DE ROSA, Loise
Nacque a Pozzuoli il 14 o il 16 ott. 1385, ma visse a Napoli, dove morì dopo il 1475.
Questo è quanto si ricava dalla sua opera, unica fonte su di lui: "lo nassive a Pezzulo" (Altamura, p. 84); "Tu nassiste de ottufro, o a li quattordice o a li sedice, uno più de li quindice o meno de quindice" (p. 82); "Anno Domine MCCCCLII, io, Loise de Rosa, haio comenzato chisto libro, e so' omo de anne sessantasette" (Petrocchi, p. 535); "ché mo' che scrivo haio più de anne novanta" (p. 581). Si apprende anche che sua madre si chiamava Fiore, che ebbe fratelli e sorelle, ai quali fu costretto a provvedere quando, saccheggiata Napoli da Alfonso d'Aragona, la famiglia si rifugiò ad Aversa, e tre mogli, poco affettuose, che gli diedero molte figlie. Servì sette re (Ottone di Brunswick, ultimo marito di Giovanna I, Ladislao, Giacomo II di Borbone, marito di Giovanna II, Luigi III d'Angiò, Renato d'Angiò, Alfonso e Ferdinando d'Aragona) e sei regine (Margherita, moglie di Carlo III di Durazzo, Giovanna II, Maria di Cipro e Maria di Taranto, mogli di Ladislao, Isabella di Lorena, moglie di Renato d'Angiò, e Isabella Chiaramonte, moglie di Ferdinando). Come gli aveva predetto un astrologo all'età di vent'anni, cadde in disgrazia presso Giovanna II e corse pericolo di vita, accusato ingiustamente di aver abusato di una cameriera della regina; restò rinchiuso nella fossa di Carlo Martello, finché il vero colpevole non fu smascherato. Sette volte fu preso il giorno in cui venne catturato il gran siniscalco Pandolfello Alopo. Fu "mastro de casa" di re Giacomo II, del gran siniscalco Gianni (Sergianni) Caracciolo, del cardinale Latino Orsini e del cardinale di Cipro Ugo di Lusignano, del patriarca d'Alessandria Giovanni Vitelleschi, dei principi di Salerno, gli Orsini e i Sanseverino, dei duchi di Sora e del Vasto, dei conti di Troia e di Ariano, di Cola d'Alagno e di altri signori. Fu, inoltre, "viceré de lo contado" di Bisceglie e di Val di Gaudo, due volte viceammiraglio, la prima per conto di Giovanni Fregoso, fratello del doge di Genova, la seconda per conto del principe di Salerno. Dichiara di essere capitano di Teano mentre scrive di sé e delle sue "imprese"; all'inizio dell'opera aveva sottolineato, invece: "... io deveva essere omo d'assai, e mo' che commenzo chisto libro, non so' da niente" (p. 535). Quasi certamente la maggior parte delle suddette cariche sono vanterie del D., che altro ruolo non ebbe che quello "di mastro di casa, di un caposervitore, ordinatore di cerimoniali e di festini". Si spiegherebbe così "la innocente persuasione che egli ebbe di aver maneggiato grandi affari: illusione propria dei servitori, che trasferiscono facilmente a sé medesimi l'importanza dei loro varî padroni" (Croce, p. 125).
Il "libro" del D. è tramandato dal cod. Ital. 913 (ex 10171) della Biblioteca nazionale di Parigi. Consta di tre scritture: le Memorie ai ff. 1r-56v (compreso il capitolo Ly miracule che eo aio vedute, l'unico che abbia una sua inscriptio), l'Elogio di Napoli ai ff. 58r-61v (il f. 57 è bianco), la Cronaca di Napoli con le Lodi della donna ai ff. 62r-73v (bianchi i ff. 69v-70r). Decisamente autografo per il De Blasiis, il Mazzatinti, il Croce e l'Altamura, con qualche riserva e oscillazione per il De Marinis e il Petrocchi, il codice parigino è invece una copia per il Gentile, che fonda la sua affermazione, oltre che sull'esame paleografico "anziché d'un vegliardo alla fine ultranovantenne", la mano del ms. sembra quella "ora vigilatissima e precisa, ora più o meno rilasciata" di un amanuense che trascrisse "in una decina di riprese"), sull'analisi linguistica del testo, ricco di forme non napoletane, e nella loro ornogeneità appartenenti ad un altro sistema dialettale meridionale, residui di "un copista ... non napoletano, un calabrese, tanto per dire ..." (Postille..., p. 18).
Appartenuto a Ippolita Sforza, passato poi in Francia a Blois (aveva il nº 1680 nell'inventario della biblioteca redatto nel 1544, allorquando fu trasferita a Fontainebleau: cfr. H. Omont, Anciens inventaires et catalogues de la Bibliothèque Nationale, I, Paris 1908, p. 247) e quindi alla Nazionale di Parigi, il ms. fu segnalato per la prima volta dal Montfaucon e descritto, poco scrupolosamente, dal Marsand, che lo assegnò al sec.XIV e lo ritenne anonimo. Meglio fecero il Mazzatinti (Inventario) e il De Marinis (II, pp. 64 s.). Una copia quasi diplomatica del codice eseguì alla fine del secolo scorso G. Bevere (ms. XXVI A 16 della Bibl. della Società napoletana di storia patria). Lo aveva già parzialmente trascritto D. Giampietro per conto del De Blasiis, che per primo pubblicò nel 1879 ampi tratti dell'opera derosiana (pp. 417-67). Da questa scorretta edizione stralciarono brani il Filangieri, il Monaci (notevolmente migliorato risulta il brano nella nuova edizione della Crestomazia, a cura di F. Arese, Roma 1955, pp. 590-94), il Savj Lopez (Un contributo ... ; lo stesso brano inserì nell'antologia curata insieme al Bartoli) e l'Altamura (Testi ...). Dall'apografo del Bevere citano il Croce e il Petrocchi (1953); dall'Inventario del Mazzatinti, dove sono riprodotti i primi fogli del codice, dipende invece l'antologia di Migliorini e Folena. Finalmente un'edizione più attendibile, anche se ancora parziale (in effetti due tratti della prima scrittura e per intero la seconda e la terza), dell'opera del D. diede col titolo Cronache e ricordi G. Petrocchi in appendice al Novellino di Masuccio (pp. 535-83). Su di essa, tuttavia, pesanti riserve espresse il Gentile nelle Postille. Le correzioni da lui proposte sono state accolte dal Tateo e dal Contini, mentre sono state del tutto ignorate da A. Altamura che ha edito integralmente le memorie derosiane (Napoli aragonese nei Ricordi di L. De Rosa, Napoli 1971). "Priva di interesse filologico" sarebbe il caso di definire questa edizione, lo stesso giudizio che l'Altamura riservava all'altra edizione integrale del libro del D. apparsa a Napoli nel 1967 presso l'editore L. Greco (Il bugiardo napoletano. Cronache e ricordi di L. De Rosa).
L'opera, ideata o anche avviata nel 1452, come è espressamente detto nell'esordio dei Ricordi, fu effettivamente stesa tra il 1467 e il 1475. Dopo non molte pagine dall'inizio, infatti, sul punto di narrare le cose meravigliose che ha visto nel suo tempo, il D. sostiene di essere uomo di ottantadue anni. Al 1471 ci riportano, invece, insistentemente il capitolo Ly miracule che eo aio vedute e le altre due sezioni, le Lodi di Napoli e la Cronaca di Napoli, che iniziata il 25 maggio del '71 fu portata avanti fin oltre il 1475, se vi includiamo le pagine finali con le Lodi della donna, dove il D. dice di avere più di novant'anni.
Non è facile riassumere il contenuto delle prose del D., a metà strada tra cronaca e libro di memorie, dove la cronaca è piuttosto aneddoto e non si fa mai storia, mentre la memoria, ormai fossile, si inquina di fantasticherie e di leggende. Persuaso di essere stato protagonista e spettatore di avvenimenti eccezionali, nel clima di fervore culturale suscitato dalla corte aragonese, anche il vecchio D. si inventa una vocazione letteraria e dà libero sfogo alla sua penna ciarliera perché offra insieme sollazzo e ammaestramento. I "ricordi", provocati da una domanda di don Alonso (presumibilmente Alfonso duca di Calabria), non seguono un ordine cronologico, ma piuttosto si succedono agglutinandosi intorno a nuclei tematici prestabiliti. Caduto in miseria il D. sopporta con rassegnata filosofia il suo stato, avendo sperimentato in ben altri personaggi la volubilità della fortuna. Ecco, dunque, la sfilata di imperatori, papi, re, principi, duchi, conti, marchesi, ministri e signori vari che mutarono condizione o che perirono di morte violenta: "una rassegna da bolge dantesche" che man mano "cresce in tragicità" (Croce, pp. 130 s.) Si passa a "cose allegre e piacevoli", alle cinque più grandi cortesie mai compiute nel mondo, quelle di Alessandro Magno e di Costantino, del sultano d'Egitto, di Filippo Maria Visconti e di Giovanna II, sul cui regno turbolento e drammatico il D. si sofferma indugiando a tinte fosche sugli avvenimenti più truculenti. Dopo la parentesi amena delle "cose meravigliose", il D. passa alla storia di Napoli: la ripercorre velocemente da Roberto il Guiscardo a Ferdinando d'Aragona. È una storia soggetta al capriccio della fortuna, popolata di personaggi singolari, colta nei suoi eventi più straordinari, ricca di sorprendenti colpi di scena; una storia tutta scritta nelle stelle, avvincente e fragorosa, paradossale ed esemplare come un racconto popolare, una storia che volentieri cede all'apologo, all'aneddoto, alla leggenda, al pettegolezzo (si leggano le pagine sugli amori del Magnanimo con la bella Lucrezia d'Alagno, oppure le leggende su Federico Barbarossa, confuso con Federico II, e su Cesare). Dopo un altro catalogo di miracoli e prodigi di cui è stato testimone, e dopo la smargiassa cicalata sulla superiorità di Napoli e dei Napoletani, il ciarliero D. rinarra per la duchessa di Calabria le vicende della città, affidandosi ancora una volta alla tradizione orale (da Corradino di Svevia sino a Carlo III di Durazzo la fonte è suo padre) e ai suoi ricordi personali. Ritorna il susseguirsi frenetico di avvenimenti che nulla concede alla interpretazione o alla passione di parte per puntare invece sull'effetto; si rinnova l'altalena fatale di nascite, morti, matrimoni, tradimenti e guerre, per arrivare, finalmente, alla celebrazione dei sovrani aragonesi e, in particolare, della illustrissima signora Ippolita, la cui felicità ispira all'ultranovantenne D. il caldo curioso elogio del sesso femminile che chiude l'opera.
Mediocre di cultura (la sua è una cultura orale assimilata dalle conversazioni captate a corte, nelle ville dei signori e degli umanisti o nelle riunioni dei "Seggi", dalle prediche, dal chiacchiericcio colorito e sentenzioso dei vicoli di Napoli e dalla narrativa d'intrattenimento), il D., "della razza di quei memorialisti italiani d'estrazione aletteraria" (Petrocchi, Masuccio, p. XXVI), è un ingenuo della penna e "la penna è, per lui, nient'altro che un fonografo" (Croce, p. 128). Ma è in questo il valore grandissimo dell'opera, documento linguistico di notevole importanza storica. La lingua primitiva del D. ci registra la parlata napoletana della seconda metà del Quattrocento e, più della koinè semicolta di un Carafa, di un Masuccio, di un De Jennaro o di un Del Tuppo, ci consente di ricostruire la storia del dialetto napoletano. D'altra parte proprio per questi suoi pregi di naturalezza e vivacità la lingua derosiana conferisce alla prosa illetterata e rozza delle memorie effetti di particolare piacevolezza, di intenso espressionismo; attraverso di essa possiamo gustare "il brio popolano, la saggezza del viveur, lo scenario affascinante dei vichi e della periferia napoletana, il frastuono delle pugne civili al grido di Raona!Raona!", possiamo cogliere ancora pulsante "il senso di una città e di un tempo" (Petrocchi, p. XXXI).
Fonti e Bibl.: B. de Montfaucon, Bibliotheca bibliothecarum manuscriptorum nova, II, Parisiis 1739, p. 893; A. Marsand, I manoscritti italiani della R. Bibl. parigina, Parigi 1835, pp. 435 s.; G. De Blasiis, Tre scritture napol. del sec. XV, in Arch. stor. per le provv. napol., IV (1879), pp. 411-67; G. Filangieri, Nuovi documenti intorno la famiglia, le case, e le vicende di Lucrezia d'Alagno, ibid., XI (1886), pp. 94-97; G. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti ital. delle bibl. di Francia, II, Roma 1887, pp. 226-34; E. Monaci, Crestomazia ital. dei primi secoli, Città di Castello 1889, pp. 553-56; G. De Criscio, Cenni biografici degli uomini e donne illustri di Pozzuoli, Pozzuoli1891, pp. 17 ss.; G. Mazzatinti, La bibl. dei re d'Aragona in Napoli, Rocca San Casciano 1897, pp. XXXVIII ss., 110 s.; P. Savj Lopez, Un contributo meridion. alle Storie di Cesare, in Giorn. stor. della letterat. ital., XXXIII (1899), pp. 340-46; Id., Studi d'antico napolet., in Zeitschrift für romanische Philologie, XXIV (1900), pp. 501-07; Id., Appunti di napolet. antico, ibid., XXX (1906), pp. 26-48; Id.M. Bartoli, Altitalienische Chrestomathie mit einer gramm. Obersicht u. einem Glossar, Strassburg 1903, pp. 148-51; E. Gothein, Il Rinascim. nell'Italia meridion., Firenze 1915, pp. 495 s.; B. Croce, Sentendo parlare un vecchio napolet. del Quattrocento, in Storie e leggende napolet., Bari 1919, pp. 118-39 (già in Arch. stor. per le provv. napolet., XXVIII [1913]); L. Di Francia, Novellistica, I, Milano 1924, pp. 455 s.; A. Altamura, L'Umanesimo nel Mezzogiorno d'Italia, Firenze 1941, pp. 107 s.; Id., Testi napolet. del Quattrocento, Napoli 1953, pp. 15 s., 82, 84; T. De Marinis, La bibl. napolet. dei re d'Aragona, I, Milano 1952, pp. 98 s.; II, ibid. 1974, pp.64 s.; B. Migliorini-G. Folena, Testi non toscani del Quattrocento, Modena 1953, p. 69; G. Petrocchi, M. Guardati e la narrativa napolet. del Quattrocento, Firenze 1953, pp. 35-41; Masuccio Salernitano, Il novellino. Con appendice di prosatori del '400, a cura di G. Petrocchi, Firenze 1957, pp. XXV s., XXX s., 533-83, 694-97 (rist. 1983); S. Gentile, Postille ad una recente ediz. di testi narrativi napolet. del '400, Napoli 1961, pp. 118, 34-118; E. Malato, Un libro di memorie del Quattrocento, in Mattino di Napoli, 3 marzo 1967; F. Tateo, La letterat. in volgare da Masuccio Salernitano al Chariteo, in La letterat. ital. Storia e testi, a cura di C. Muscetta, III, 2, Bari 1972, pp. 548-551; A. Altamura, La letterat. volgare a Napoli, in Storia di Napoli, IV 2, Napoli 1974, pp. 535 s.; G. Contini, Letterat. ital. del Quattrocento, Firenze 1976, pp. 525-28; C. De Sio, Prospettive critiche per un rapporto tra Masuccio e L.D., in Masuccio novelliere salernitano dell'età aragonese, a cura di P. Borraro - F. D'Episcopo, I, Galatina 1978, pp. 149-61; S. Gentile, Repatriare Masuccio al suo lassato nido. Contributo filologico e linguistico, ibid., II, Galatina 1979, ad Indicem; J. H. Bentley, Politics and culture in Renaissance Naples, Princeton 1987, pp. 3-6; N. De Blasi-A. Varvaro, Napoli e l'Italia meridionale, in Letteratura italiana (Einaudi), Storia e geografia, II, L'età moderna, Torino 1988, pp. 247 s.