DELLA SETA, Lombardo
Nacque a Padova da Iacopo nella prima metà del sec. XIV.
Scarsi i dati biografici, anche perché poco si può ricavare in proposito dalle sue lettere e da quelle a lui indirizzate dal Petrarca e da Coluccio Salutati, mentre le biografie petrarchesche ripetono tutte che fu padovano, uomo d'ingegno e di cultura, e che andò ad abitare col Petrarca ad Arquà, alcune con l'aggiunta che egli assistette il poeta nella morte. Incerta la data di nascita; e nell'ombra resta anche la sua giovinezza. Il padre Iacopo era probabilmente un commerciante di seta ("a Serico" è il cognome con cui figura in un documento, pubblicato dal Malmignati, come abitante "de contracta stratiariarium de Padua"); la famiglia era certamente agiata e possedeva, oltre a una sontuosa dimora in città, una villa con orti e frutteti a Sarmeola nel contado di Padova. La prima data sicura ci è fornita dallo stesso D. nell'epistola Fervet animus, del 1354, indirizzata al Petrarca, edita modernamente da G. Ferrante su collazione fra 4 mss. (i Marc. lat. XI.59, XIV.239 e 254; F. P. 1223 della Civica di Padova), l'incunabolo Scinzeuzeler (Milano 1498) e l'ediz. Fracassetti del 1865. Il Ferrante non ignorava l'esistenza di almeno altri sedici testimoni che la recano, con o senza la risposta del Petrarca (Sen. XV 3), ora anepigrafa ora con titoli vari (De dispositione vitae suae et de ducenda uxore, De dispositione vitae dialogus ecc.), nonché delle cinquecentine di Basilea (1533)e Padova (1581) col titolo De bono solitudinis e l'esatta attribuzione al D., contro quella erronea al Petrarca delle stampe precedenti (rifluita perfino nel Fracassetti): oggi tuttavia l'Iter Italicum di P. O. Kristeller e il censimento di codici petrarcheschi pubblicato da Italia medioevale e umanistica consentirebbero di incrementare notevolmente (di almeno cinquanta unità) il regesto dei codici.
Nella lettera del 1354 il D. afferma di essersi ritirato nella sua villa, fuggendo gli orrori della città, per godere la pace campestre e soprattutto i piaceri che derivano dalla lettura degli antichi. Possiamo qui misurare la cultura di questo neofita, di là dalle espressioni enfatiche di ammirazione rivolte "laureato ac celeberrimo vati" e dalla celebrazione rituale della solitudine rustica contrapposta all'inquietudine cittadina. Si sente, insomma, la scuola dell'epistolografia petrarchesca sia nella fervida animazione di un dialogo fittizio col corrispondente ("quid in hoc loco faciam rogas. Respondeo: utor pace memetipso fruor ..."), sia nella sceneggiatura a botta e risposta di un dialogo reale con due importuni visitatori, scettici sulla scelta esistenziale di quel solitarius ruricola; sia nelle astuzie stilistiche, tra ossimoro e metafora, là dove si enumerano i pericoli che sconsigliano di pigliar moglie ("iurgium audax, murmur frequens, infesta suspicio, importuna zelotypia, poena domestica, febris continua, facies culta, decora spurcitia..."). Petrarchesca e topica insieme è la punta più alta di questo messaggio, la celebrazione dello studio come un perpetuo colloquio con morti che sono più vivi dei viventi: "cum quibus verser rogas. Mirabile dictu! cum mortuis versor. Cum mortuis dixi? Cum viventibus dicere debui. - Sed absentibus - Imo praesentibus. Nam vocati et culti adsunt, rogati respondent, et inter vepres depressis opertum sentibus patefactum rectum iter ostendunt". Di fatto, dietro tanti loci communes (ancora, la polemica contro il clero corrotto; la svalutazione delle gioie familiari e in particolare dei figli, da cui non ci si può attendere bene; l'inganno volubile delle ricchezze; la fiducia nella fama che vince la morte), si avverte la presenza di alcuni autori già ben posseduti, il Petrarca stesso di certe epistole, se non già del De vita solitaria (compiuto solo nel '56), forse anche il Boccaccio del Trattatello (1351-55), inoltre Seneca (espressamente citato), Cicerone, soprattutto Lovato e Mussato, della cui disputa se sia meglio aver figli o non averne rimasero a lungo vivi gli echi in Padova. In quell'epoca il D. aveva forse incontrato solo di sfuggita il Petrarca, che prima del '54 a Padova (dove si era trasferito nel '49 su invito di Iacopo da Carrara) trascorse solo brevi periodi. Doveva tuttavia averne letto qualcosa, respirato, fra i suoi vicini, l'atmosfera di umanesimo nascente. Sta di fatto che l'epistola del '54 costituisce l'avvio di un'amicizia singolare fra le schiette che il Petrarca coltivò a Padova ora con professori dello Studio (Giovanni d'Andrea, Pietro da Moglio, Lodovico dei Lambertazzi, Giovanni di Conversino) ora con intellettuali più liberi, come il medico-poeta Giovanni Dondi dell'Orologio e il giurista Lapo da Castiglionchio. Vero è che il Petrarca rispose subito con la lunga Senile XV 3, dove "lo loda del suo vivere lontano dalle città, delle quali enumera i vizi e i pericoli: riprende la mollezza degli uomini, e discorre i guai del prender moglie e dell'aver figli" (Fracassetti). L'amicizia dovette presto consolidarsi se a distanza di poco tempo (ma non prima del '56, quando nei documenti è ancora "Lombardus filius ser Jacobi a Seta") il Petrarca gli indirizzò una breve ma commossa consolatoria per la morte del padre (Sen. XI 10), dove il repertorio consueto a quel 'genere' ("Ad hoc omnes nati sumus...") lascia filtrare note di fraterna condoglianza: "Dulci quadam velut acredine acrique dulcedine epystolam tuam legi, amice. Ita michi suaviter annosi patris interitum defles...". Una terza volta Petrarca gli scrisse, per soddisfare al desiderio del discepolo che gli chiedeva il suo parere su questa vita: è la Senile XI 11,dove la descrizione dell'esistenza umana è manieristicamente impostata sulla figura dell'ossimoro.
Il 21 apr. 1367 il copista personale del Petrarca, il ravennate Giovanni Malpaghini, abbandonò la casa del poeta: fu l'occasione per il D. di offrirsi al maestro come familiare e amanuense, stabilendosi così ad Arquà (dove il Petrarca andò nel '69 ospite degli agostiniani, poi come proprietario di una casetta offertagli dal signore di Padova).
Tuttavia il D. mantenne buoni rapporti coi circoli carraresi se nel '70 scrisse, indirizzandola al Petrarca, un'epistola togata in morte del condottiero fiorentino Manno Donati che, esule dalla patria, aveva prestato i suoi servigi presso Francesco da Carrara. Tale elogio funebre è condotto sulla falsariga dei tradizionali planctus (con appelli a Padova e al suo signore, a Firenze, all'esercito che ebbe Manno per guida, alla famiglia stessa dell'estinto); mentre stilisticamente tende al centone virgiliano, non senza l'impiego di certi topoi (l'ubi sunt?, il sogno profetico ecc.) e, per aggiunta, un invito finale al Petrarca perché includa il Donati (che il Carrarese aveva fatto ritrarre nella sala dei Giganti) nella sua galleria degli uomini illustri (ma il poeta non andò oltre un'epigrafe, che ancor oggi leggiamo nella basilica di S. Antonio da Padova, fra il chiostro del capitolo e quello del noviziato).
Ma in primo piano è ormai la sua consuetudine di vita accanto al maestro. Al 1369 rimontano (De Nolhac) le postille - nel foglio di guardia del Vat. lat. 2193 - in cui Petrarca si compiace del nuovo figlio adottivo, che si è perfino improvvisato nelle funzioni di giardiniere; e dal Testamentum apprendiamo che il D. era diventato il suo uomo di fiducia, come amministratore e fattore, anche con prestazione personale di somme liberalmente anticipate. Così, il 22 giugno '71 acquistava per conto del vecchio poeta "dal calzolaio maestro Lingua del fu Enrico da Piazzola circa un campo e mezzo di terra, situata nella contrada Ventolone di Arquà e che confinava con proprietà dello stesso Petrarca, di Alberto Dondi, di Francesco il Vecchio signore di Padova e colla strada" (Billanovich, 1947). Il medesimo testamento designa il D. come erede per i cavalli del maestro, per un debito di 134 ducati d'oro e per una coppetta d'argento con cui bere l'acqua; e subhaerede di tutti i beni in caso di eventuale decesso del genero Francescuolo da Brossano. Ma, piuttosto che il valore reale di quei lasciti, sono le parole stesse del documento a dimostrare la gratitudine del poeta verso quel suo fedele, cui lo legavano sentimenti paterni da maestro a discepolo: "tunc heres meus esto Lombardus a Serico predictus, qui plene animum meum novit, quem ut in vita fidelissimum expertus, non minus fidelem spero post obitum". Il Petrarca doveva essere buon profeta. Infatti il D. non abbandonò il poeta durante le traversie che agitarono gli ultimi tempi della sua esistenza e, dopo la morte, fu fedele custode delle sue memorie.
La guerra fra Padova e Venezia costrinse i due sodali ad abbandonare Arquà per Padova. A quell'epoca (1372) risale l'incarico attribuito al D. dal marchese Bonifazio dei Lupi di Soragna, "di stabilire i patti con Andriolo da Venezia per la costruzione della cappella di S. Felice" (Gonzati). Alla fine della guerra il Petrarca e il D. rientrarono ad Arquà; e poco dopo - nella notte fra il 18 e il 19 luglio 1374 - al discepolo toccò la sorte di vedersi spirare fra le braccia il maestro (versione cui s'oppongono alcuni biografi, tramandanti l'immagine di una morte solitaria nella biblioteca).
Ma la testimonianza è suffragata dallo stesso D. in un passo della Vita di Augusto (ms. 6069 G della Nazionale di Parigi, c. 182r): "cui haud dubie sidera resposcenti septuagesimo quarto ab ortu Christiano, decimo nono iulii die, Arquade inter colles Euganeos, deno ab urbe Patavii miliario, non modo mei amplexibus circumvecto verum etiam fluentibus lacrimis asperso, vivendi simul et philosophandi, proh dolor, finem imposuit"; e il dato si integra con la più scarna notizia, fornita in calce alla Vitadi Cesare (ms. cit., c. 142r): "His gestis Caesaris cum instaret, obiit ipse vates celeberrimus Francisco Petrarca, millesimo trecentesimo septuagesimo quarto decimonono iulii Arquade".
Ma la storia successiva alla morte del Petrarca è per i posteri ancor più interessante di quel sodalizio in vita. Infatti, pur essendo Francescuolo erede universale, al D. era rimasta affidata quella mirabile biblioteca, per il riordino e la corrispondenza; e a lui dunque si rivolgevano le richieste dei dotti che volevano copia di scritture petrarchesche. Così al D. fa capo, come "maximus Francisci nostri custos", il capofila degli umanisti toscani, Coluccio Salutati: ora per avere la trascrizione dall'Africa (4 giugno '76), ora delle Sine titulo e del De viris illustribus (13 luglio '79); prima ancora, di alcune opere di Cicerone in possesso del Petrarca (25 genn. '76). Era inevitabile che nel D. il mestiere di copista-divulgatore prevalesse sulle tenui velleità di autore in proprio. Alle numerose trascrizioni di opere petrarchesche (De remediis, Rerum memorandarum, Secretum, Metrice ecc.) fa riscontro una produzione davvero esigua e ancor meno caratterizzante. Perduto il trattato (di cui fa menzione lo Scardeone) De quibusdam memorandis mulieribus, dedicato a Maddalena Scrovegni, restano infatti il planctus per Manno Donati e le tre epistole, una consolatoria dell'89 e una lettera del 1380 (riscoperta dal Billanovich e dalla Pellegrin), utile a confermare come egli mantenesse nel tempo la privativa della diffusione del corpus petrarchesco. Sulla funzione storica di questa sua mediazione ha scritto pagine definitive il Billanovich, 1947, non tacendo i limiti della "filologia" del D.: una "divulgazione ... né illuminata né cauta" anzi "stentata e male diretta" (p. 300) in quanto volta a procurare edizioni piuttosto che trascrizioni (già a partire dalla copia di servizio surrogata all'originale per evitarne il deperimento); dunque progenitori contaminati di tanti codici diffusi in Europa. Alla scarsa pazienza nel decifrare autografi pieni di intrichi si aggiunse la pretesa di completare l'inexpletum. Un'abitudine cui non derogò neppure quando dovette corrispondere ai desideri di Francesco il Vecchio, allestendo per la biblioteca dei Carraresi "una collezione di opere del Petrarca, splendida di larghi fogli di pergamena ornati di buona grafia e di miniature fantasiose" (ibid., p. 318); quantunque l'iniziativa subisse rallentamenti vari per le successive e più pressanti richieste del magnifico committente (che a sua volta ricompensò il D. facendo affrescare il suo ritratto da Altichiero, nella sala dei Giganti, vicino a quello dell'amato maestro). Da Francesco, infatti, egli ricevette l'incarico di portare a termine le due incompiute redazioni parallele - un testo esteso e uno compendiato - del De viris illustribus, giovandosi del materiale già apprestato dal Petrarca nonché della conoscenza diretta del metodo seguito dall'autore nell'utilizzare le diverse fonti storiche.
Con queste premesse, sono esclusi scarti o acquisti rispetto alla falsariga petrarchesca; semmai si registra qualche infrazione alla prassi sintetica del modello, dovuta anche a un'ulteriore semplificazione della concezione storica petrarchesca in senso moralistico-esemplare, che induce il D. a evitare ogni possibile chiaroscuro, con una singolare convergenza fra rigidezze medievali e aurorale entusiasmo umanistico. Di qui la riduzione dei fatti a moventi individuali; la netta contrapposizione fra i "buoni" romani e i "cattivi" barbari, per una sorta di patriottismo melenso; di qui la tendenza ad una minuzia analitica che tradisce la sobria obiettività del paradigma anche nella soverchia passività a certi risvolti favolosi delle fonti. Assai più medievale di Petrarca è il D., anche nello stile, modellato su quello di Valerio Massimo con l'oltranzismo di chi non ne possiede uno proprio (salvo abusare di iperboliche ampollosità), riuscendo così ad essere prolisso anche dove persegue un ideale di concisione. Insomma, l'umanesimo del D. sembra esaurirsi, oltre che nel culto del maestro, in un disarmato amore per i classici e in una credula fiducia nella cultura come perpetuo schermo fra vita e letteratura. È questa tuttavia l'impresa più notevole realizzata dal nostro candido intellettuale, e forse il coronamento di un sogno: farsi diligente continuatore oltre che collaboratore del maestro (tale è il senso del proemio al Compendium, meglio che del precedente alla Epithoma, di là dal consueto repertorio degli elogi al mecenate, che ai meriti civili univa quelli culturali, come protettore di artisti). Così, con una straordinaria fedeltà al dettato petrarchesco della parte originale, l'integrazione dell'Epithoma (dodici vite: Tito Quinzio Flaminino, Scipione Nasica, Emilio Paolo, Quinto Cecilio Metello, Scipione Emiliano, Gaio Mario, Pompeo, Ottaviano, Vespasiano, Tito, Traiano, oltre a Cesare) fu terminata il 25 genn. 1379, quella del Compendium (con un supplemento di ventidue biografie) il 9 dic. '80. I due codici, trasferiti dal Visconti a Pavia come bottino di guerra, con la conquista francese del Ducato di Milano emigrarono in Francia, a Blois e poi a Parigi, con altri pezzi insigni passati sullo scrittoio del Petrarca. Spetta al De Nolhac il merito di aver rinvenuto l'autografo dell'Epithoma alla Nazionale di Parigi, dove è il membranaceo Fonds latin 6069 F (da integrare con l'Ottob. 1883): recupero tanto più importante se una stampa (per le sole prime otto vite, attribuite per errore al Petrarca) non si ebbe prima del Razzolini (1874). Il Compendium (autografonel Parig. lat. 6069 G) godette invece di maggiore fortuna: la tradizione a stampa annovera infatti, dopo la princeps del 1496 (incunabolo di Basilica "per magistrum Iohannem de Amerbach"), le cinquecentine veneziane (1501 e 1503) e le tre di Basilea (1554, 1563, 1581).
Gli ultimi anni del D. vennero funestati dalla morte (1382) dell'unico fratello Domenico: un evento che, per giunta, lo costrinse ad accollarsi la cura del patrimonio familiare e degli orfani (egli infatti non ebbe famiglia propria ma solo un figlio naturale, Pellegrino, da lui legittimato nell'89). Intanto, però, andava consolidandosi il suo prestigio sociale: nell'83 risulta iscritto nella matricola degli speziali; era fra i contribuenti più ricchi di Padova, con dimora nella contrada di S. Andrea "sive Barsae" attigua a quella dei consanguinei Da Mulo. Nell'84 figura quale testimone nella donazione fatta dal marchese Bonifazio dei Lupi di Soragna alle monache dell'Arcella; infine nell'89 scrisse all'amico Guido del Palagio una epistola (l'unica in volgare) per consolarlo della morte del figlio.
Tramandataci da due Marciani (II27 e 7224), malamente stampata dal Ferrato, essa risulta più enfatica delle latine nel suo ricorrere, fra calembours e agudezas di gusto medievale, a stilemi ora virgiliani ora boccacciani, conditi del solito stoicismo cristiano col supporto di esempi classici non molto peregrini.
Col trasferimento di Francescuolo a Treviso (1384) e col crollo della signoria carrarese, spartita fra i Visconti e Venezia (verso la fine dell'88), avvenne la diaspora della biblioteca petrarchesca, con un primo fortunato approdo nella Milano di Antonio Loschi, Pasquino Capelli e Giovanni Manzini. Sembrò allora che il D. si fosse decisamente staccato dai Carraresi avvicinandosi ai nuovi signori, nella persona di Gian Galeazzo Visconti; mentre Francescuolo aveva lasciato Treviso, preda di Venezia, per ritirarsi di nuovo a Padova. Alla restaurazione del dominio di Francesco Novello (19 giugno '90) seguì davvicino, l'11 agosto, la morte del D. a Venezia.
Il corpo, sepolto nell'arca della piazza di Arquà sotto le spoglie del maestro, fu riportato a Venezia per ordine del Carrarese, non dimentico dell'adesione del D. alle sorti trionfanti del Conte di Virtù. Una postilla (riferita dal Billanovich (1947, p. 339), nel codice di Bruxelles delle Senili, dandoci queste ultime notizie sul D., sembra confermare la modesta autodefinizione di auditor (semplice "discepolo" del Petrarca), che si legge sulla lapide in S. Lucia di Padova, con un ancor più equo giudizio: "in omnibus innisus est sequi vestigia domini Francisci, et quamquam non posset attingere vix fimbriani vestis eius .... Fuit vir tamen laudabilis, bonis moribus indutus, studiosus valde et si citius cepisset adiscere eloquens admodum evasisset". Per lo storico moderno, è vero che "la soprintendenza gretta di Lombardo pesò sulla divulgazione delle opere del Petrarca con danni protrattisi per secoli, e anche oggi riparabili solo in parte dalla diligenza o dall'acutezza filologica" (Billanovich). Tuttavia il D. rappresentò un prezioso punto di riferimento per amici e ammiratori del Petrarca, anelli di una grande catena culturale che unì ben presto l'intelligenza europea preparando l'umanesimo: Lapo da Castiglionchio, Giovanni Dondi, Francesco Zabarella, Pier Paolo Vergerio, Coluccio Salutati, Guido del Palagio, il Marsili (indotti anch'essi a coltivare il mito dell'edizione piuttosto che la disciplina della copia). Né a lui, che con mille accorgimenti cercò di custodirli, è in alcun modo da imputare la dispersione sciagurata di tanti originali e autografi petrarcheschi.
Fonti e Bibl.: Lione, Bibl. Mun., ms. 168 (100); Parigi, Bibl. nat., Fonds lat. 8582; Vicenza, Bibl. Bertoliana, ms. G.7.1.25 (apografi del planctus per Manno Donati); B. Scardeone, De antiquitate urbis Patavii et claris civibus Patavinis libri tres, Basileae 1560, pp. 233 s.; B. Gonzati, La basilica di S. Antonio di Padova, Padova 1852-53, doc. CII; P. Ferrato, Due pistole ined. del buon secolo della lingua, Venezia 1865, pp. 3-11; P. Malmignati, Petrarca a Padova, a Venezia e ad Arquà, Padova 1874, passim; F. Petrarca, De viris illustribus, testo latino e volgarizzamento di Donato degli Albanzani, a cura di L. Razzolini, Bologna 1874-79, pp. XI-XXV; Id., Lettere senili, volgarizzate e dichiarate con note da G. Fracassetti, II, Firenze 1892, pp. 393-407,"Id., Lettere delle cose familiari, volgarizzate e dichiarate con note da G. Fracassetti, V, Firenze 1892, pp. 346-52 (per le notizie biografiche sul D. in calce alla VIII 8, che è in realtà la Sen. XI 11). C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, I, Roma 1891, pp. 222, 228-43, 254, 330 ss.; II, ibid. 1893, pp. 53-56; G. Ferrante, L.D. umanista padovano (?-1390),in Atti del R. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, XCIII (1934), 2, pp. 445-87 passim (per diversi documenti); F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti [e altri], Milano-Napoli 1955, specie pp. 1126 ss.; Id., De viris illustribus, ediz. crit. a cura di G. Martellotti, Firenze 1964, passim;E. Pellegrin, Manuscrits de Pétrarque dans les bibliothèques de France, in Italia medioev. e umanistica, IV(1961), pp. 367, 373 s s.; F. Petrarca, Opere latine, a cura di A. Bufano, Torino 1975, I, p. 88; II, pp. 1350 ss., 1356; G. Ferrante, op. cit., pp. 445-87 (è l'unica monografia sul D.); inoltre D. Rossetti, Petrarca, Giulio Gelso e Boccaccio, Trieste 1828, pp. 21-32, 50-60, 78-81; A. Zardo, Il Petrarca e i Carraresi, Milano 1887, pp. 52, 182-187, 222-226; P. De Nolhac, Le "De viris illustribus" de Pétrarque. Notice sur les manuscrits originaux, suivie de fragments inédits, in Notices et extraits de manuscrits, XXXIV(1890), 1, pp. 61-148; Id., Pétrarque et l'Humanisme, Paris 1892, pp. 73-79, 379-383; G. Martellotti, Epitome e Comendio. Note intorno al "De viribus illustribus" di F. Petrarca, in Orientamenti, culturali, III (1946), pp. 205-16; Id., Il codice Ottoboniano 1883 e l'opera di L. D. nella tradizione manoscritta del "De viris illustribus", in Convivium, XV (1947), pp. 739-52; G. Billanovich, Petrarca letterato, I, Lo scrittoio del Petrarca, Roma 1947, pp. 297-419; B. L. Ullman, Petrarch's acquaintance with Catullus, Tibullus, Propertius, in Studies in the Italian Renaissance, Roma 1955, pp. 181-92; G. Martellotti, introd. a F. Petrarca, Prose, cit., specie pp. XI-XIV (e nota critica ai testi, pp. 1163-66); G. Billanovich, Nella biblioteca del Petrarca, in Italia mediev. e umanistica, III(1960), p. 39; E. H. Wilkins, Vita del Petrarca, Milano 1964, pp. 284, 289, 293, 295, 319; G. Billanovich-E. Pellegrin, Una nuova lettera di L. D. e la prima fortuna delle opere del Petrarca, in Classical, Medieval and Renaissance studies in honor of B.L. Ullman, II, Roma 1964, pp. 215-36; G. Mardersteig, I ritratti del Petrarca e dei suoi amici di Padova, in Italia medioev. e umanistica, XVII (1974), pp. 250-80 specie 261 ss., 265, 269, 271, 273, 275; R. Zucchi, Ottonello Descalzi e la fortuna del "De viris illustribus", ibid., pp. 479-82, 487; A. Calore, La casa di L. D. a Padova, ibid., pp. 493-97; L. Lazzarini, La cultura delle signorie venete e i poeti di corte e M. Pastore Stocchi, La biblioteca del Petrarca, in Storia della cultura veneta. Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 505, 560 ss.