DAVIDICO, Lorenzo
Paolo Lorenzo Castellino nacque nel 1513 a Castelnovetto nella Lomellina (diocesi di Vercelli, provincia di Pavia), da Giorgio di Davide e da Giovanna sua moglie. Lasciò a tredici anni Castelnovetto per continuare gli studi e nel 1528 si recò a Vercelli dove si mise sotto la guida di don Felice, maestro torinese di lettere greche e latine. Dopo la morte del suo maestro il D., chiamato in quest'epoca Castellino di Davidej se ne andò a Roma da un suo parente che dimorava in corte di Clemente VII e visse per qualche tempo al servizio della famiglia Pucci. In questo periodo sostituì il nome di Castellino con quello di Lorenzo, prese gli ordini sacri e conseguì la laurea in teologia ed in diritto canonico e civile.
Il D. si trasferì poi a Milano dove entrò, senza pronunciare i voti, a far parte dei chierici regolari di S. Barnaba: rivesti l'abito barnabita nel 1536 e l'anno dopo fu inviato da uno dei fondatori, Antonio Maria Zaccaria, in missione a Vicenza presso il vescovo Nicolò Ridolfi. Ritornò a Milano nel 1539, come attesta un atto notarile e fu impiegato dalla Congregazione come maestro di lettere fino al 1542, anno in cui fu chiamato, insieme con altri barnabiti, a Verona. Vi rimase fino al 1545 e assistette alla morte del Giberti. Il 18 genn. 1545 fu chiamato in capitolo a S. Barnaba a Milano per render conto di certe mancanze e soprattutto di "vanagloria" di cui aveva dato prova. Venne affidato al padre Nicolò d'Aviano che cercò con ammonimenti e con l'esercizio nei bassi uffici della casa di riportarlo alla giusta obbedienza. Nel marzo del 1547 i barnabiti lo giudicarono incorreggibile e, come spiega il padre Marta nella sua corrispondenza del 1556 coll'inquisitore Michele Ghisleri (Premoli, 1912, p. 284)., lo espulsero perché gli furono trovati dei soldi rubati cuciti addosso. I barnabiti rifiutarono di raccomandarlo, come richiesto dal D. stesso, a Francesco da Tortona e lasciarono al fondatore dei paolini la scelta di portarselo o meno con sé. Il Tortona decise di accettare il D. per due mesi di prova con la riserva di poterlo espellere nel caso in cui non si pentisse dei propri errori. Non si hanno ulteriori notizie su questo soggiorno del D. nella Congregazione di Tortona. Lo si trova a Roma dove ebbe occasione di conoscere prelati importanti e di assistere alle dispute di sacra dottrina che si tenevano alla corte di Paolo II I.
È lo stesso D. che ne parla in un suo opuscolo De congrua gratioris nonditis electione (in De columba animae), dove si legge che durante una di queste discussioni, chiamato col nome di Castellino da uno dei presenti, fu interpellato dallo stesso pontefice a proposito del suo noine. Paolo III stabilì che da quel momento si sarebbe opportunamente detto Lorenzo e chiamato Davidico.
La sua presenza a Roma non è fissa; il D. si sposta in continuazione occupato nella lotta contro l'eresia, conquistandosi frattanto fama di buon predicatore. Il 7 marzo 1549 si trovava a Forlì e scrisse una lettera ad Ignazio di Loyola. Cominciò a frequentare l'ambiente gesuitico: infatti si occupò di certo Giuliano da Colle, predicatore eretico che sembrava preoccupare i gesuiti dell'epoca, e, arrivato nel 1550 a Firenze, strinse amicizia con Giovanni de Rossi, medico legato alla Compagnia di Gesù, il quale raccomandava spesso il D. nelle sue lettere ad Ignazio di Loyola. Nell'estate del 1550 si trovò a Roma dove rese formalmente visita a s. Ignazio per denunciare mastro Giuliano. Non si sa se approfittò di questa occasione per cercare un appoggio per il suo rientro nella Congregazione barnabita o se il suo fu piuttosto un tentativo di ammissione nella Compagnia di Gesù: il 9 ag. 1550 Ignazio di Loyola scrisse al preposito barnabita, G. P. Besozzi, informandolo di questa visita e chiedendogli di riprendere il D. in seno alla Congregazione milanese. Dopo essersi riuniti in consiglio alla fine dello stesso mese, i barnabiti risposero che il D. non poteva essere riaccettato dal momento che in realtà non era mai stato accettato.
Intanto, il D. continuava la sua attività di inquisitore e sotto il papato di Giulio III fu nominato predicatore apostolico e commissario contro l'eretica pravità. Padre Tornielli, critico e storico della Congregazione barnabita, attribuì alle denunce del D. l'imprigionamento dei due confratelli G. P. Besozzi e P. Melso, che arrivarono a Roma verso la fine del 1550 per cercare di far togliere il bando emesso contro di loro nella Repubblica di Venezia. Secondo lo storico Tornielli, il movente dell'atteggiamento del D. nei confronti dei due preti riformati sarebbe stato il rancore rimastogli dopo il rifiuto dei barnabiti di riaccettarlo nelle loro file (Premoli, 1913).
Nel novembre del 1552 il D. passò a Perugia dove aveva gran credito presso personaggi influenti in città. Si mise a capo di alcuni fedeli con lo scopo di fondare una confraternita (era infatti conosciuto come istitutore di pie confraternite, le quali dovevano probabilmente chiamarsi "Collegi di Maria Vergine"). A questa data, il gesuita Everardo Mercuriano espresse il proprio scetticismo nei riguardi del D. e informò il segretario della Compagnia, Giovanni Polanco, che la dottrina del D. si basava su "certi paradoxi spirituali, gli quali penso di certo che pocco piacerebbono a theologi, simillimi a quelli de fra Battista da Crema...": Monumenta hist. Societ. Iesu, Epist. mixtae, II,Madrid 1899, pp. 870 ss. (La dottrina di questo domenicano fu condannata come eretica nel 1552 ed egli verrà prosciolto da ogni addebito solo alla fine del XIX sec.). Le sottomissioni esteriori, esagerate, che il D. richiedeva ai suoi condiscepoli fecero nascere dei sospetti anche tra prelati importanti quale Gian Pietro Carafa, futuro Paolo IV.
Nella primavera del 1553 Giovanni Morone, appena nominato vescovo a Novara, al quale il D. aveva dedicato un suo libro intitolato Candore della cattolica verità (Roma 1553), lo chiamò in qualità di predicatore apostolico e vicario foraneo nella sua diocesi. Il D. si rese presto colpevole di gravi mancanze con un illecito commercio di assoluzioni che indussero il cardinale a sospenderlo dall'incarico. Giovanni Morone, dopo aver obbligato il D. a rendere il denaro estorto e contribuito di propria tasca al rimborso della parte mancante, lo espulse dalla sua diocesi ancora nello stesso anno. Qualche anno dopo il Morone venne incarcerato a Castel Sant'Angelo per sospetto di eresia: il D. rilasciò un'astiosa denuncia contro di lui e fu uno dei testimoni chiamati a deporre contro il cardinale (cfr. i lavori di M. Firpo e M. Firpo-D. Mercatto sul ruolo del D. nel processo Morone). Nella sua difesa a proposito "dell'elemosina data a persone sospette" il Morone si ricorderà così del D.: "... e più volentieri l'ho data [l'elemosina] a quelli che credevo fossero uomini da bene anchorché da questi spesse volte mi son trovato ingannato, come ho fatto da un prete Lorenzo Davidico al quale io ho date parecchie decine di scudi" (cfr. C. Cantù, p. 184).
Lasciata Novara, il D. tornò dapprima a Roma dove pubblicò un nuovo opuscolo (La Davidica o Caccia Villano, Roma 1554) e poi di nuovo a Perugia per riprendere la direzione della sua confraternita: i dubbi che si erano creati su di lui erano tutt'altro che dissipati poiché nella sua corrispondenza con la casa madre di Roma, il gesuita Mercuriano ebbe a dire il 10 marzo 1554 che temeva per il destino delle congregazioni di uomini e di donne fondate dal D. (in I. A. de Polanco, IV, p. 154). Recatosi poi a Loreto a predicare la quaresima, cercò di sottomettersi all'obbedienza del gesuita Oliviero Manara, il quale ricevette l'ordine dalla casa madre di non accettare questa sua sottomissione. Verso la fine del 1554 si recò personalmente a Roma per una visita alla Compagnia di Gesù.
Il D. fece stampare in questi anni parecchi libri dedicandoli a prelati, a personaggi altolocati e perfino al pontefice. Sono libretti devozionali o di materia ascetica. Degna di nota è la sua Anatomia dei vizii, uscita a Firenze nel 1550, dedicata a Giulio III, dove, come in altre sue opere, si trovano spietate descrizioni sulla corruttela del clero dell'epoca (cfr. Pastor, p. 232).
Dopo il rifiuto della Compagnia di accettarlo nelle sue file, il D. tornò a Milano nell'agosto del 1555, per chiedere ai barnabiti di riprenderlo nella loro casa. Fu deciso in capitolo che prima dovesse andare a Roma per sbrigare alcune faccende e che solo al suo ritorno si sarebbe potuto concludere qualcosa. Il 15 Ottobre dello stesso anno Basilio Ferrari, amico dei barnabiti, informò da Roma la Congregazione di Milano di aver incontrato il D. verso la fine di luglio e di aver cercato di metterlo in guardia per la cattiva fama che godeva in corte e presso l'alto prelato per i fatti commessi a Novara: gli consigliò di smettere quella sua vita vagabonda (in Premoli, 1912, pp. 185 ss.). Verso la fine dell'estate 1555 il D. venne arrestato e incarcerato dall'Inquisizione. Durante il suo periodo di detenzione, i barnabiti erano tenuti regolarmente al corrente della sua situazione dal loro agente a Roma, Lorenzo Pancaldi, cugino del Davidico. Nel marzo del 1557 fu portato a Ripagrande per essere mandato in galera e incatenato al remo. Fu comunque presto liberato dalle catene e gli fu permesso di predicare in carcere. Rimase in prigione fino al 1559, quando, alla morte di Paolo IV, per sommosse popolari fu incendiato il palazzo dell'Inquisizione e furono liberati i detenuti nelle carceri romane.
Tornato libero, il D. se ne andò prima a Milano, dove ricevette del denaro dai barnabiti, e in seguito a Venezia dove predicò parte della quaresima. Si stabilì poi a Treviso in casa del signor Alvise del Corno fino all'aprile dello stesso anno. Qui sperava potersi occupare nel ministero pastorale sotto la direzione d'un amico, Gian Battista Fontana, ma ne fu impossibilitato da una malattia. Sembrava volesse poi andare in Lombardia e passare da Vicenza a Verona, ma il 22 maggio 1560, mentre aveva già noleggiato un cavallo per il viaggio, cambiò improvvisamente idea e tornò a Treviso, dove arrivò il lunedì della Pentecoste. Mentre si trovava dal suo ospite Alvise del Corno, il D. fu catturato dagli sbirri dell'Inquisizione e incarcerato in una prigione del vescovado. Grazie all'intromissione del del Cornos il carcere gli fu commutato in camera comune: questo diede l'occasione al D. di fuggire la notte seguente. Arrivò a Pavia verso la metà di giugno del 1560, Ospite di certo messer Giacomo, maestro di un suo nipote. Si spostò poi in Valtellina dove arrivò sfinito dalla malattia e dai disagi. Il 30 luglio 1560 a Morbegno, in presenza di molti testimoni, dettò il suo testamento spirituale, dove dichiarava fedeltà alla Chiesa cattolica, attribuendo le sue disgrazie al solo fatto di essersi impegnato a scovare eretici e a dar la caccia agli scostumati.
Riavutosi dalla malattia, ricominciò la sua attività di predicatore in varie città italiane. A Bologna, per difendersi contro eventuali avversari, scrisse un nuovo libro dal titolo Columba animae, che apparve a Milano nel 1562. Quest'opera, dedicata a Pio IV, contiene anche il testamento spirituale scritto a Morbegno. Nel frattempo il D. continuava a mantenere rapporti con la Congregazione dei padri di S. Barnaba a Milano: lo testimoniano le lettere scritte durante questi anni, dove si trova il solito rammarico del D. per aver lasciato la Congregazione. Sembra scrivere volentieri a personaggi illustri tanto che il cugino Pancaldi prega il padre Besozzi di esortare il D. "che si voglia ritirare in luogo remoto a tender a sé stesso e non scrivi ne qua ne là, come egli fa" (cfr. Premoli, 1912, p. 292). t probabile che in questo periodo sia stato anche prosciolto dalla censura poiché nel 1566 volle tornare a Roma e ne informò il cugino Pancaldi. Cwnbiò idea e decise di seguire il consiglio del medico Aloisio Bellecato e di recarsi a bere le acque a Prataglia dove fu ospite al monastero di Praglia di fra' Sempliciano Quadrio, di Ponte Valtellina, che fu teologo al concilio di Trento. Questi fatti furono riferiti dallo stesso D. nella lettera dedicatoria a Nicolò Ajazza (un nobile vercellese da lui conosciuto a Milano), apparsa in un suo trattato sull'educazione dei fanciulli pubblicato a Padova nel 1567.
Dopo la guarigione, fu invitato dal cardinal Guido Ferreri della Mannora, vescovo di Vercelli, ad un sinodo diocesano; qui fu scelto come visitatore delle chiese parrocchiali della città: il suo compito era quello di esaminare e correggere gli amministratori di queste chiese. Decise quindi di fissare la sua residenza a Vercelli dove divenne curato della parrocchia di S. Agnese. Nelle lettere che faceva pervenire alla Congregazione barnabita a Milano si lamentava delle sue difficoltà economiche, aggravate dal fatto di avere due fratelli e una sorella povera a Milano, a suo carico. Nel 1568 scrisse Spassatempo de'gentiluomini, uscito a Vercelli l'anno dopo.
Ebbe l'intenzione di dedicarlo a Carlo Borromeo, ma pensando - così almeno asserisce il D. - che s. Carlo non si curasse per umiltà di simili cose, decise di dedicarlo al conte Tullio Albonese. Sembra invece che sia stato lo stesso Borromeo a rifiutare la dedica (cfr. G. Boffitto, p. 581).
Tra gli anni 1570-72 cercò di convincere i padri barnabiti ad andare a Vercelli e fondarvi una casa. Si adoperò affinché questo progetto andasse a termine, intervenne presso la famiglia Ajazza e presso il cardinal Ferreri per ottenere una dimora per i barnabiti. Propose perfino la propria chiesa e dei soldi alfine di convincerli a venire, ma invano, poiché i barnabiti rifiutarono tutte le proposte del D. e si insediarono solo con la venuta del cardinale Giovanni Francesco Bonomo, che sostituì il Ferreri alla sede vescovile di Vercelli. Nel 1572 il D. pubblicò a Vercelli ancora un opuscolo intitolato Conforto de' tribolati a spirituale utilità di molti ed a gloria dell'altissima Trinità dedicato ad Ippolito Rossi, vescovo di Pavia. L'ultima sua testimonianza fu la lettera scritta il 27 maggio 1574 alla Congregazione barnabita, prima di essere colto da una malattia mortale.
Morì a Vercelli il 29 ag. 1574, assistito da un sacerdote suo amico, Francesco Raspa.
Opere: Anatomia delli vizii, Firenze 1550; La Davidica, dialogo spirituale, Roma 1554; Laberintho di pazzi, Venezia 1555; Columba animae, Milano 1562; De Cellae verae veneris laudibus tractatulus, Padova 1568; Spassatempo de' gentiluomini, Vercelli 1569. La lista completa delle opere del D., ventisette in tutto, più una trentina di titoli di opere supposte, si trova in: G. Boffito, Scrittori barnabiti o della Congregazione dei chierici regolari di S. Paolo (1533-1933), 1, Firenze 1933, pp. 574-85.
Fonti e Bibl.: Per le vicende del D. a Perugia, cfr. in Mon. hist. Societ. Iesu: I. A. de Polanco, Vita Ignatii Loiolae, II,Madrid 1894, p. 441; III, ibid. 1895, pp. 48-51, 166; IV, ibid. 1896, pp. 48, 154; V, ibid. 1897, p. 73; Epistolae mixtae ex variis Europae locis ab anno 1537 ad 1556 scriptae, Madrid 1899, pp. 110, 365, 381 ss., 436 ss., 832 s., 870 ss.; IV, ibid. 1900, p. 145; Ignatii Epistolae, II,Madrid 1900, p. 724; 111, ibid. 1905, pp. 27 s., 34, 5 1, 135 ss., 180, 240; IV, ibid. 1906, pp. 572, 597, 642; V, ibid. 1907, pp. 43, 553; VI, ibid. 1907, pp. 286, 456; VIII, ibid. 1909, pp. 101, 553 s.; A. F. Doni, La libraria, Vinegia 1580, p. 35; A. Rossotto, Sillabus scriptorum Pedemontii seu de scriptoribus Pedemontanis, Monteregali 1658, pp. 393 s.; F. S. Quadrio, Dissertazioni critico-storiche intorno alla Rezia di qua dalle Alpi oggi detta Valtellina, III,Milano 1756, pp. 218 s.; G. B. Castiglioni, Sentimenti di s. Carlo Borromeo intorno agli spettacoli, Bergamo 1759, p. 48; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia 1785, p. 229; O. Derossi, Scrittori Piemontesi, savoiardi, nizzardi. Torino 1790, pp. 82, 178; G. de Gregory, Istoria della lettere arti, II,Torino 1820, pp. 116-19; L. M. Ungarelli, Bibliotheca scriptorum Congregatione cler. reg. S. Paulli, Romae 1836, pp. 503-20; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, I,Torino 1841, pp. 235, 283 (qui citato come poeta); I. Gobio, Vita del Padre Nicolò d'Aviano, Milano 1858, pp. 7 s.; C. Cantù, Gli eretici d'Italia, II, Torino 1866, p. 184; O. Premoli, L. D. (1513-1574), in La Scuola cattolica, XI,1912), pp. 164-87, 282-97; Id., Storia dei barnabiti nel '500. Roma 1913, pp. 40, 87, 115 s., 244, 272 ss., 510, 543; A. Levanti, I mistici, I,Firenze 1925, pp. 266-71; L. von Pastor, Storia dei papi, VI,Roma 1927, pp. 232, 657; P. Tacchi Venturi, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, Roma 1930, I, 1, pp. 59-62, 80, 202, 204, 285 s., 315-19, 332 s., 344 s., 483; E. Cattanco, Istituzioni ecclesiastiche nei Milanesi, in Storia di Milano, IX, Milano 1961, pp. 540 s.; G. Getto, Un aspro denunziatore dei peccati: L. D., in Letteratura relig. dal Due al Novecento, Firenze 1967, pp. 199-206; F. Chabod, Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1971, p. 272; M. Firpo-D. Marcatto, IlPrimo processo inquisitoriale contro il cardinal Giovanni Morone (1552-1553), in Riv. stor. ital., XCIII (1981), pp. 72, 84, 86, 91 s., 98, 101-104, 105, 121, 129; M. Firpo, Ilprocesso inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, I, Il Compendium, Roma 1981, pp. 29 s., 33, 35, 181, 209, 214, 243-46, 354 s., 367-.