CONTARINI, Lorenzo
Nacque a Venezia il 25 maggio 1515 da Maddaleno (in altre fonti, Natalino) del ramo di S. Silvestro e da Lucrezia da Molin. Apparteneva a famiglia di rango senatorio, ma non tra le maggiori del patriziato veneziano, ed una sua sorella, Cecilia, sposò Sebastiano Venier, destinato a comandare la flotta veneziana a Lepanto e ad ascendere al trono ducale. Il padre morì nel dicembre del 1532 mentre era console in Alessandria. ma il C. continuò egualmente gli studi umanistici, divenendo dotto nelle lingue greca e latina.
Secondo i biografi scrisse diverse opere, tra le quali "certe annotazioni sopra le questioni platoniche di Plutarco", che non è stato possibile rintracciare, e sì possono forse considerare perdute. Nel C. deve invece essere identificato quel Lorenzo Contarini, cavaliere, autore di una lunga epistola suasoria in latino, indirizzata a Giovanni Giustiniani il 18 sett. 1552. Della stima di cui godeva nei circoli colti della classe dirigente veneziana è testimonianza il compito affidatogli di pronunciare l'orazione funebre in onore di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino, capitano generale della Repubblica, il 6 nov. 1538.
Come molti giovani delle principali famiglie patrizie, trascurando i minori uffici delle corti di palazzo e delle magistrature giudiziarie, cominciò il cursus honorum facendosi eleggere savio agli Ordini nel 1538 e 1539, carica che tornò a coprire nel 1545. Nel 1540 fu inviato sindaco e avogadore nel Levante. Attraverso questo tirocinio negli studi e nel governo della Repubblica, il C. si preparava agli uffici più onorevoli e impegnativi, ai quali ascese con la nomina ad ambasciatore presso Ferdinando d'Asburgo re dei Romani (17 giugno 1545). La sua "commissione" fu però approvata dal Senato soltanto il 3 novembre, e la partenza ritardata sino alla primavera del 1546. Il nuovo ambasciatore giunse agli inizi di giugno a Ratisbona, dove si trovava Ferdinando, per partecipare alla Dieta imperiale, rimpiazzando il predecessore Domenico Morosini.
Testimone e partecipe d'una delle fasi più dranunatiche e decisive della storia tedesca, il C. visse la sua prima esperienza diplomatica seguendo il re dei Romani alla corte e al campo imperiale, prima appunto alla Dieta di Ratisbona, poi nella guerra contro la lega di Smaicalda, e infine alla Dieta di Augusta. Le circostanze quindi lo condussero a operare spesso e nei momenti più importanti congiuntamente con l'ambasciatore veneto presso Carlo V, Alvise Mocenigo, uno dei maggiori diplomatici e futuro doge della Serenissima, al quale l'univa una straordinaria concordanza d'idee e di vedute politiche, che si coglie non soltanto nei num si dispacci al Senato sottoscritti insieme da ambedue gli oratori, ma anche nelle due relazioni, che sono tra le più importanti, circostanziate e lucide riguardanti la Germania.
L'elogio caloroso che il Mocenigo dedica nella sua relazione al collega, che lo stava ascoltando dai banchi del Senato, supera le forme rituali: "gentil'homo raro, et di qualità, che in ogni loco, dove si attroverà, farà sempre grande honore alla Serenità Vostra. Sua Magnificentia è humana, benigna, affabile, destra et prudente, è accorta et di un bel spirito, negocia le cose publice, intratien ben ogn'uno, che si attrova seco, è splendido et liberale, et in fine ha tutte quelle parti, che Vostra Serenità po desiderar in un par suo, tanto che io le affirmo, che come ogn'uno in quelle corti l'amava, così si è doluto assai della partita sua".
L'ideale della libertà repubblicana, che ispira il pensiero e l'azione del C., si salda con la difesa dellintegrità dello Stato, minacciata dall'egenionia asburgica, che stringeva d'assedio la Repubblica.
Nonostante le "dimostrazioni di amore" con cui Ferdinando d'Asburgo e i dignitari della sua corte dissimulavano il proprio animo - afferma il C. con espressioni che riecheggiano con singolare parallelismo i concetti manifestati dall'amico Mocenigo nella sua relazione di Germania - ci si poteva aspettare "discordia e guerra" piuttosto che concordia e pace. E questo procede C. da due cause generali e da due particolari. Le due generali credo che siano, l'una che i principi naturalmente odiano le repubbliche ...; l'altra è l'essere confinante, onde nascono delle inconfidenze, come è consueto, le quali trovando l'animo del principe inclinato per natura a portare odio alle repubbliche, l'accrescono ogni volta maggiormente: né a queste due parmi che si possa rimediare. Le due particolari credo che siano, l'una de' ministri di sua maestà, i quali sono tedeschi o spagnuoli; el'una e l'altra di que i ste nazioni odia la nazione italiana, e fra questa la serenità vostra maggiormente... Ma vi è un'altra sorta di servitori e cortigiani del re, quali sono mezzo tedeschi e mezzo italiani, i quali sono peggiori degli altri". E nel palese intento d'incitare il Senato ad una politica estera attiva ed energica in senso antiasburgico, concludeva la sua relazione sottolineando le difficoltà interne e internazionali dell'imperatore e del re dei Romani, dalle quali la Repubblica poteva trarre speranza di uscire con successo da un confronto diretto.
L'orientamento antiasburgico e filofrancese del C. si era manifestato anche nel corso della sua missione diplomatica. "Non voglio lasciar di dire - scriveva il 2 giugno 1548 al cardinale Farnese il cardinale Sfondrato, nunzio in Germania - che messer Lorenzo Contarino, il quale era a questi giorni passati ambasciator qui al re et è homo di valore, non si poteva dar pace, che la sua Signoria di Venetia non facesse liga con Sua Santità et con il re di Franza, parendoli che questo sia necessario per conservation loro". E confidava che l'autorità del C. e del Mocenigo, ormai ritornati in patria, valesse ad orientare in questa direzione il Senato.
Ma la coscienza della debolezza militare e finanziaria e della condizione d'accerchiamento, che già nel passato - come gli stessi ambasciatori avevano confidato al nunzio - avevano paralizzato la Repubblica sulla linea della neutralità, non consentiva molto spazio di manovra all'animo risoluto del C., il quale del resto, ritornato a Venezia dopo essere stato sostituito nel marzo del 1548 da Francesco Badoer, venne presto eletto, il 16 luglio, ambasciatore in Francia. Soltanto nel marzo o aprile del 1549 egli raggiunse la nuova sede diplomatica: infatti l'ultimo dispaccio conservato dei predecessore Francesco Giustiniani reca la data del 22 marzo, mentre la "commissione" fu approvata dal Senato il 25 apr. 1549; e nella relazione, scritta alla fine del 1551, il C. afferma d'aver coperto la carica per trentadue mesi.
Alla corte di Francia l'ambasciatore doveva muoversi certo più a suo agio, potendo far coincidere i suoi personali orientamenti politici col compito naturale d'ogni ambasciatore di favorire i buoni rapporti col principe presso cui cm accreditato. La sua relazione di Francia (i dispacci sono andati perduti), acuta e originale anche se meno ampia e analitica rispetto a quella di Germania, rispecchia una disposizione favorevole verso quel principe e la sua corte, se gli accenti di aperta diffidenza e vera e propria ostilità che si colgono in quella precedente. Palese è l'auspicio che Enrico II e il papa trovassero un accordo per porre fine alla guerra di Parma (ancora in corso quando componeva la relazione): "il che piaccia a Dio che segua, acciocché oltra lo stato della Chiesa, non si corra rischio di perder anco la reputazione di quel grado, che ha pur per spazio di tanti anni onorato la nostra Italia". Tanto più che il C. giudicava inevitabile la ripresa del conflitto tra Francia e Impero, particolarmente in Italia. In questa prospettiva, come sappiamo, caldeggiava di schierarsi dalla parte della Francia, non perdendo occasione per sottolineare il "buonissimo animo" verso la Repubblica del re cristianissimo, il quale teneva "per fermo che in un bisogno non mancherebbe di favorirla ed aiutarla con gli effetti". E ciò non soltanto per calcolo politico, ma pure, lascia intendere il C., "per vero amore". Nel caso di una alleanza per l'impresa di Napoli e di Milano, il re di Francia sarebbe stato anche disposto ad accordarc compensi territoriali, specie di "riacquistare qualche loco del papa" (con evidente allusione alla Romagna); ma si sarebbe accontentato pure della semplice neutralità veneziana.
Questa netta propensione per l'alleanza con la Francia, che egli enunciava in aperta polemica verso l'orientamento neutralistico se non addirittura filoasburgico del gruppo dirigente dei patriziato veneziano, non procedeva naturalmente da un sentimento di simpatia per la Francia, quanto piuttosto dalla volontà di contrastare l'egemonia imperiale, che minacciava di soffocare la Repubblica, e persino da una non celata speranza di poter ancora conseguire vantaggi territoriali. Questa tendenza si traduceva nella proposta d'una politica attiva di presenza e d'iniziativa nei rapporti internazionali, sino all'intervento militare.
Così la relazione, dopo aver tracciato una ampia analisi della situazione politica, tutta tesa a dimostrare la previsione per l'anno venturo d'una inevitabile ripresa in Italia del conflitto franco-imperiale, per la quale i contendenti andavano apprestando gli uomini e i mezzi necessari, concludeva con una esplicita perorazione rivolta ai senatori, con accenti che si direbbero di sapore machiavelliano: "e così voglio creder che fiacciano le Eccellenze Vostre per poter in ogni occasione fondarsi non tanto sopra gli amici quanto sopra le forze proprie, sì come è stato osservato per il passato, e ben si conviene a tanto Dominio, che è stato sempre stimato grande da sé. E questo spero che sarà giudicato da Vostra Serenità il vero modo di proceder più onorato e più sicuro, perocché finalmcnte ognuno fa per sé; e se ben l'animo del re verso questa Repubblica è buonissimo, come ho dimostrato, pure quando i francesi fossero vicini ai luoghi nostri, e con lo stato di Milano in mano, conoscendosi superiori a questo Dominio, quando non fosse gagliardo da sé, sariano ancora insolenti la parte loro. Ma quando questa eccellentissima Repubblica sarà, come può esser al mio parere, da sé gagliarda e potente, cioè con danari in mano e vettovaglie e soldati, gli amici suoi si confermeranno tanto più in amarla ed i nemici in estimarla; ... e questa eccellentissima Repubblica, che vive sempre morendo gli altri principi, potrà sperar in questo modo e in tale occasione, non solo difesa ma accrescimento di stato in cambio almeno di molte perdite e danni patiti da lei pochi anni addietro".
Ritornato a Venezia nell'autunno del 1551, dopo l'arrivo in Francia del successore Giovanni Cappello, il C. fu eletto avogadore di Comun, e mentre esercitava tale magistratura morì, probabilmente a Venezia, l'8 nov. 1552. Era stato ordinato cavaliere da Ferdinando re dei Romani al termine della sua missione presso quel principe.
Fonti e Bibl.: Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, cc. 173v-174r; Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori del patritii veneti, II, p. 441; Ibid., Avogaria di Comun, reg. 51 (Nascite di Patrizi, I), c. 61v; Ibid., Senato, Dispacci di ambasciatori, Germania, filza 1/4 (1a dell'arch. di Vienna), f. 4; Ibid., Arch. proprio Germania, 2, ff. 31-65, 240-259; 3, ff. 1-4, 72-119. I dispacci sono parzialmente editi in: Venetianische Depeschen vom Kaiserhofe, I-II, Wien 1889-92, ad Indicem; Relaz. di L.C. ritornato ambasciatore da Ferdinando re de' Romani l'anno 1548, in Relaz. degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 1, I, Firenze 1839, pp. 369-469; Relazione di Francia, ibid. IV, ibid. 1860, pp. 57-102; Relaz. degli ambasciatori veneti al Senato..., a cura di L. Firpo, II, Torino 1970, p. XXII; V, ibid. 1978, pp. IX-X. La relazione di Alvise Mocenigo è in Relationen venerian. Botschafter über Deutschland und Österreich im sechzehnten Jahrhundert, a cura di J. Fiedier, Wien 1870, particolarmente p. 173; Nuntiaturberichte aus Deutschiand nebst erganzen den Akenstücken, sez. I (1593-1559), X, Legation des Kardinals Sfondrato 1547-1545, a cura di W. Friedensburg, Berlin 1907, pp. 352, 396-397. La lettera suasoria al Giustiniani in loannis Iustiniani Cretensis Epistolae familiares, scholasticae sive morales, declamatoriae, per Ioannem Oporinum, Basileae 1554, pp. 143-159.