ASTEMIO (Abstemius, Abstemio), Lorenzo
Nacque a Macerata Feltria tra il 1435 e il 1440, come si deduce da un luogo dell'inedita opera storico-geografica ove, parlando dell'assedio di Fano (1463), l'A. dichiara che avvenne "me adulescente". Nella città natale compì i primi studi di retorica presso la stessa scuola (almeno così vuole la tradizione) ove più tardi egli avrebbe inaugurato la sua attività di insegnante. Soggiornò a Macerata comunque non oltre il 1472, quando, già noto come erudito e grammatico esperto, fu chiamato a Cagli per far da scriba a Girolamo Riario "in cuius humeris tota Dei recumbit ecclesia" (lettera, non datata, scritta dall'A. a Cesare Bodiano).
Continuava frattanto a svolgere le sue mansioni di pubblico maestro e-iniziava una nuova attività, non occasionale né marginale rispetto all'insegnamento, ma dei pari impegnata secondo le esigenze di un'adulta coscienza umanistica e conforme a un temperamento volto per natura alla misurata e attenta riflessione: quella di editore per la tipografia impiantata a Cagli da Roberto da Fano e Bernardino da Bergamo.
I testi sui quali lavora sono il De morte Astyanactis di Maffeo Vegio (1471), l'orazione Pro Baptista Sphortia di Giovanni Antonio Campano (1476), due operette di Servio: il Libellus de ultimis syllabis ad Aquilinum e Servii honorati grammatici praocellentissimi centiMetrum ad Albinum (1476), ove si manifesta non solo l'impegno del correttore di stampa, ma l'interesse di un vero e proprio editore critico ("Nam quis adeo doctus, adeo perspicax, et ocio et libris affluens esse posset qui tani depravatum et mutilatum opus ad pristinam integritatem revocaret?"). Considerati nel loro complesso, questi testi di non vaste dimensioni e di importanza talvolta secondaria, ricercati o rari, delineano piuttosto nettamente la direzione verso cui si svolse il gusto filologico dell'A. condizionato da un'estrema limitatezza dell'indagine e tendente nei casi migliori a un alessandrinismo grammaticale non di rado sorvegliato e preciso. Questa modesta attività editoriale, ma soprattutto i meriti derivati da una carriera esemplare di insegnante, gli valsero nel 1476 il trasferimento a Urbino in qualità di bibliotecario di Guidubaldo da Montefeltro, che nel lungo periodo del soggiorno urbinate dell'A. (sicuramente protratto fino al 1483, come si deduce da una lettera di Ermolao Barbaro) dove stimarlo un confidente prezioso e apprezzarlo come un collaboratore di fiducia.
Nel 1490 è a Rimini, chiamato come maestro di Pandolfa e Carlo Malatesta. Qui attende alla compilazione di un importante lavoro già cominciato a Urbino: un dizionario storico-geografico di tutte le città del mondo che si conserva manoscritto tra i codici urbinati della Biblioteca Vaticana; prepara un'operetta erudita (Libri duo de quibusdam locis obscuris, Venetiis s. d., ma sicuramente 1494) che in forma di dialogo ripropone un commento dell'ovidiana Ibis, confuta un passo di Valerio Massimo e termina con alcune regole di ortografia latina che saranno impiegate dal Gruter (Lampas, sive fax artium liberalium..., I, Francofurti 1608, pp. 878-893); ma soprattutto lavora intorno alla prima centuria di favole esopiane la cui lettera introduttiva sembra dettata da Rimini per i riferimenti ad alcuni personaggi (Renato Meliorati, Roberto Orsi) che incoraggiarono l'A. a dedicare la raccolta a Ottaviano Ubaldini.
Le favole, che si fingono tradotte da Esopo, furono stampate per la prima volta insieme alle trenta latinizzate dal Valla (Fabulae ex graeco in latinum per Laurentium Vallam virum clarissimum versae. Fabulae ex graeco in latinum per Laurentium Abstemium virum clarissimum versae, Venetiis 1495). In realtà non tutte le favole risalgono alla fonte classica come vollero gli autori del Giornale de' Letterati d'Italia, XXIII, p. 387: alcune di esse ripropongono certi temi di chiara tradizione inedievale, molte si devono alla fantasia ingegnosa se non fecondissima dell'A., tanto che nella ristampa veneziana dei 1499 scomparve dal frontespizio ogni riferimento alla versione dal greco(Fabulae per latinissimum virum Laurentium Abstemium nuper compositae).
A una lettura complessiva delle cento favole s'avverte anzi come il modello esopiano sia poco più di un pretesto per conferire la dignità di un genere letterario tradizionale a una materia che si presenta tanto più eterogenea rispetto ai temi che occorsero al moralismo dei favolista greco. Allegorie classiche ed exempla cristiani, pretese descrittive e il gusto per certi ritratti salaci sullo sfondo di avventurosi conventi, puntate umoresche secondo lo spirito di un ben nutrito misoginismo, convergono variamente a formare la trama di queste favole che rappresentano senza dubbio un elemento importante per comprendere il progressivo sviluppo del genere novellistico fino alla sbrigliatezza dell'invenzione cinquecentesca. Solo che di fronte agli spunti più nuovi e sollecitanti l'A. non avverte quasi mai l'esigenza di giungere al vivo della rappresentazione, ma nell'intento di riprodurre lo stile del modello classico s'arresta ai limiti di una forma scarnita e sentenziosa che rivela a lungo andare le dimensioni di una mentalità freddamente scolastica.
La varietà della materia e la spregiudicatezza (quasi soltanto apparente) di alcuni temi contribuirono comunque al successo di queste prime cento favole, tanto che l'A. pensò per tempo di raddoppiarne il numero. Con il rigore del retore impegnato per ogni evento nella sua missione didattica, ma forse anche per sfumare certe polemiche moralistiche che aveva suscitato la prima pubblicazione, decise di far stampare la seconda raccolta fra uno schema di testamento ideato per facilitare ai discepoli lo studio delle formule legali e un trattatello di grammatica latina (Granii Corococtae Porcelli testamentum. Laurentii Abstemii Maceratensis Hecatomythium secundum. Eiusdem libellus De verbis communibus, Fani 1505). L'opera tuttavia passò tutt'altro che inosservata: a Venezia si ristampò insieme alla prima centuria nel 1520 e nel 1539, ma soprattutto all'estero le favole dell'A. ebbero un enorme successo: basta pensare alle numerose edizioni di Parigi (1529, 1535, 1536, 1544, 1545), di Lione (1537, 1540), di Basilea (1523), di Francoforte (1610, 1660). Tradotte in francese nel 1572 (L'Hécatomythium ou les fables de Laurent Abstemius traduit du latin, Orléans, Eloy Gibier), esse rappresentarono una fonte cospicua per La Fontaine e si lessero con interesse fino al secolo scorso (Fables d'Aphtone et d'Abstémius traduites par M. Pillot, Douai, Daregnancourt, 1814). Forse anche in Italia l'opera del maceratese fu tradotta in volgare e si diffuse rapidamente a giudicare dalle derivazioni che si riscontrano M prosatori di rango, dal Castiglione allo Straparola, al Costo, al Bandello.
A Rimini l'A. rimase sicuramente fino al 1494. Nel 1496 tornò a Urbino dove fece la conoscenza di Francesco Uberti (L. Piccioni, Di Francesco Uberti umanista cesenate de' tempi di Malatesta Novello e di Cesare Borgia, Bologna 1903, p. 123), ma nel 1501 era già a Fano in qualità di insegnante di grammatica nonché di editore per la tipografia di Girolamo Soncino.
Una serie di circostanze possono avere contribuito al trasferimento dell'A. a Fano: la volontà di Guidubaldo di inviare un uomo di fiducia in una città ove cominciava ad affermarsi il mecenatismo del Borgia, il desiderio dell'A. di riprendere la già affermata attività editoriale in un clima di tolleranza religiosa e in genere favorevole a ogni manifestazione letteraria, ma soprattutto i progetti del Soncino di stampare a intervalli piuttosto brevi, per dare l'impressione di una certa continuità, libri di impegno non esclusivo sì da permettergli la ricerca e la diffusione di testi ebraici.
La congiuntura si dimostrò favorevole all'A. che poté dedicarsi con la consueta attenzione alla cura minuziosa di varie operette, fra cui un Cornelius Nepos. De vita Catonis senioris...(1504) e due opuscoli aristotelici: De Virtutibus ed 0economica nelle versioni di N. Perotti e di Leonardo Aretino (1505). Nello stesso anno fu dato infine alle stampe un libro contenente l'epitome Pindari Bellum troianum ex Homero, l'Astyanax di Maffeo Vegio ed Epigrammata quaedam, forse il contributo più valido che l'A. abbia apportato nel corso delle sue ricerche per le numerose iscrizioni che egli trascrisse di monumenti antichi insieme ad alcuni epigrammi classici e umanistici (di Meleagro tradotti da Giacomo Costanzi, di Sidonio Apollinare, di Tito Vespasiano Strozzi). Il libro fu ristampato dal Soncino nel 1515 a cura di Francesco Poliardi. Opere originali dell'A. furono in questo periodo Epaminondae clarissimi Thebanoruni ducis vita, Fani 1502, dedicata a Cesare Borgia, e la seconda centuria di favole già menzionata. Probabilmente l'A. intervenne nell'edizione soncìniana del Petrarca (1503) che non fu ignota al Manuzio.
Nel 1505 fu richiamato a Urbino e da questa data non si sa più nulla di lui tranne la notizia della sua morte che è riferita dal Costanzi nella lettera dedicatoria del Collectaneorum Hecatostys,Fani 1508, indirizzata a Nicolò, figlio dell'A. e anch'egli scrittore di favole.
Bibl.: G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, I, 2, Brescia 1753, pp. 1181 s.; F. Vecchietti, Biblioteca Picena, I, Osimo 1790, p. 233; G. Manzoni, Annali tipografici dei Soncino Tomo III, sec. XVI, dal 1502 al 1520, Bologna 1883, passim; G. Rua, Intorno alle "Piacevoli Notti" dello Straparola, in Giorn. stor. d. letter. ital.,XVI(1890), pp. 251-283; P. Toldo, Fonti e propaggini italiane delle favole del La Fontaine, ibid., XXX (1912), pp. 16 ss.; L. Di Francia, Alla scoperta del vero Bandello, ibid., XL (1922), pp. 13 s.; G. Castellani, Il primo libro stampato a Fano, in La Bibliofilia, XXVIII(1926), pp. 277 ss.; Id., L. A. e la tipografia del Soncino a Fano, ibid., XXXI (1929), pp. 413-423, 441-460; XXXII (1930), pp. 113-130, 145-160; L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di L. A. nelle tre edizioni sonciniane, in Miscellanea Giovanni Mercati, IV, Città del Vaticano 1946, pp. 305-326.