SERGARDI, Lodovico
– Nacque a Siena, da Curzio e da Olimpia Biringucci, il 27 marzo 1660 e venne battezzato lo stesso giorno.
Le nozze dei genitori, celebrate nel febbraio del 1648, serravano ulteriormente i ranghi di quel gruppo di famiglie nobili che vantavano antiche origini cittadine, monopolizzavano il sistema delle cariche, possedevano palazzi entro le mura e proprietà nello Stato senese. Di cinque figli maschi solo tre raggiunsero l’età adulta: al primogenito Filippo (nato nel 1654), chiamato a perpetuare la discendenza con una Isabella di Sallustio Forteguerri e ad accrescere il patrimonio (compito che si apprestò a svolgere diligentemente, allargando la tenuta di Monte Po in Maremma), seguirono Lodovico e Giovanni Andrea (nato nel 1663), monaco certosino che rimase stabilmente a Siena.
Sergardi trascorse i primi anni della sua vita nella città natale, dove ricevette un’educazione articolata, probabilmente per volere del padre, lui stesso erudito e autore di una Descrizione della città di Siena, rimasta inedita, ma presumibilmente databile al 1679.
Il giovane Lodovico studiò discipline filosofiche, teologiche e fisiche ed ebbe come maestro Pirro Maria Gabrielli. Non venne trascurata neanche la sua formazione artistica sotto la guida di Dionisio Montorselli, autore di tele e affreschi per chiese e oratori di Siena.
Il 13 ottobre 1684 prese la via di Roma e della carriera ecclesiastica, supportato economicamente, oltre che dal padre, anche dalla nonna Lucrezia Accarigi. Ottenuto il dottorato in utroque iure, ebbe quasi subito la possibilità di farsi notare nell’ambiente curiale. Alla morte di Innocenzo XI, nel 1689, venne incaricato dal cardinale Pietro Maria Petrucci di tenere l’orazione finale ai cardinali che entravano in conclave. Si conquistò rapidamente la benevolenza del nuovo papa, Alessandro VIII Ottoboni e soprattutto quella del nipote, il cardinale Pietro, vicecancelliere di Roma.
Nel frattempo erano morti a Siena sia il padre Curzio sia, in particolare, la nonna Lucrezia che, affinché «egli in Roma, dove si è portato possa più facilmente e con maggiore commodità tirarsi avanti nelle lettere e negli studi ed esercitare il talento grande che gli ha dato il Signore Dio» (Archivio di Stato di Siena, Sergardi Biringuggi Spannocchi, 54), lasciò a Lodovico la quarta parte dei beni dotali ed extradotali. I due fratelli maggiori decisero di mantenere unito il patrimonio di famiglia, ma di dividersene la gestione: a Filippo andò quella delle proprietà di Siena mentre a Lodovico quella dei beni romani. I rapporti tra i due si mantennero comunque ottimi e Filippo, nel 1695, decise anche di lasciare al fratello minore un vitalizio di 700 scudi all’anno sulle rendite della tenuta di Catignano, poco fuori Siena. La carriera alla Curia di Roma era costosa e bisognava dimostrare di avere rendite consistenti, ma i vantaggi che ne potevano derivare erano consistenti e sarebbero andati a tutta la famiglia del prelato e Lodovico non sembrava voler tradire le aspettative.
Giunto a Roma, godette della protezione dei Chigi – sin dal 1686 è testimoniata infatti la sua presenza nella villeggiatura di Ariccia, dimora estiva della famiglia – e seguì un cursus honorum piuttosto tipico cominciato con la carica di referendario della Segnatura apostolica, per ottenere la quale era necessario dimostrare di avere una rendita di 1500 scudi, denaro che, come si è detto, Sergardi racimolò usufruendo dei beni familiari.
Dal 1690 fu segretario del cardinal Pietro Ottoboni, o «auditore» come riferiscono gli Stati delle anime dal 1700 al 1712, quando Lodovico andò a risiedere con il suo servitore presso il palazzo della Cancelleria, sede dell’affollata corte cardinalizia di Pietro.
Dagli anni Novanta ebbe inizio anche la sua produzione letteraria, ispirata dalla frequentazione delle accademie letterarie e dai convivi aristocratici che, in palazzi e teatri privati, quegli stessi accademici chiamavano a raccolta.
Le conversazioni designavano il vivere sociale e, nella Roma del tempo, la convivenza del gruppo sociale di aristocratici e curiali del quale anche Sergardi faceva parte. La socialità aristocratica venne a saldarsi nello spazio dell’accademia letteraria: ascritto in Arcadia nel 1691 con il nome di Licone Trachio, di lì a poco divenne accademico d’onore dell’Accademia di San Luca. In queste riunioni di pubblici aristocratici l’ideale era rappresentato dall’uomo faceto, collocato nel punto mediano di opposti viziosi. La produzione letteraria di Sergardi recepì il linguaggio del suo ambiente e le regole che ne scandivano il funzionamento.
Nel 1694 comparve la prima edizione latina delle sue Satyrae, un testo concepito per divertire e colpire gli avversari, nella migliore tradizione delle satire latine cui l’autore rimaneva piuttosto fedele. Il principale obiettivo polemico era Gianvincenzo Gravina.
Con lo pseudonimo di Filodemo, Gravina divenne nei versi di Sergardi il bersaglio di un’aggressività che non andava a investire soltanto il letterato, ma tutta la Roma curiale e clientelare nella sua ostentazione di grandezza. A Filodemo Sergardi oppone se stesso – Settano – che si allontanava dall’alterigia nobiliare (le descrizioni puntuali contenute nelle Satire ne restituiscono un quadro vivido) per trovare la tranquillità suburbana nell’Esquilino.
La reazione di Gravina fu immediata: dapprima, tramite Emmanuel Martí, erudito spagnolo cui rimase legato tutta la vita, demolì le Satyrae dal punto di vista linguistico e stilistico; poi fu lo stesso Filodemo bersagliato a colpire Settano accostando i suoi scritti a pasquinate che avevano il solo scopo di spargere veleno. Il conflitto tra i due letterati non era tuttavia soltanto uno scontro personale, ma andava a investire l’interpretazione classicistica della poetica e la vasta questione dell’apertura alla scienza e alla filosofia moderna. Il testo di Sergardi tuttavia ebbe un grande successo, tanto da spingerlo a lavorare dal 1712 a una traduzione in volgare per renderlo fruibile a cerchie più vaste di pubblico.
In una lettera del 1718 al suo amico senese Giulio del Taja (un epistolario ricchissimo che abbraccia gli anni compresi dal 1709 al 1725 e che scioglie molti nodi sul problema dell’attribuzione), Sergardi raccontò la fortuna del testo, mentre in un’altra espresse la sua fiducia sull’efficacia moralizzatrice dei versi nella società romana parassitaria e dissipatrice. La figura di Sergardi mostra da una parte l’esigenza di rinnovamento della vita culturale romana e la volontà di rottura con l’esperienza secentesca, ma, dall’altra, le contraddizioni e i limiti di quella stessa esigenza di rinnovamento.
Dal 1701 era diventato inoltre consultore della Congregazione dell’Indice in cui seppe sfruttare la duplicità del suo ruolo pubblico e della sua appartenenza senese per soddisfare le richieste di amici volte a ottenere licenze di lettura e bolle di indulgenza.
La mediazione benevola di Lodovico nei confronti dei suoi concittadini appare evidente nel caso del processo a Uberto Benvoglienti, il quale venne consigliato da Sergardi, in un fitto carteggio tra censore e censurato, di scrivere una confutazione ai suoi scritti incriminati.
Il 14 settembre 1713 il fratello Filippo morì a Siena lasciando sei figli tutti minorenni; il tribunale senese della Curia del Placito ne conferì la tutela alla madre, previo accurato inventario di tutti i beni del defunto. Lodovico chiese quasi subito alla cognata, rimasta vedova, di potersi occupare direttamente del secondogenito Lattanzio, anche lui avviato alla carriera ecclesiastica, e di poterlo crescere a Roma; Isabella acconsentì e il giovane, due mesi dopo la morte del padre, andò ad abitare in un appartamento a piazza Navona, dalla parte delle Cinque Lune, che lo zio Lodovico aveva affittato per loro due.
La casa, sede di una raffinata pinacoteca, rimase la residenza di Lattanzio anche dopo la morte dello zio e costituì il supporto materiale alla sua carriera curiale, il segno della sua attiva presenza in città utile almeno quanto le visite a dame e cardinali, pratica alla quale lo introdusse Lodovico.
Nel 1718 venne nominato da Clemente XI prefetto della Fabbrica di San Pietro e gli venne affidato il restauro di parte del palazzo della Cancelleria. Lodovico mantenne la carica anche nel breve pontificato seguente di Innocenzo XIII Conti (1721-24) e si occupò della scalinata di Trinità dei Monti e del restauro dell’obelisco vaticano.
Nel 1726, probabilmente amareggiato dal mancato ottenimento della porpora cardinalizia – l’elezione di papa Benedetto XIII Orsini, nel 1724, aveva notevolmente indebolito la sua posizione in Curia –, privo di incarichi prestigiosi e bersaglio di maldicenze, si ritirò a vivere a Spoleto.
Qui morì, il 27 novembre 1726, e fu sepolto all’interno del duomo.
Le sue ceneri sarebbero state traslate nella cappella gentilizia al cimitero della Misericordia di Siena soltanto nel 1869. Pochi giorni prima di morire aveva fatto redigere le sue ultime volontà in cui nominava erede universale il nipote Lattanzio, che aveva cresciuto come un figlio, affidandolo alla protezione del cardinal Annibale Albani che gli era subentrato quale prefetto della Fabbrica di San Pietro.
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