BRAGADIN, Lorenzo
Nato nel 1474 da Francesco di Giacomo e da Marina Foscari, nipote del doge Francesco Foscari, apparteneva a famiglia assai influente del patriziato veneziano, ricca di possessi fondiari (sappiamo in particolare che aveva beni nella zona di Battaglia, dove nel 1525 veniva anche fondata un'officina per brunire le armi) e attiva nella mercatura.
Prima che gli impegni della vita pubblica finissero per assorbirlo interamente, il B. si era dedicato agli studi filosofici, coltivando pure il greco e il latino. Nel 1498 concorse alla cattedra di filosofia, logica e teologia alla Scuola di Rialto in Venezia, che venne però assegnata ad Antonio Giustinian. Quando questi fu nominato ambasciatore, per sua stessa proposta il 10 febbr. 1502 il Collegio incaricò il B. di surrogarlo durante l'assenza. Rimasta infine vacante la medesima cattedra nel 1505, il B. vi concorse di nuovo, ma il Senato gli preferì Sebastiano Giustinian e poi, avendo questi rifiutato, Sebastiano Foscarini. Il B. tuttavia dovette continuare il suo insegnamento ancora per qualche anno, se il Sanuto, nominandolo tra gli intervenuti a pubbliche "conclusioni" e tra i candidati in diversi balIottaggi, non manca mai di annotare fino al 1509: "che leze in philosophia".
Il più illustre dei suoi allievi fu senza dubbio Gasparo Contarini, che ebbe poi spesso collega nei consigli di governo e nel magistrato dei riformatori dello Studio di Padova (sostenuto nel 1528, 1530 e 1532) e che più tardi, divenuto cardinale, fu suo efficace collaboratore ed intermediario presso il pontefice, quando il B. andò ambasciatore della Repubblica a Roma. Anche in mezzo agli affari politici i comuni interessi culturali dovevano ravvivare i rapporti tra i due patrizi, benché diverso ne fosse l'orientamento filosofico, come risulta da una inedita lettera del B. a Benedetto Ramberti - dotto epigrafista, bibliotecario della libreria di S. Marco e membro dell'Accademia aldina - non datata ma certo scritta negli ultimi anni della sua vita, che lo mostra impegnato a persuadere il giovane Daniele Barbaro a proseguire in quegli studi aristotelici, da cui il Contarini cercava di distoglierlo. E tuttavia, se la propria formazione intellettuale gli impediva di seguire i nuovi indirizzi della generazione più giovane, restava forse una affinità di preoccupazioni spirituali con quanti si facevano allora promotori di quella riforma cattolica, della quale il B. durante l'ambasciata romana seguirà i primi passi con attenta sensibilità. Non pare dunque senza significato che proprio il B. e il Contarini accogliessero insieme a Venezia Gian Matteo Giberti, che, lasciata la Curia pontificia dopo il sacco di Roma, approdava alle rive della laguna nel gennaio 1528 rientrando nella sua sede episcopale di Verona. Questi tratti della sua personalità non furono probabilmente estranei all'origine della voce - peraltro infondata - sparsasi a Venezia nell'ottobre 1524, che attribuiva al B. l'intenzione di porre la propria candidatura al patriarcato.
La carriera politica, cui il B. si volse in età matura, mirando subito agli uffici più elevati, spettanti al rango della famiglia e alle sue doti personali, doveva procurargli inizialmente diverse delusioni. Dopo essere stato provveditore sopra i Dieci Offici, e nel 1512 provveditore di Comun, negli anni successivi rimase soccombente in numerosi ballottaggi per i consigli e le ambascerie della Repubblica. Nel 1518 doveva accontentarsi dell'ufficio di savio sopra le Decime, e soltanto nel maggio 1520 diveniva avogadore di Comun, la sua prima magistratura importante (era però da qualche anno membro del Senato), in cui si distinse per l'energia con cui imponeva la rigida applicazione delle leggi, anche contro le indebite ingerenze del doge e degli altri consigli.
Ancor più notevole la sua ferma difesa della giurisdizione statale contro l'abuso del privilegio ecclesiastico, che lo indusse a denunciare aspramente il malcostume di conferire gli ordini sacri a rei di delitti comuni, spesso ricorrendo a bolle false, per sottrarli al giudizio dei tribunali laici; e non è forse semplice coincidenza che dai colloqui tra Clemente VII e la delegazione veneta al convegno di Bologna del 1530, di cui il B. era membro, uscisse una bolla pontificia che escludeva dal privilegio del foro ecclesiastico gli Ordini minori.
Nel giugno 1521 fu eletto oratore in Francia, ma rinunciò. Nominato nel maggio 1521 capitano di Brescia, raggiunse la città dopo alcuni mesi (certo avanti il 1º ottobre). Venezia era allora impegnata nella guerra in Lombardia, prima alleata dei Francesi, poi, dopo il luglio 1523, al fianco di Carlo V, e, benché non fosse certo l'uomo più adatto a reggere una provincia in simili frangenti, il B. dovette cavarsela senza infamia, se nel febbraio 1524 ad alcuni del Collegio veniva in mente di proporlo per la nomina a provveditore in campo nel Bresciano, proposito troncato sul nascere da un'ironica esclamazione del procuratore Giorgio Corner: "Volemo far proveditor el Bragadin, non sa cavalcar?". Tornato a Venezia nell'aprile 1524, fece al Collegio una "bella relation et copiosa", esibendo anche il modello delle opere fortificate e delle mura del castello, di cui aveva intrapreso la ricostruzione affidandone la direzione all'architetto Agostino Castelli. Dopo aver rifiutato nel marzo 1525 l'incarico di oratore in Inghilterra, nel luglio successivo entrò per la prima volta nel Consiglio dei dieci, e nel marzo 1526 rinunciò alla carica di savio di Terraferma probabilmente per concorrere a quella di oratore presso Carlo V, cui fu eletto nell'aprile successivo, assieme ad Antonio Surian.
Due mesi dopo il B. si diede molto da fare per essere invece nominato ambasciatore in Francia, riuscendovi eletto il 14 giugno con Sebastiano Giustinian, benché - "a la barba di Avogadori che soporta tal cosse", notava il Sanuto - le leggi non gli consentissero neppure di entrare in ballottaggio, essendo già designato ad altra ambasciata. Si trattava di una solenne missione straordinaria che, portando a Francesco I i rallegramenti della Repubblica per la liberazione dalla prigionia e per la recente stipulazione della lega di Cognac, mirava a rinsaldare la rinnovata alleanza franco-veneta e a sollecitare l'ingresso dell'Inghilterra nella coalizione. Dopo un mese il B. sarebbe dovuto ripartire, mentre il Giustinian sarebbe rimasto ambasciatore ordinario a Parigi.
I due oratori, accompagnati dal segretario Girolamo da Canal, partirono da Venezia il 16 luglio, e da Bergamo, evitata la Val Camonica dove serpeggiava la peste, per la Val Brembana raggiunsero Morbegno, proponendosi di proseguire il viaggio per la via dei Grigioni; il 1º agosto, mentre attraversavano il lago di Como, furono catturati da alcune barche armate di Gian Giacomo Medici, castellano di Musso, che li prese in ostaggio per forzare i Veneziani a pagargli una grossa somma di denaro di cui senza fondamento si vantava creditore. Vivo fu lo sdegno a Venezia e tra gli alleati, che già avevano dovuto sperimentare la "mala natura" - per dirla col Guicciardini - di quel tristo avventuriero, che, pur dichiarandosi "bon italian" e fautore della lega, forte della sua posizione strategica, chiave di volta delle comunicazioni tra la Lombardia e i Grigioni, continuava a ricattare i collegati con la minaccia di passare nel campo imperiale.
Lo stesso provveditore veneto in campo, d'accordo col Guicciardini, scriveva al suo governo che gli pareva "si habbi rispecto, però che accordandosi con inimici potria dar il passo" ai lanzichenecchi. Per tre mesi e mezzo i due malcapitati oratori rimasero in balia del Medici che continuava ad alzare il prezzo del riscatto minacciando di consegnarli al duca di Borbone o all'arciduca, e di impadronirsi degli argenti che portavano con sé, "con altre parole molto crudel". Finalmente il 12 novembre il signore di Musso fu soddisfatto con 5.000 ducati più altri 1.500 per la paga di 400 fanti, e i due oratori liberati giungevano il 16 novembre a Bergamo, da dove il B., malato ad una gamba e febbricitante, mentre il Giustinian riprendeva il viaggio verso la Francia, ritornava a il 7 genn. 1527.
Per quasi due anni, forse a causa della salute malferma, il B. restò in disparte dai consigli di governo, e solo nel novembre 1528 rientrò nel Consiglio dei dieci, riuscendo poi eletto consigliere ducale nel settembre 1529. Poco dopo ebbe occasione di primeggiare in quel grande avvenimento politico e mondano che fu per la nobiltà italiana il convegno di Bologna, cui i patrizi veneti concorsero numerosissimi. La parte affidata alla solenne ambasceria di quattro oratori era di pura parata, ché il negoziato politico vero e proprio era già stato concluso per parte veneziana da Gasparo Contarini ed Antonio Surian, ma in questo ruolo, forse quello in cui si muoveva con maggiore agio, il B. potè cogliere un indubbio successo personale, pronunciando nella solenne udienza pontificia del 26 genn. 1530 una elegante orazione latina, con "optima pronuntiatione et voce bonissima", meglio di quanto sperassero i suoi concittadini, che sapevano non aver egli "troppa voce". Toccò a lui e al Surian di reggere il baldacchino del papa, assieme agli ambasciatori delle altre potenze, nella cerimonia dell'incoronazione imperiale. E fu il B., come il più autorevole dei quattro, a fare in Senato la relazione "longa et copiosa".
Forte del successo conseguito a Bologna, il B. avrebbe potuto ritentare con fortuna la via della diplomazia, ma egli era evidentemente di diverso avviso se nel luglio 1530 fece tutto il possibile, fino, a forzare scorrettamente le leggi, per evitare una sua elezione ad oratore in Francia. Tuttavia, mentre il suo prestigio culturale ed il suo rango sociale inducevano la Repubblica ad impiegarlo volentieri in funzioni di rappresentanza, della sua presenza nei consigli di governo si poteva e talvolta si voleva fare a meno, come dimostra il fatto che il 15 sett. 1530 la maggioranza del Senato eleggeva a savio del Consiglio un patrizio di cui era sicura la rinuncia, al solo scopo di evitare l'elezione del B., che godeva invece dell'appoggio di tutti i membri della Quarantia, appartenenti alla nobiltà media. Tuttavia, uscito dall'ufficio di consigliere, ritornò nel Consiglio dei dieci, assumendo contemporaneamente - non si sa con quanta competenza - anche la sovraintendenza delle artiglierie. Poi, dopo il settembre 1531, per un anno restò fuori dal governo, benché avesse fatto "gran procura" per riuscire savio del Consiglio. Dovette accontentarsi nel giugno 1532 dell'ufficio di provveditore sopra i Monti (cioè al debito pubblico), che tenne ancora un paio d'anni occupandosi attivamente di problemi finanziari. Dall'ottobre 1532 fu ancora dei Dieci e sopra le Artiglierie.
Il 9 ottobre di quell'anno fu eletto tra i quattro oratori straordinari incaricati di accogliere e accompagnare Carlo V nel suo passaggio per la Terraferma veneta. Incontrato l'imperatore il 25 ottobre presso Spilimbergo, gli ambasciatori lo accompagnarono lungo l'itinerario per Conegliano, Montebelluna, Bassano e Isola della Scala, dove si congedarono da lui il 5 novembre. L'ambasceria adempiva sostanzialmente ad un compito di cerimonia e di cortesia, pure l'incontro dette l'occasione per sollecitare permessi di esportazione di frumenti e salnitri dalla Puglia e un salvacondotto per poter navigare con le galee di Barberia. Qualche cenno corse anche sul nuovo convegno progettato a Bologna, nell'ambito d'un intreccio diplomatico che tra l'altro mirava a coinvolgere la Repubblica di Venezia.
Consigliere ducale nel febbraio 1533 e savio del Consiglio nel seguente anno, finalmente il Senato lo scelse per successore di Antonio Surian oratore presso il pontefice. Dal 21 ott. 1535, data del suo arrivo a Roma, al 27 genn. 1537, giorno in cui giunse a surrogarlo Marcantonio Contarini, il B. svolse con efficacia la sua missione, resa più agevole dalla stretta neutralità, osservata allora dalla Repubblica di fronte al rinnovato conflitto franco-imperiale, che trovava il consenso di Paolo III.
La fitta ed ampia corrispondenza del B., fonte preziosa per la conoscenza delle cruciali vicende politiche e religiose del periodo - dalla questione del concilio ai rapporti con Carlo V e Francesco I, dalla minaccia turca al problema di Camerino -, riflette peraltro con chiarezza l'incipiente declino internazionale di Venezia, i cui ambasciatori si troveranno sempre più spesso ridotti al ruolo di acuti e informatissimi osservatori, al margine delle più importanti trattative diplomatiche. Nei rapporti con la S. Sede emergono durante la residenza del B. le consuete questioni giurisdizionali, in particolare per un sussidio straordinario che Venezia voleva imporre al clero con l'autorizzazione - e se necessario senza - del pontefice, per finanziare i preparativi militari contro la minaccia, ottomana che andava nuovamente addensandosi sui possedimenti veneti in Dalmazia e in Levante.
Tornato a Venezia, il B. fu ancora consigliere e poi savio del Consiglio, finché si spense il 23 ag. 1538, lasciando nel testamento unico erede il figlio Andrea. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di S. Croce alla Giudecca, nell'arca di famiglia.
Fonti eBibl.: Venezia, Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, p. 109; Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 160; Ibid., Avogaria di comun, reg. 164 (Balla d'oro, III), c. 28v; Ibid., Sez. notarile,Testamenti Marsilio, busta 1210, n. 666. Benché alcuni eruditi accennino a suoi "vari scritti di logica e di filosofia", nessun dato certo si è potuto reperire in proposito. Risale a F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1663 (prima ed. 1581), p. 589, la notizia poi ripetuta che gli attribuisce un libro De virtute acquirenda, che però nessuno studioso poté mai trovare. La sua orazione a Clemente VII è nel cod. Vat. lat. 5223, ff. 137 s., della Biblioteca Apostolica Vaticana; la lettera cit. al Ramberti, autografa, è nella Biblioteca del Seminario di Padova, ms. 71, c. 158. Per la sua figura di studioso e per l'insegnamento a Rialto, cfr. A. Superbi, Trionfo glorioso d'heroi illustri et eminenti... di Venetia, Venezia 1629, III, pp. 56 s.; G. Degli Agostini, Notizie istorico critiche degli scrittori veneziani, I, Venezia 1752, p. XLVIII; II, ibid. 1754, pp. 305, 544; Giornale de' letterati d'Italia (Venezia), V (1711), pp. 364 s.; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 4, Brescia 1763, pp. 1969 s.; B. Nardi, Letter. e cultura venez. del Quattrocento, in La civiltà venez. del Quattrocento, Firenze 1957, pp. 114, 141 n. 44; Id., Saggi sull'aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958, pp. 168, 289; Id., La scuola di Rialto e l'umanesimo venez., in Umanesimo europeo e umanesimo venez., Venezia-Firenze 1963, pp. 116 s., 128, 136; M. E. Cosenza, Biographical and bibliographical dictionary of the Italian humanists..., Boston 1962, I, p. 701; V, n. 334a, 335; P. O. Kristeller, Iter Italicum, II, pp. 8, 373. La testimonianza di L. Beccadelli (Vita del cardinale Gasparo Contarini, Brescia 1746, p. 3), ripresa dagli altri biografi del prelato veneziano, secondo cui il Contarini era stato allievo del B., è ora messa in dubbio da G. Fragnito, Cultura umanistica e riforma religiosa: il "De officio boni viri ac probi episcopi" di Gasparo Contarini, in Studi venez., XI (1969), pp. 82 s. n. 30. La posizione dei riformatori dello Studio di Padova (tra i quali era allora il B.), avversa alla condotta dell'Alciato nello Studio patavino, è aspramente criticata dal Bembo in una lettera a G. B. Ramusio del 7 luglio 1532 (Opere, a cura di Hertzhauser, III, Venezia 1729, pp. 497 s.). Sul politico la fonte principale è costituita da M. Sanuto, Diari, Venezia 1879-1903, IV, VI, VII, IX, XVI-XVIII, XXI-XXXI, XXXIII-XLIII, XLV-LVIII, ad Indices;cfr. anche Calendar of State Papers and Manuscripts relating to English Affairs existing in the Archives and Collections of Venice..., a cura di R. Brown, III, London 1869, nn. 28, 578, 949 s., 954, 1353, 1539; IV, ibid. 1871, n. 579; V, ibid. 1873, ad Indicem; I libri commem. della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 207, 217; P. Paruta, Historia vinetiana, Venezia 1605, pp. 324, 509; A. Morosini, Historia veneta, I, Venezia 1719, pp. 85, 159, 187, 189, 347, 352, 378. Sulla sua opera a Brescia: C. Pasero, Il dominio veneto..., in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, pp. 298, 784. Sull'episodio di Musso, F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1929, V, p. 73; Carteggi di F. Guicciardini, a cura di P. G. Ricci, IX, Roma 1959, pp. 75 s., 85, 87 ss., 96, 98, 100, 115, 128 e passim. I dispacci del B. da Roma si trovano nell'Arch. di Stato di Venezia, Senato Secreta,Arch. propri, Roma, vol. 5; Capi del Consiglio dei Dieci,Lettere di ambasciatori, busta 22, ff. 224-228, 231-234; e sono stati usati e spesso ampiamente citati da numerosi studiosi, tra cui: G. De Leva, Storia document. di Carlo V, III, Venezia 1867, capitoli II-VI, passim;W.Friedensburg, Nuntiaturberichte aus Deutschland nebst ergänzenden Actenstücken, Gotha 1892, I, pp. 11 s., 63-65, 67-75, 78-80, 531, 559, 562, 566, 570, 577; II, pp. 6, 39, 47 s., 71, 73, 85-88; C. Capasso, La polit. di papa Paolo III e l'Italia, I, Bologna 1902, passim;L. von Pastor, Storia dei papi, V, Roma 1914, pp. 65, 96, 100, 125, 156, 158 s., 169, 172 s., 187, 789, 801. Sull'ambasciata romana cfr. anche: Nunziature di Venezia, II, a cura di F. Gaeta, in Fonti per la storia d'Italia, 45, Roma 1960, pp. 39, 43, 45, 49, 63, 73, 83, 85 s., 95; A. Prosperi, Tra evangelismo e controriforma. G. M. Giberti, Roma 1969, p. 166.