MAZZOTTI BIANCINELLI, Lodovico
– Nacque a Chiari, presso Brescia, il 21 giugno 1870 da Francesco Mazzotti e da Angelica Bellini. Il cognome Biancinelli venne aggiunto con r.d. 28 marzo 1880.
Il 2 dic. 1895 sposò Lucrezia dei conti Faglia, ventiduenne vedova del conte A. Fenaroli. Proprietaria terriera, ella apparteneva a una famiglia di antico lignaggio già legata ai Mazzotti. Nel 1895, infatti, il padre del M. figurava come tutore della di lei sorella, Paolina. Con Lucrezia il M. ebbe due figli, Angelica e Francesco, futuro cofondatore della corsa automobilistica «Mille miglia».
La vita del gentiluomo di campagna e l’amministrazione delle proprietà terriere familiari non appagavano il M. che, conseguita una laurea in giurisprudenza e probabilmente sollecitato dalla vivacità e dalle opportunità economiche offerte da Milano, vi si trasferì con la famiglia.
I legami con Chiari non vennero tuttavia mai recisi, a perseguire una tradizione familiare di impegno nella gestione della cosa pubblica e in altre istituzioni locali che lungamente vide impegnati anche il padre e il fratello, Fiorentino. Dal 1908 al 1933 il M. fu tra i curatori dell’orfanotrofio femminile, dal 1909 al 1917 fu membro del Consiglio comunale e dal 1910 al 1925 ricoprì la carica di vicepresidente e dal 1925 al 1933 quella di presidente della locale Banca popolare. Poco prima di morire donò la casa paterna all’asilo infantile, al quale aveva già in passato devoluto somme in beneficenza.
Nel 1900 il M., insieme con G. Ferri, costituì in Milano una società in nome collettivo che operava come commissionaria di banca, in stretto rapporto con la Banca commerciale italiana (BCI), sotto la ragione sociale Mazzotti e Ferri.
In quella sede il M. poté apprezzare le qualità di E.A. Giani, che sarebbe divenuto il suo più assiduo e fidato collaboratore. Entrato come dipendente nella Mazzotti e Ferri, questi, divenuto nel 1904 agente di cambio, operò in Borsa per poco meno di un trentennio come interfaccia del M., il quale se ne serviva per i suoi investimenti. Il sodalizio si protrasse fino al 1931, epoca in cui Giani subì un rovescio finanziario che pose fine alla sua carriera.
Nel 1904 la società commissionaria venne sciolta e liquidata dallo stesso Mazzotti. I legami con la BCI vennero però mantenuti e rinsaldati. Il M. rivestì infatti il ruolo di fiduciario esterno dell’azienda di credito presso la società anonima Palazzo della Borsa di Milano, di cui fu presidente tra il 1909 e il 1920. In quegli anni egli diede definitivamente corso alla sua formidabile carriera di speculatore, una vocazione questa che travalicava l’aspetto imprenditoriale della sua attività, che le fonti evidenziano come subordinata e strumentale a quella di borsa.
Nel 1913 venne proposto dal ministero dell’Agricoltura per una distinzione cavalleresca in qualità di bonificatore di terreni nel Ferrarese. Era la prima di una lunga serie culminata con la concessione del titolo di conte, per meriti economici, il 28 dic. 1928. Proprietario terriero nel Bergamasco nonché nell’alta pianura bresciana e in varie altre province italiane, il M. diversificò attività e rischi controbilanciando, con l’acquisto di terreni, la speculazione mobiliare e immobiliare. Una parte importante delle sue proprietà era in Codigoro, nel Ferrarese, dove nel 1910 acquistò 2500 ha dalla Società anonima agricolo-industriale La Codigoro. Questi beni si assommavano ad altri immobili nonché a interessenze in locali società anonime, specie del ramo zuccheriero, un settore in cui il M. operava almeno dal 1907, quando sollecitò gli interventi della Banca d’Italia a sostegno della Società bancaria italiana, al cui consiglio di amministrazione apparteneva. Anche successivamente il suo impegno nell’ambito degli zuccherifici venne rinnovato e ampliato. Tra il 1910 e il 1929 il suo nome si incrociava con regolarità nei direttivi di una dozzina di queste aziende con quello di altri noti speculatori (tra cui M. Bondi, G. Belloni, G. Podestà). Questa circostanza lascia pensare a pratiche di watering («annacquamento», ossia sopravvalutazione del capitale nominale d’azienda rispetto all’effettivo valore del patrimonio, ottenuta gonfiando il valore delle attività, comprese le partecipazioni azionarie in altre aziende, e riducendo le passività) e, quantomeno, evidenzia robuste connessioni intrasettoriali che, non infrequentemente, erano anche intersettoriali e si dipanavano tentacolarmente in una variegata rosa di anonime dei più diversi comparti produttivi.
È tuttavia a partire dagli anni precedenti il primo conflitto mondiale che, complice anche la maggiore disponibilità di fonti, si riesce ad apprezzare appieno l’ampiezza e la portata degli interessi del M. e la sua spregiudicatezza che lo condusse, tra guerra e dopoguerra, a partecipare ad alcune tra le più discusse operazioni finanziarie realizzate nella penisola. Già qualche anno prima, tuttavia, il suo nome aveva acquisito nel capoluogo lombardo una poco lusinghiera fama, connessa a un processo d’aggiotaggio per manovre ribassiste, che fu intentato a carico di diversi banchieri e agenti di cambio e di cui il M. fu il principale imputato. Celebrato nel 1909, tale processo vide comunque il M. prosciolto in Camera di consiglio per inesistenza di reato. Certo è che nel volgere di pochissimo tempo egli conseguì una grande ricchezza, rivelata anche dal trasferimento della residenza milanese nel palazzo di piazza Castello e, soprattutto, dalla costruzione della villa di Chiari, iniziata nel 1911 e progettata da due esponenti dell’avanguardia artistica del liberty italiano, gli architetti A. Vandone e A. Citterio. Il complesso, valutato una ventina di milioni, si estendeva su una superficie di 10 ha (tra edifici e parco), e la sola villa padronale si articolava in 80 stanze.
Nel 1910 il M. figurava tra i consiglieri dell’Ilva Altiforni e acciaierie d’Italia, società di cui sostenne in maniera determinante l’abnorme processo di sviluppo finanziario. Sodale di Bondi, lo appoggiò nel 1917 nella manovra di accaparramento di partecipazioni in società che erano titolari di importanti pacchetti di azioni dell’Ilva. Il fine era quello di acquisire, tramite queste, il controllo di quella.
Dal 1918 il talento del M. poté quindi dispiegarsi in seno all’Ilva e da qui in altre importanti aziende italiane. Fu di quegli anni il suo ingresso nel direttivo della Società adriatica di elettricità (SADE) e nella neocostituita Tubi Togni, dove lo si ritrova, unitamente a Bondi, accanto a uno dei suoi principali referenti bresciani: il notaio, nonché consuocero di G. Togni, G. Porro Savoldi. Con questo, negli anni della guerra, il M. tentò senza successo di trasformare il Credito agrario bresciano (CAB) in braccio finanziario di spregiudicate iniziative di natura industriale e speculativa.
Il M. rimase nel CAB dal 1914 al 1919. In quegli anni (particolarmente a partire dal 1916, quando Porro Savoldi divenne presidente del consiglio di amministrazione e lui vicepresidente) i verbali testimoniano un robusto e repentino sbilanciamento degli interessi della banca dal settore agricolo a quello industriale e, nella fattispecie, nelle industrie in cui il M., congiuntamente o disgiuntamente c0n Porro Savoldi e Bondi, era interessato (SADE, Isotta Fraschini, Società elettrica Milani, Cotonificio veneziano, Società elettrica Riviera di Ponente, Fabbriche italiane materie coloranti Bonelli, Cotonificio Turati, Officine meccaniche italiane, ecc.). Si trattava di interventi estranei alla usuale operatività del CAB, solo parzialmente giustificabili con la peculiare congiuntura del tempo e che comunque, con l’esclusione del sostegno al gruppo Togni, rimasero circoscritti a quel triennio. La vicenda si concluse nel 1919 nel corso di un’assemblea degli azionisti che vide le dimissioni dell’intero consiglio di amministrazione, seguito dal reincanalarsi della banca entro gli usuali binari di operatività.
Nel settembre 1918 il M. fu tra coloro che pilotarono una calcolata ascesa dei corsi dei titoli Isotta Fraschini per poi curarne la vendita all’Ilva.
La manovra fu poi giustificata come un’azione preliminare a una cessione delle azioni alla FIAT che si ventilava avesse fatto avances per riscattarle. La vendita dei titoli al prezzo massimo raggiunto dal listino consentì ai «pronubi» dell’operazione – nonché detentori di consistenti pacchetti azionari dell’azienda automobilistica milanese – la realizzazione di cospicui lucri personali. La cessione alla FIAT, per contro, non ebbe poi luogo.
Sempre nel 1918 il M. fu tra coloro che sostennero il tentativo da parte dell’Ilva, poi fallito, di rastrellare azioni della Edison per rovesciarne il gruppo di comando. Nel 1919 quindi, dopo essere stato tra gli artefici dell’accordo raggiunto fra l’Ilva e la Terni, fu ancora una volta al fianco di Bondi nella scalata alla Bastogi, una società ex ferroviaria riconvertitasi, dopo il 1905, in finanziaria di investimento.
Nel disegno di Bondi, che capitanava l’operazione, l’acquisizione del controllo di quella azienda era funzionale a dare liquidità al gruppo polisettoriale che a lui faceva capo. In quell’ottica, per consolidare, tra il 1919 e il 1920, la posizione dell’Ilva in seno alla finanziaria, Bondi inserì nel suo direttivo alcuni uomini di fiducia tra cui, appunto, il Mazzotti Biancinelli. Nella tarda primavera del 1920, dopo che 160.000 azioni Bastogi di nuova emissione furono assunte dalla Società generale per lo sviluppo delle aziende minerarie e metallurgiche – alla quale facevano capo, in vario modo, le innumerevoli società formanti la «catena» dell’Ilva– ci fu un tracollo borsistico cui si accompagnò il collasso del gruppo polisettoriale. Le banche miste si impegnarono nel salvataggio. L’assemblea degli azionisti Bastogi del 31 maggio 1921 sancì l’allontanamento degli «scalatori», estromessi anche dalla dirigenza dell’Ilva. Nel gennaio 1922, nel tentativo di alleggerire la loro posizione sul piano penale, quattro degli ex amministratori della conglomerata – Bondi, il M., A. Luzzatto e C. Fera – si offrirono di versare complessivamente 29,4 milioni di lire (un impegno che doveva essere sostenuto per circa l’81% dai primi due nella proporzione, rispettivamente, del 46 e del 35%). Il successivo procedimento penale intentato contro gli ex amministratori e sindaci dell’Ilva venne devoluto, a causa della presenza di due senatori, alla commissione permanente dell’Alta Corte di giustizia. Il 4 marzo 1922 questa dichiarò il non luogo a procedere perché il fatto non costituiva reato dipendendo «da criteri di valutazione e non da dolo».
La defenestrazione dall’Ilva, le difficoltà borsistiche connesse all’emanazione dei provvedimenti restrittivi voluti dal ministro delle Finanze A. De Stefani e, probabilmente, le occasioni offerte dalla ricostruzione postbellica condussero il M., a metà degli anni Venti, a occuparsi con rinnovato vigore della speculazione immobiliare. All’ormai pluriennale impegno nell’Istituto fondi rustici e nella Società anonima italiana per le imprese fondiarie il M. unì – affiancandosi nuovamente a Bondi e a un altro dei suoi usuali partner d’affari, il finanziere milanese A. Gussi – la sua partecipazione in alcune società interessate alla compravendita di immobili: la Aedes e l’Immobiliare Cordusio di Milano, la Urbs di Roma e la Società anonima per le bonifiche pontine.
Lo smacco subito in occasione dell’attacco alla Edison, tuttavia, non aveva attenuato il suo interesse per il comparto elettrico, un settore in cui egli rivestì, specie nei tardi anni Venti, un ruolo di primo piano. Fu così anche per la BCI che, impegnata nelle cosiddette guerre parallele disputate tra i maggiori gruppi industriali e finanziari del Paese, intensificò negli ultimi anni del conflitto i suoi interventi verso la parte centromeridionale dell’Italia, dove seguì da vicino l’Unione esercizi elettrici (UNES) di cui deteneva, con alcuni alleati, il controllo.
La UNES era un’azienda che curava la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica nell’Italia centromeridionale, sul versante adriatico. La sua strategia di sviluppo si basava sull’acquisizione di complessi già funzionanti, un progetto sostenuto da ripetuti e ingenti aumenti di capitale: da 17 a 26 milioni nel 1919, a 42 milioni l’anno dopo, a 75 milioni nel 1922. Le nuove emissioni vennero gestite da un sindacato composto, tra l’altro, da BCI, Credito italiano e dal Mazzotti Biancinelli. Altri aumenti seguirono negli anni successivi fino a che, nel 1928, il capitale della UNES raggiunse la ragguardevole cifra di 228.750.000 lire.
L’ambiziosa strategia espansiva indusse la dirigenza della UNES ad acquisire imprese anche in zone tra loro distanti (con le connesse difficoltà di controllo) e a serbare un occhio di riguardo non tanto alla redditività potenzialmente ritraibile da questi investimenti quanto all’eliminazione della concorrenza. Molti degli impianti acquistati andavano rinnovati e spesso si largheggiò nell’aderire alle richieste, in questo senso, delle direzioni locali. Queste leggerezze nella gestione tecnica si appaiavano a una sconsiderata politica di elevati dividendi (il 96% degli utili era riservato alle azioni e per 6 esercizi venne inopinatamente distribuito il 18%) che si voleva propedeutica ad agevolare il reperimento di capitali freschi e a sostenere i corsi delle azioni. Questo quadro si coniugava agli usuali comportamenti deteriori perseguiti sia dal M. (detentore di un cospicuo pacchetto azionario e divenuto presidente della società nel 1927) sia dall’amministratore delegato, l’ingegner O. Simonotti.
La resa dei conti venne fra il 1931 e il 1932, quando agli errori commessi nella gestione dell’azienda si sommarono gli effetti negativi della crisi economica internazionale. Il M. e Simonotti furono denunciati per truffa, falso e aggiotaggio. Il procedimento si concluse nel 1933 con un non luogo a procedere per estinzione dell’azione penale dovuta ad amnistia; la UNES, intanto, veniva acquisita dall’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI).
Per il M. un altro ciclo si chiudeva. Nell’assemblea degli azionisti dell’Isotta Fraschini del 5 nov. 1932 il M., allora presidente della società, propose, a nome del consiglio di amministrazione, la riduzione del 90% del capitale sociale. Mancava il denaro per pagare gli operai, i fornitori, le tasse. Il prestigioso marchio scontava, oltre all’inadeguatezza tecnica della sua dirigenza, anche le conseguenze di un complesso di operazioni incaute e truffaldine compiute con le Ferrovie dello Stato italiano, con il governo sovietico e con il governo turco che avevano recato, oltre alle perdite, gravi danni all’immagine dell’azienda. Anche il ramo auto navigava in cattive acque. Dalla seconda metà degli anni Venti infatti la società scontava sia le scelte finanziarie della dirigenza sia la ristrettezza della sua selezionata clientela e gli oneri relativi al lancio di nuovi modelli e all’apertura di nuove filiali internazionali. L’incertezza della situazione aveva portato l’Isotta Fraschini ad abboccamenti con la Ford, che, alla ricerca di nuovi spazi sul mercato europeo, era in quel tempo impegnata a sondare gli umori delle locali gerarchie politiche in vista di una penetrazione nella penisola.
L’idea della casa di Detroit era quella di fare dell’azienda italiana una consociata che avrebbe costruito vetture di tipo Ford in uno stabilimento in cui sarebbero stati impiegati 4000 operai. Per parte italiana, l’operazione (caldeggiata dal M. e dall’amministratore delegato di Isotta Fraschini, G.R. Cella) aveva beneficiato dell’appoggio interessato di C. Ciano che vi aveva scorto l’occasione per rivitalizzare l’economia della sua città natale, Livorno.
I disegni della Ford, per converso, non erano piaciuti affatto a G. Agnelli che aveva tutto da perdere dall’ingresso di un concorrente di quel calibro. La FIAT, così, aveva fatto pressioni di ogni tipo su B. Mussolini per ottenere un provvedimento di legge di carattere straordinario che, includendo l’industria automobilistica fra le «attività interessanti la difesa nazionale», impedisse lo smercio di vetture «non confezionate integralmente nel Regno». Il duce fornì il suo pieno appoggio alla casa torinese e bloccò anche le successive proposte avanzate dalla Ford che aveva tentato di rilanciare l’iniziativa. In dicembre due nuovi decreti legge chiusero definitivamente il mercato italiano. Il M. dovette lasciare la presidenza dell’Isotta Fraschini, dove venne sostituito da un personaggio di estrazione politica, il senatore G. Vaccari.
Il M. morì a Milano il 26 giugno 1933.
I rovesci finanziari degli ultimi tempi avevano solo parzialmente intaccato le sue sostanze. Il suo patrimonio in immobili e in titoli in Italia e all’estero, che nel 1931 veniva stimato superiore ai 100 milioni, restava assai cospicuo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Brescia, Notai (Barcella Giacomo); Brescia, Arch. del Credito agrario bresciano, Verbali del consiglio di amministrazione, anni 1916-19; Arch. di Stato di Milano, Fondo Gabinetto di prefettura, I vers., Onorificenze, bb. 858, f. ad nomen; 711 (lettere del questore di Milano al prefetto, 31 dic. 1932 e 20 febbr. 1934); Milano, Arch. della Camera di commercio, Registro ditte notifiche, scatola 522, bobina 215; Arch. di deposito, cat. XX, cl. 1, Aziende speciali, Borsa valori, Agenti di cambio, Giani Emilio Angelo; Ibid., Arch. storico di Banca Intesa, Patrimonio BCI, Fondo Segreteria generale, cart. 14, f. 15, sottofasc. 2, 15 ott. 1918; Ufficio finanziario, cart. 12, f. 6 (lettera al ministero delle Finanze, Direzione generale del Tesoro, 13 genn. 1928); Sofindit, b. 272, f. 1 (chiarimenti del dr. Adamoli rispetto al bilancio UNES, 14 sett. 1930; f. 2, note di Adamoli a G. Toeplitz sul bilancio UNES chiuso al 30 giugno 1930; f. 3, relazione di Adamoli a Toeplitz, 22 dic. 1930); Roma, Arch. della Camera di commercio, Registro ditte, Fascicoli anagrafici cessati, n. 416; Ibid., Arch. storico della Banca d’Italia, f. sconti, bobina 13, 23 gennaio, 3 febbraio e 4 marzo 1932, 27 giugno 1933.
Necr. in Il Popolo di Brescia, 28 giugno 1933 e in Corriere della sera, 27, 28 e 29 giugno 1933. Le notizie sugli incarichi ricoperti dal M. nelle diverse società si ricavano dai volumi editi a cura del Credito italiano, Notizie statistiche sulle principali società italiane per azioni, negli anni 1908, 1910, 1912, 1914, 1916, 1918, 1925 e 1928, nonché dalla Biografia finanziaria italiana. Guida degli amministratori e dei sindaci delle società italiane per azioni, Roma 1929-31. Si vedano inoltre: Camera dei deputati, Relazioni della Commissione parlamentare per le spese di guerra, Roma 1923, II, pp. 143-267; E. Giretti, Le società anonime a catena, in La Riforma sociale, XLII (1931), pp. 78-106; F. Bonelli, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Torino 1971, ad ind.; V. Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino 1971, pp. 183, 457, 461; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975, ad ind.; T.A. Anselmi, Isotta Fraschini, Milano 1977; A. Carparelli, La siderurgia italiana nella prima guerra mondiale. Il caso dell’Ilva, in Ricerche storiche, VIII (1978), 1, pp. 143-161; G. Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa Valle Padana (1860-1915), Milano 1978, ad ind.; A. Carparelli, I perché di una mezza siderurgia. La società Ilva, l’industria della ghisa e il ciclo integrale negli anni Venti, in Acciaio per l’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, a cura di F. Bonelli, Torino 1981, pp. 5-158; A. Bellucci, L’automobile italiana, Roma-Bari 1981, ad ind.; A. De Maddalena, La banca Credito agrario bresciano. Qualche sosta accanto a pietre miliari della sua storia (1883-1965), in La banca Credito agrario bresciano e un secolo di sviluppo. Uomini, vicende, imprese, nell’economia bresciana, Brescia 1983, II, p. 512; M. Pegrari, Centodieci uomini in un secolo di attività della banca Credito agrario bresciano, ibid., pp. 551-559; E. Borruso, Struttura produttiva e gruppi imprenditoriali. L’esperienza di Brescia tra le due guerre (1917-1937), in Maestri e imprenditori. Un secolo di trasformazioni nell’industria a Brescia, Brescia 1985, pp. 53-64, 81-95; E. Conti, Dal taccuino di un borghese, Bologna 1986, pp. 310 s.; A. Aleotti, Borsa e industria. 1861-1989: cento anni di rapporti difficili, Milano 1990, ad ind.; A.M. Falchero, La Banca italiana di sconto, 1914-1921. Sette anni di guerra, Milano 1990, ad ind.; S. Onger, Il motore nel cuore. La Mille miglia parte da Brescia, in Lancillotto e Nausica. Critica e storia dello sport, VII (1990), 1-3, pp. 50-57; E. Borruso, Un’industrializzazione con fratture: il Bresciano tra due economie di guerra (1927-1940), in Banche e banchieri in terra bresciana negli anni Trenta, Brescia 1991, pp. 9-53; A. De Maddalena - M.A. Romani, I primi cent’anni del Credito bergamasco. 1891-1991, Bergamo 1991, ad ind.; G. Piluso, Lo speculatore, i banchieri e lo Stato. La Bastogi da Max Bondi a Alberto Beneduce (1918-1933), in Annali di storia dell’impresa, VII (1991), pp. 319-373; F. Amatori, Impresa e mercato. Lancia 1906-1969, Milano 1992, ad ind.; Storia dell’industria elettrica in Italia, I-III, Roma-Bari 1992-93, ad ind.; A. Confalonieri, Banche miste e grande industria in Italia 1914-1933, I-II, Milano 1994, ad ind.; S. Baia Curioni, Regolazione e competizione. Storia del mercato azionario in Italia (1808-1938), Bologna 1995, ad ind.; M. Romani, Le banche tra la fine della Grande Guerra e la ricostruzione (1920-1950), in Storia di Bergamo. Tra Ottocento e Novecento, III, Bergamo 1996, pp. 69-121; Banche e reti di banche nell’Italia postunitaria, a cura di G. Conti - S. La Francesca, Bologna 2000, ad ind.; Il gruppo Edison: 1883-2003, Bologna 2003, ad ind.; V. Spreti, Enc. storico-nobiliare italiana, IV, p. 520.