MENIN, Lodovico
MENIN (Menini), Lodovico. – Nacque ad Ancona il 9 sett. 1783 da Luigi Menini e Domenica Ciuffuti. Abbandonato in tenera età dalla madre, mentre questa si trovava a Padova, fu accolto in un orfanotrofio di questa città.
A sette anni entrò nel seminario padovano, dove apprese il greco, il latino, il francese, distinguendosi poi negli studi teologici e filosofici. Nel 1806 fu ordinato sacerdote. Iniziò allora, presso il medesimo seminario, una carriera di insegnante di grammatica e poi di fisica e storia naturale, fondandovi tra l’altro un gabinetto di macchine e di fossili; fu anche precettore in alcune case patrizie.
Con la Restaurazione il M., che aveva esordito nell’attività pubblicistica con discorsi ufficiali e versi in lode di Napoleone, prese le distanze dal passato regime e, restando su posizioni moderate, si avvicinò al regime austriaco. Influenzato da G.B. Vico, J.-B. Bossuet e L.A. Muratori, elaborò un proprio sistema filosofico e storiografico, improntato a una visione cristiana della storia, conferendo importanza non solo alle vicende dei popoli ma anche alla conoscenza dei loro usi, costumi e tradizioni.
Dopo la riforma del sistema universitario imperial-regio, nel 1818 il M. vinse il concorso per la cattedra di storia universale nell’ateneo di Padova, che gli fu attribuita con decreto del 29 maggio 1820. Fu in questa occasione che, per un errore di scrittura sul testo ufficiale del decreto, il suo cognome originario fu venetizzato in Menin, variante che subito si impose e che egli stesso fece propria.
Le fonti sono concordi nell’attestare il successo delle sue lezioni, tenute con appassionata eloquenza; recitava le lezioni a braccio e spiegava spesso la storia per immagini, avvalendosi di stampe prese in prestito dalla Biblioteca universitaria. Alle sue lezioni erano presenti non solo gli studenti, ma anche liberi uditori: uomini di cultura, donne, religiosi, ufficiali della guarnigione austriaca, colti turisti di passaggio. Proprio per questa sua facilità oratoria gli venivano spesso affidati discorsi ufficiali dalle autorità accademiche o cittadine (era tra l’altro membro della Giunta per l’0rnato); dal 1833 al 1838 fu anche oratore domenicale presso la chiesa degli Eremitani.
In ragione di questa sua fama, nel 1836 la città di Ancona, sua patria, lo aggregò al patriziato cittadino.
Brillante fu anche la sua carriera accademica. Nel 1824 ottenne il titolo dottorale; già membro dell’Accademia di scienze, lettere ed arti di Padova, nel 1825 ne divenne segretario perpetuo per la classe di scienze matematiche e naturali. Entrò quindi a far parte dell’Ateneo veneto, dell’Accademia di belle arti di Venezia e dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, istituito nel 1839, dove lesse numerose dissertazioni e di cui divenne, inoltre, vicepresidente e presidente. Nel 1842 prese la supplenza della cattedra di filologia greca e latina, lasciata temporaneamente vacante da G. Petrettini.
Aveva intanto iniziato a porre mano ai fascicoli mensili della sua opera maggiore, il Costume di tutte le nazioni e di tutti i tempi (Venezia-Padova 1829), poi accresciuto e ristampato in tre ponderosi volumi (Costume antico, Padova 1833; Costume del Medio Evo, ibid. 1834; Costume moderno, ibid. 1843) corredati di tavole illustrative: una immensa summa enciclopedica di storia dell’arte e del costume, pubblicamente lodata da P. Selvatico, già suo allievo.
Nel 1844-45 il M., per la prima volta rettore magnifico dell’Università di Padova, lesse l’orazione inaugurale Sulle deviazioni dello spirito umano in Italia dopo il risorgimento di buoni studi (Padova 1845). Nel 1846 fu nominato direttore della facoltà filosofica.
Il M., amante della tranquillità e sempre ligio all’autorità costituita, fu talvolta, suo malgrado, costretto dagli eventi a prendere posizione, più spesso giocò il ruolo di mediatore, particolarmente scomodo in tempi di entusiasmi rivoluzionari.
Rifiutava di frequentare i circoli liberali del caffè Pedrocchi, preferendo le conversazioni private; e proprio per questo andava soggetto alle feroci critiche dell’intellettualità padovana patriottica che in seguito gli avrebbe fatto pagare la sua costante linea di disimpegno. Se ne videro le conseguenze alla vigilia dei moti del 1848, quando il M. rifiutò di sottoscrivere la denuncia dei soprusi austriaci fatta da N. Tommaseo in una celebre seduta dell’Istituto veneto. Ne scaturì un vespaio di pettegolezzi, che gli costò la simpatia degli studenti che per protesta disertarono in massa una sua lezione.
Dopo i fatti del marzo 1848 il M. sembrò accettare il nuovo governo provvisorio padovano: tra il 1° e il 3 maggio pronunciò nella chiesa di S. Francesco una sacra supplica per il successo delle truppe piemontesi e dei contingenti degli altri Stati italiani che combattevano gli Austriaci; in diverse occasioni – pur non credendo mai sinceramente nella vittoria finale – criticò le vacue discussioni dei circoli patriottici, esortando piuttosto a prendere le armi.
Tornati gli Austriaci il M., osteggiato dai patrioti e sospetto al governo, scelse il silenzio e, pur rimanendo a capo della facoltà filosofica, ottenne il trasferimento alla direzione della Biblioteca universitaria e accettò la presidenza della Commissione per la riforma degli studi superiori del Regno Lombardo-Veneto, creata per elaborare un nuovo piano di istruzione che però non fu approvato; collaborò quindi, con una nuova commissione ministeriale, a un diverso piano d’istruzione liceale e universitaria. Nel 1853 diresse il seminario filologico, giunta speciale per il reclutamento dei professori secondo il nuovo sistema di istruzione. Nel 1857 fu insignito dell’Ordine della Corona di ferro e nuovamente eletto rettore.
Nel 1860 gli fu accordata la pensione di docente, ma restò direttore della facoltà filosofica e presidente della commissione per gli aspiranti alle cattedre ginnasiali nelle province venete. Eletto per la terza volta rettore magnifico nel 1862, nel 1863 ottenne la commenda dell’Ordine di Francesco Giuseppe; in questo periodo compì un lungo viaggio d’istruzione storico-artistica in Germania, Francia e Inghilterra.
Nel 1866, dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, il M., ormai ottantaquattrenne, fu destituito dalla direzione dello studio filosofico: si insinuò che il provvedimento fosse frutto di una campagna denigratoria contro gli accademici che nel 1848 si erano resi sospetti di austriacantismo. Nel 1867 una supplica del M. per la reintegrazione fu respinta.
Il M. morì a Padova il 14 febbr. 1868.
Fonti e Bibl.: Padova, Arch. antico dell’Università, Stato di servizio del prof. abate L. M. (4 ag. 1854); Stati di servizio del personale (1855); Arch. di Stato di Venezia, Luogotenenza, Inventario, ad ind.; Arch. di Stato di Milano, Autografi, b. 143; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Mss., P.D. 123.C; Cenno biografico intorno l’abate L. M. d’Ancona, Ancona 1832; P. Selvatico, in Riv. europea, 15 giugno 1839 (rec. al II volume del Costume di tutti i tempi e di tutte le nazioni); I. Cantù, L’Italia scientifica contemporanea, Milano 1844, p. 301; M. Bonato, Vita dell’illustre abate L. M. patrizio anconitano…, Padova 1868; V. Grazioli, L. M. (1783-1868): studio bio-bibliografico, diss., Università degli studi di Padova, a.a. 1971-72; M.C. Ghetti, L’Università di Padova tra la Repubblica veneta e Restaurazione (1790-1817). Struttura e organizzazione, diss., Università degli studi di Padova, a.a. 1981-82; A. Maggiolo, I soci dell’Accademia Patavina, Padova 1983, p. 199; D.A. Halbwidl, A Restoration scholar: L. M. and the «Concorso» of 1818, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, XXII-XXIII (1989-90), pp. 285-294; I Dandolo e il loro ambiente. Dall’epopea rivoluzionaria allo Stato unitario (catal.), a cura di B. Falconi - V. Terraroli, Milano 2000, pp. 99 s.
C. Chiancone