COSTA, Lorenzo
Di nobile famiglia spezzina, originaria di Sarzana, nacque a La Spezia il 18 ott. 1798 da Giovanbattista e Angela Picedi dei conti Vezzano.
Il C. trascorse la prima infanzia nella paterna villa di Beverino, ove, per tutta la vita, amerà ritirarsi per il maggior tempo possibile. Venne poi iscritto come interno al collegio di Lucca e in quella città, ancor giovane, si fece conoscere e amare dai più noti cultori di antiche lettere, grazie anche alla benevolenza che si era guadagnato presso Cesare Lucchesini, suo maestro di greco. Il C. interruppe lo studio di questa lingua per poi riprenderlo più avanti sotto la guida di don S. Grosso, che diverrà professore di filosofia greca e latina presso il R. Liceo di Novara, ove il C. gli invierà una di quelle epistole in versi latini difficili e concettosamente serrati, secondo lo stile di Persio, che egli si diletterà di comporre sempre, dedicandole ad amici lontani. Compì così tutto il corso degli studi classici con particolare amore e attenzione appunto per la lingua latina. La cultura dell'antica Roma e in particolare la poesia e l'oratoria ciceroniana attirarono la sua attenzione. Dal padre fu quindi indirizzato agli studi di diritto, che portò avanti all'università di Genova, ove fu collega e amico di Antonio Crocco e Ludovico Casanova, altro latinista appassionato, col quale prese l'abitudine di scambiare esercitazioni e traduzioni in versi e in prosa. Grazie ai beni di casa poté condurre sempre una vita tranquilla e agiata, solo amministrando le sue proprietà e privo dell'obbligo di lavorare.
Di lui anzi, stando a quanto scrive il Neri, era nota la pigrizia: "peccava di poltroneria e usava anche scrivere stando coricato, specialmente allorquando godeva i dolci ozi della sua Beverino". Nonostante questo carattere sappiamo come fosse facile a turbarsi e commuoversi oltre i limiti normali, sì da fare figure ridicole e venire tacciato di egoismo. Incontrollabile era la sua paura in occasione di mal tempo e temporali e nelle sue lettere troviamo frequenti riferimenti metereologici: "Qualche volta Giove non è solo pluvio, ma ventoso e grandinoso più di Saturno, e pur debbo scrivere con questi spiramenti non punto lieti e poetici "(a Emanuele Celesia)"; "Ho incontrato fierissime tempeste per lungo tempo, quasi privo di speranze, né consolato dalle Muse, che me tanto gramo e doloroso fuggirono; ma Dio finalmente mi ridette bonaccia" (a Luigi Fornaciari: cit. da Neri).
Del 1825 è la pubblicazione della prima epistola latina di cui si ha notizia, composta in morte di G. Perticari. Sono gli anni in cui, spesso, a casa sua improvvisava versi latini per gli amici o li stupiva con estemporanee traduzioni di libri aperti a caso; sembra fosse famosa quella delle pagine sul terremoto di Lisbona di G. Baretti. Le capacità e la grande erudizione del C. cominciavano a essere conosciute, grazie anche alla frequentazione del marchese Giancarlo Di Negro nella cui villa convenivano scienziati e politici di principi liberali. Nel 1827 viene così invitato dal Crocco a collaborare all'appena nato Giornale ligustico, ma egli rifiuta, sentendosi in dovere "di confessare essere affatto sprovveduto di quelle cognizioni, che sono necessarie a comporre del proprio o a giudicare delle opere altrui" (cit. in Neri), ma più che di modestia, si trattava di insicurezza e pigrizia. Per l'inaugurazione del nuovo teatro di Genova scrisse e pubblicò nel 1828, con una traduzione dell'amico G. Marrò, un carme in esametri: Genuense Theatrum.
Fin dagli anni dell'università il C. si accese per le idee liberali e il suo sentimento patriottico, che venerà di romanticismo una cultura fondata essenzialmente sui classici, apparirà come costante ispiratore della sua opera, per lungo tempo. Ciò vale anche per la prima parte di un poema di stampo virgiliano, iniziato in latino e mai terminato. In esso tratta di Andrea Doria, mettendone in risalto non le imprese guerresche, ma la sua figura di mecenate e promotore della cultura. Dedicato a Marcello Durazzo, contiene digressioni non sempre felici su realtà del suo tempo e una interessante descrizione degli affreschi di Perin del Vaga nelle stanze e logge di casa Doria, con particolare attenzione al "combattimento dei Campi Flegrei" (per questa notizia, cfr. Crocco e D'Ancona-Bacci).
Questo progetto di affrontare, attraverso la storia antica, i fermenti della moderna non andrà avanti e l'impegno, col maturare degli eventi, diventerà più diretto. Così, accanto alle solite epistole, come quella del 1832 per le nozze del marchese Pallavicini, compaiono i primi versi patriottici: "Gli storici, i poeti, i filosofi spirano dalle loro opere l'unione e l'indipendenza italiana, né io potrei senza biasimo non proferir francamente certi generosi pensieri, che sarebbe viltà passare sotto silenzio" (lettera a A. Crocco). È allora che il C. divenne decurione del municipio di Genova, carica che terrà a' lungo. Studioso di Dante, in cui vedeva il grande e unico maestro, il C. era alla ricerca di glorie cittadine. Dopo aver rivolto un inno in versi sciolti a Nicolò Paganini (edito nel Canzoniere) che resta una delle sue cose migliori, era inevitabile si imbattesse in Cristoforo Colombo, sul quale inizierà un poema, questa volta in lingua italiana. Sembra che l'idea cui dedicherà la vita gli sia venuta nel 1837, sentendo leggere dal Giordani un discorso per l'inaugurazione di un busto in casa Di Negro. Il progetto prevedeva dapprima cinque libri, portati poi a otto, nei dieci anni in cui vi lavorò. La prima edizione del Cristoforo Colombo uscì infatti a Genova nel 1846.
Dopo una invocazione a Dio il poeta accenna alla creazione e storia del mondo sino alla nascita del piccolo Cristoforo, "colomba eletta" a portare la fede nel nuovo mondo, in ciò favorito dai benefici influssi di Venere e di Marte. Seguono i giochi, gli studi, gli amori di questo "portator di Cristo" e il quarto libro è interessante per il quadro che dà della storia italiana del sec. XV. Il viaggio vero e proprio delle tre caravelle costituisce solo una piccola parte nell'economia del poema. Nell'inno di ringraziamento che egli leva dopo aver toccato terra è la profetica visione degli orrori che in quei luoghi avrebbero poi compiuto Pissarro e Cortez. A questo punto la monotona e non sempre felice costruzione si apre alla descrizione dell'amore tra Diego, figlio di Colombo, e Azema, giovanetta vissuta tra i selvaggi e discendente di un Doria, genovese là naufragato anni prima. Il vasto episodio col tragico finale rivela una vena romantica di stampo aleardiano altrimenti sepolta dal forzato riecheggiamenti dei classici, in nome di una serietà e gravità tutte esteriori e legate alla scelta di vocaboli desueti. "Probabili fantasie" chiama il C. questi versi, di cui riconosce l'"intemperanza", ma che giustifica come proprio "divertimento", anche se altrove dimostra d'esservi ben più coinvolto. Tutto il poema è costruito su numerose digressioni, tra le quali, oltre a quelle riguardanti le sorti d'Italia e dei Savoia, è interessante la descrizione, lunga oltre duecento versi, del meccanismo della macchina a vapore, che permetterà ai naviganti di non rimanere più in balia dei venti e delle bonacce. Il ritorno poi di Colombo è tutto incentrato sui festeggiamenti in suo onore, con troppo lunghe narrazioni di carrozze, costumi, luoghi e persino una corrida. Il Colombo avrà una critica raramente comprensiva e tra gli avversari si ricordano il Pellegrini e il Brofferio. Ma il C. l'aveva previsto, se scriveva agli amici: "I classici mi accuseranno di romanticismo, i romantici mi avranno in dispetto siccome classico e io ne avrò la beffa e il danno" (cit. da Neri). Danno anche economico, per essersi "invescato in questa pece dello scrivere e peggio dello stampare", se chiede ai corrispondenti di aiutarlo nelle vendite, per rifarsi degli "ottomila franchi belli e rotondi" spesi. Il successo di pubblico sarà sempre minimo, mentre, se non altro per il soggetto, a più riprese la critica tornò su quelle pagine. Così Carlo Steiner confrontò verità storica e immaginazione poetica del C., mentre Maria Dell'Isola si attenne più al dato letterario, mettendo poi in evidenza, con lunghe dimostrazioni contestuali, come la fonte principale del C. fosse stata A History of the life and voyages of Christopher Columbus di Washington Irving, uscito a Londra nel 1838. Lo stesso abbinamento, con l'aggiunta del nome A. v. Humboldt, si trova in una delle Note azzurre di Carlo Dossi. Solo C. Tenca ricercò radici italiane citando Forleo e Bellini, che trattarono lo stesso tema, ma solo per concludere che il C., pur coi suoi limiti, non aveva nulla da spartire, in quanto a serietà d'intenti, con gli altri due.
Infiammato per gli ideali risorgimentali, già nel 1839 il C. scriveva a proposito di Felice Romani: "Ebbro di santo ardor, sferza, saetta /de' tuoi fratelli l'assonnata mente,/ e intona il canto che l'Italia aspetta" (ed. nel Canzoniere). Famosi divennero poi i suoi versi dedicati a re Carlo Alberto nel 1846 ("O eccelso re, ti piaccia / non dubitoso omai/ udir la voce di cotanti oppressi") in cui lo invitava a confidare negli Italiani "emancipati a guerra". Più tardi scriverà, secondo moduli manzoniani, un canto per gli insorti pontremolesi. Siamo nel 1848 e già l'anno prima il C. era sceso in piazza l'8 settembre, ma poi, colto dalle sue solite paure, era ritornato veloce a casa. Nonostante questo, racconta il Neri, siccome era stato visto far chiasso contro i gesuiti, fu ritenuto uno dei capi. Ammonito, fu costretto a invitare alla calma, nella farmacia Marenco, molti studenti che lì abitualmente si ritrovavano.
Forse anche in quell'incidente va ricercata una veloce conversione ideologica che gli procurerà tanti attacchi e inimicizie. Quando nel 1856 vedrà la luce uno dei suoi canti più famosi, intitolato Libertà, in cui Mazzini era chiamato Mefistofele, Terenzo Mamiani scrisse (premettendo che "versi di più perfetta bellezza non si scrivono oggi in Itala"): "Speriamo che...., ora che ha lamentato le colpe della libertà, vorrà cantare le vittorie della libertà" (cfr. Dizionario del Risorg.). Cui il C. risponderà, come si legge nella prefazione uscita postuma al suo Canzoniere, edito per interessamento del cardinale Gaetano Alimonda nel 1892, di non avercela con la libertà, "quanto con gli archimandriti che molto la travisarono. I quali, benché divisi in due campi, di moderati e di immoderati, paion fratelli germani, e lavorano a un intento, i primi con le astuzie dei giacobini, i secondi con la rabbia e col ferro, degli omicidi". Posizioni dure, ma di cui è rivelatoria una frase precedente: "Poi sopraggiunsero i disinganni ed io mi son sdegnato alla guisa di chi, aspettando corrispondenza, trovi la infedeltà d'un'amica"; frase di un deluso dalla poesia, per l'insuccesso del Colombo e di un deluso dalla vita. Proprio in quegli anni gli morì la moglie Francesca e subito dopo il giovane figlio Giovanbattista. È in questa situazione che egli perse anche la cattedra di eloquenza all'università di Genova, per lui creata con decreto regio, ma poi ottenuta dallo Spotorno. Secondo altre fonti egli, intimorito dalle responsabilità, rifiutò invece all'ultimo momento l'incarico. I versi che scriverà ad Andrea Maffei in occasione della morte del Di Negro, mostrano il suo stato d'animo avvilito e privo di speranza.
Resta da citare un'ultima cosa, il Cosmos, poema ricalcato su quello omonimo dello Humboldt a carattere geografico-scientifico. Sembra che il C. ne avesse scritti trentadue canti, andati poi bruciati inavvertitamente con altre carte. Se ne salvarono solo sei, quelli dati alle stampe nel '46 e ispirati a questo pensiero: "Non voglio secondare gli andazzi del secolo; molti pensano alle poesie popolari e plebee, che gran male s'io penso all'aristocratica?".
Il C. morì a Genova il 16 luglio 1861 e sulla sua tomba nel cimitero di Staglieno venne posto un monumento di C. Rubatto, con epigrafe latina del canonico L. Grassi, lo stesso che aveva firmato l'introduzione ai sei canti del Cosmos. Restano inedite, secondo il Crocco, molte sue prose d'occasione e una curiosa Storia del riso, oltre a varie epistole in latino e a un discorso assai significativo Sul decadimento morale del secolo in relazione al progredire delle scienze fisiche e delle industrie. I suoi ultimi versi, riuniti poi nel Canzoniere, sono principalmente di argomento religioso, come l'Inno alla vergine immacolata, scritto dopo la proclamazione del dogma nel 1954, 0 politico, come l'Elegia per la morte di Cavour, in cui lo statista viene criticato per la sua politica estera basata sugli eventi bellici.
Tra le sue opere edite ricordiamo: Genuense Theatrum, con traduz. italiana di G. Marrò, Genova 1828; Al marchese Niccolò Ignazio Pallavicini, in occasione delle sue nozze, Genova 1832; Cristoforo Colombo, Genova 1846 e, "rivisto dall'autore", Torino 1858; Cosmos (i primi sei canti), Genova 1846; Per la solenne inauguraz. del Collegio di. Brignole, Genova 1855; Canzone al cav. Andrea Maffei (per la solenne dedicazione del monum. a G. C. Negro nella Biblioteca Civica Berlo), Genova 1857; Laurentii Costae epistola ad Didicum Vitriolium V.C., con trad. in versi italiani di F. Poggio, Genova 1856; Laurentii Costae epistola (a T. Vallauri), con traduzione italiana di A. Drago, Genova 1860; Canzone per un monum. a Napoleone a Marengo, Sarzana 1876; Canzoniere, Genova 1892; Tre lettere a S. Grosso (edite per nozze Soresi-Corradi), Novara 1927.
Fonti e Bibl.: Ed. naz. degli scritti di G. Mazzini, Epistolario, XVIII, p. 5;Z. Bicchierai, Antologia poetica, Firenze 1855, p. 21; S. Pellico, Lettere ined. a G. C. Parolari, Venezia 1865; A. Crocco, Della vita e degli scritti di L. C., in Rivista universale, IV (18681, pp. 513-21; N. Tommaseo, Diz. estetico, Firenze 1869, pp. 350 s.; A. Neri, L.C.: aneddoti, lettere, poesie, in La Rass. Naz., 1ºapr. 1884, pp. 3-25; C. Steiner, Cristoforo Colombo nella poesia epica ital., Voghera 1891, pp. 104-19, 120 s.; P. Carboni, Cristoforo Colombo nel teatro, Milano 1892, p. 87; G. Alimonda, Un poeta genovese, nel Canzoniere del C., Genova 1892, pp. 5-13; L. D'Isengard, Una letteraria esumazione, in La Rass. Naz., 1º ag. 1894, pp. 407-18; A . G. Barilli, Sorrisi di gioventù, Milano 1899, pp. 114-17; A. Latino, Di un poeta ligure, Genova 1899; A. D'Ancona-O. Bacci, Manuale della letter. ital., V, Firenze 1906, pp. 232 ss.; L. D'Isengard, Pagine vissute e cose letterarie, Città di Castello 1907, pp. 71-78; G. Mazzoni, L'Ottocento, I, Milano 1913, pp. 379-81; M. Dell'Isola, Napoléon dans la poésie italienne à partir de 1821, Paris 1927, pp. 123-27; Id., L. C. et son poème "Cristoforo Colombo", in Etudes italiennes, aprile-giugno 1933, pp. 114-25; luglio-settembre 1933, pp. 220-40; B. Janni, I poeti minori dell'Ottocento, I, Milano 1955, pp. 171 ss., 438 s.; C. Dossi, Note azzurre, I, Milano 1964, p. 365; C. Tenca, Saggi critici, Firenze 1969, pp. 225 s., 331 s.; Diz. del Risorg. naz., II, p. 766.