatto che gli excerpta e i brani degli autori antichi ripresi nel testo (Terenzio, Virgilio, Lucrezio, Orazio, Tibullo, Ovidio, Persio, Lucano, Giovenale, Stazio e, fra i prosatori, Macrobio, Marziano Capella, Orosio, Giuseppe Flavio) sono tratti dalle fonti originali (Newton, 1962).
La disponibilità di alcuni di tali autori nel cenobio cassinese è confermata dalla sopravvivenza dei codici, nei quali "l'individuazione della mano di Lorenzo conferma la consuetudine al rapporto diretto col libro, finalizzata non solo al suo lavoro di insegnante, ma anche di revisore del testo. La parziale correzione del Casin. 28, un codice del De trinitate e altri scritti di Agostino scritto nel 1023, è ricordata da due annotazioni autografe di Lorenzo che testimoniano l'introduzione nello scriptorium cassinese di una pratica erudita, di origine antica, che la tarda antichità aveva trasmesso al medioevo monastico" (Pecere, 1996, p. 81). Il controllo della trascrizione, che rivela una concezione del libro come veicolo di cultura da preservare nella sua integrità testuale, esercizio già recuperato dalla cultura carolingia, con L. penetra a Monte Cassino favorendo la rielaborazione dei testi per una nuova produzione letteraria. Il florilegio di L. supera l'arretratezza della manualistica cassinese richiamandosi al canone dei classici in base a un'operazione complessa che, in coerenza con la tradizione, si sforzava di rielaborare e arricchire l'insegnamento originario, trasformando e innovando la concezione del sapere.
Nel codice marciano Lat. Z.497, alle cc. 160r-161r, è conservato anche il De divisione, trattato di matematica che rivela un'approfondita conoscenza delle opere scientifiche di Gerberto di Aurillac; ciò potrebbe motivare la leggenda del discipolato di L. presso Gerberto e "dare consistenza alla pur faziosa ricostruzione di Benone" (Braga, p. 95). Il De divisione è stato edito da F. Newton in Laurentius monachus Casinensis, Opera, in Mon. Germ. Hist., Quellen zur Geistesgeschichte des Mittelalters, VII, Weimar 1973, pp. 76-80.
Lo spessore culturale del magistero di L. è ben dispiegato anche nelle sue opere agiografiche, soprattutto nella Passio s. Wensezlai, redatta tra il 1022 e il 1030. La sua originalità rispetto ad analoghe opere coeve è rivelata fin dall'oggetto, la vita di un santo sicuramente eccentrico rispetto all'area cassinese: tale scelta è forse da riferire ai peculiari interessi della dinastia sassone, in quel momento influente a Cassino (da ricordare è l'intervento di Enrico II a favore dell'elezione di Teobaldo ad abate). Il testo è caratterizzato dall'uso di vari strumenti retorici e da un'attenzione al cursus che riprende l'alta qualità retorica del florilegio. Tratti distintivi sono la mescolanza di prosa ritmata e versi (il cosiddetto prosimetrum), l'uso del discorso diretto e la fitta presenza di citazioni classiche, da Orazio, Terenzio, Persio, Giovenale, Virgilio, accanto alle patristiche e scritturali: l'intento edificante non era, infatti, in contrasto con gli insegnamenti morali e le immagini letterarie che dai classici si potevano trarre. L'opera è edita da F. Newton in Laurentius, Opera, pp. 23-43.
Presentano caratteristiche in parte diverse le altre opere agiografiche di L., redatte quando l'esperienza cassinese si era conclusa: il Sermo in vigilia sancti Benedicti (edita da F. Newton in Laurentius, Opera), dedicato alla vita del santo fondatore attraverso la narrazione dei suoi miracoli, la Vita beati Mauri (ibid.) e la Vita sancti Zenobii episcopi (ibid.) dovuta alle sollecitazioni dei canonici fiorentini, come si deduce da una nota conclusiva dello stesso L., in Acta sanctorum Maii, VI, Bruxellis 1688, pp. 58-62; F. Ughelli - N. Coleti, Italia sacra, III, Venetiis 1718, coll. 11-18; La vita di s. Zanobi, Firenze 1863, pp. 34-41; Laurentius, Opera, a cura di F. Newton, pp. 50-70). In questi testi, infatti, spicca l'assenza del prosimetrum e delle citazioni classiche, sostituite da riferimenti monastici e patristici: più che a una scelta meditata di L., ciò è da attribuire con ogni probabilità alla lontananza da Monte Cassino e all'impossibilità di attingere alle opere classiche presenti nella biblioteca del cenobio.
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