Martelli, Lodovico
Nacque a Firenze il 31 marzo 1500. Il padre, Lorenzo di Niccolò, fu coinvolto nell’ultimo governo repubblicano del triennio 1527-30, prima della definitiva resa della città alle truppe imperiali. Un fratello di Lodovico, Niccolò, partecipò invece attivamente alla congiura del 1522 contro Giulio de’ Medici, futuro Clemente VII, scontando, prima con la fuga e poi con il carcere, la propria avversione ai signori di Firenze.
Una precoce testimonianza sul conto di Lodovico viene da un volumetto che gli dedica Eufrosino Bonini nel 1515: si tratta della grammatica greca di Teodoro di Gaza stampata da Filippo Giunta. L’anno successivo lo stesso editore pubblicherà, con l’ausilio del medesimo curatore, un’altra grammatica greca, offrendola a Luigi Alamanni. Prima Martelli e poi Alamanni: non è un caso che i due fiorentini compaiano insieme sulla scena culturale della città, destinati entrambi a divenire stimati intellettuali, abili versificatori, colti rappresentanti di un’aristocrazia cittadina che volle, sul fronte letterario, dare un’alta prova della propria vocazione poetica, imitando o riducendo in volgare l’antica tragedia greca. Accanto a loro, Giovanni Rucellai e Alessandro Pazzi de’ Medici: sullo sfondo, gli Orti Oricellari, ove appare, in veste di maestro e di apprezzato commentatore politico, Niccolò Machiavelli. Non è dato sapere, tuttavia, se il giovane Martelli frequentasse i celebri giardini di casa Rucellai, le cui adunanze furono sospese proprio nel 1522: alcune fonti lo collocano, infatti, fuori da Firenze, in qualità di «piovanino» (ovvero chierico, secondo la notizia riportata alla c. 126 del ms. Ricc. 2731 della Biblioteca Riccardiana di Firenze) presso Casaglia nel Mugello (Slim 1983, p. 488).
Poco dopo il settembre 1524, Lodovico compose una Risposta alla epistola del Trissino delle lettere nuouamente aggionte alla lingua volgar fiorentina (stampata a Firenze, senza indicazione di data né di stampatore), dedicata al cardinale Niccolò Ridolfi, prendendo posizione contro la proposta del letterato veneto di inserire le lettere greche nell’alfabeto volgare. Insieme a questo, tuttavia, la Risposta martelliana risultava essere pure un’appassionata difesa della lingua fiorentina usuale: «ogni lingua nasce dall’uso di chi la parla, e quella della quale per noi si ragiona [la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio] di necessità si vede nata dall’uso toscano e fiorentino». Martelli metteva anche in dubbio la paternità dantesca del De vulgari eloquentia («io vorrei altro segnale che il titolo a farmi certo che così fatta opera di Dante sia»), trattato su cui Giangiorgio Trissino voleva fondare la propria dottrina della lingua letteraria, e che avrebbe pubblicato, in traduzione italiana, di lì a poco (1529). Lo scritto di Martelli esibisce numerosi punti di contatto con il Discorso intorno alla nostra lingua (→) attribuito a M.: se questo fu redatto nell’ottobre del 1524, fu poi reso noto a Lodovico e da lui utilizzato. Ad attestare un rapporto fra Martelli e M. concorre il fatto che, fra le Rime di Lodovico (pubblicate postume nel 1533), si trovino due madrigali, “Chi non fa pruova Amore” e “Sì suave è l’inganno”, composti da M., come intermezzi, in occasione della messa in scena fiorentina della Clizia (1525) e poi di quella faentina della Mandragola (1526).
Comprovati legami ebbe Martelli con Ippolito de’ Medici, figlio di Giuliano: nel 1523, Clemente VII, appena eletto papa, inviò a Firenze proprio Ippolito insieme ad Alessandro, figlio di Lorenzo. Ippolito, nominato cardinale, sarà poi (fino alla morte, nel 1535) punto di riferimento dei fuoriusciti fiorentini avversi al duca di Firenze; viene esplicitamente invocato da Lodovico nella canzone CXXX rivolta alla Vergine (“Donna del Ciel, se l’umiltate e ’l pianto”, cfr. Rime, a cura di L. Amaddeo, 2005, pp. 119-20) delle sue Rime. A quell’edizione (presso il romano Antonio Blado nel 1533; ristampa presso Melchiorre Sessa: le due tipografie utilizzarono, molto probabilmente, lo stesso prototipo editoriale) sovraintese Giovanni Gaddi, membro di una famiglia di banchieri fiorentini che divenne chierico della Camera apostolica durante il pontificato di Giulio de’ Medici.
Offrendo le liriche del giovane fiorentino a Ippolito de’ Medici, Gaddi elogiava Martelli come «uno de’ più pellegrini, et più elevati spiriti, che a’ suoi tempi fussero, et che forse per molti anni adietro sieno stati ne la nostra Città di Fiorenza» (Rime, cit., p. 136). Lo stesso Gaddi, fra il 1531 e il 1532, era stato promotore della pubblicazione delle principali opere machiavelliane, presso Blado, prima, e poi presso i Giunta di Firenze. Quest’impresa editoriale sembra nascere soprattutto come progetto culturale legato al rilancio della lingua fiorentina, nobilitata da un autore del calibro di M. (nella dedica della prima edizione del Principe, indirizzata a Filippo Strozzi, Blado sottolineava che quella stampa gli offriva la possibilità di frequentare «le ampie, et amenissime piagie della eloquentia Thoscana», cfr. N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, 1° vol., 1999, p. 405), ma anche da un giovane «rimator di gran nome» come Martelli. Se a tale campagna editoriale si deve anche riconoscere una valenza politica (in quegli anni, a Firenze, si assisteva a un importante dibattito istituzionale riguardante la forma di governo che meglio poteva adattarsi alla città), bisognerà notare come il volume martelliano includa una tragedia ellenizzante, la Tullia, composta prima del 1527, che rappresenta gli effetti nefasti di una tirannia illegittima, pur fondata sul consenso del popolo. Della vicenda di Tullia, figlia del re Servio Tullio e moglie di Lucio Tarquinio, parla anche M. nei Discorsi (III iv): la donna, che spinge il marito a uccidere il padre per prenderne il posto sul trono, è proposta da M. come esempio di ‘rabbioso’ desiderio di potere. Ma, mentre il capitolo dei Discorsi è centrato sull’errore di Servio, che non volle eliminare i figli di Tarquinio Prisco, il principe cui aveva tolto il regno, Martelli fa di Tullia una moderna Elettra, spinta dal desiderio di giustizia e insieme dall’«appitito del regnare». Il lieto fine, con tanto di deus ex machina, viene a sancire la vittoria del legittimo re sull’usurpatore Servio. Di recente, Domenico Chiodo ha voluto scorgere in questa tragedia la rappresentazione della polarità, nella Firenze del 1523-27, fra il ‘tiranno’ Clemente VII e Ippolito de’ Medici. A quest’ultimo Martelli avrebbe guardato per promuovere «un principato civile, consegnato a un Medici [...] al di sopra di ogni faziosità popolare», prendendo così le distanze dalla «tradizione municipale repubblicana» appoggiata dai giovani aristocratici degli Orti, e avvicinandosi invece al M. del Principe (in Chiodo, Sodano 2012, p. 172). La tragedia resta tuttavia un testo profondamente ambiguo, i cui protagonisti si rivelano fragili e tormentati, nonostante la spinta ideologica che guida la mano dell’autore.
Fra coloro che apprezzarono le qualità letterarie di Lodovico fu anche Benedetto Varchi, che gli dedicò numerose composizioni, latine e volgari, e nella Storia fiorentina (a cura di L. Arbib, 1° vol., 1843, pp. 128-29) riferisce che l’8 aprile 1527, nella piazza di S. Giovanni, Lodovico uccise uno dei «Lanzi» preposti alla guardia di palazzo Medici, e, per evitare l’azione degli Otto di guardia, si allontanò da Firenze. Per quanto l’azione giudiziaria fosse poi sospesa per la cacciata dei Medici da Firenze, Martelli non volle rientrare in città; Varchi parla di esilio volontario (nell’epigramma latino LXXX, “De Ludovico Martello”). Nel sonetto che rivolse a Gaddi (CXXXI, “Gaddo io men vo lontan da i patrii liti”, ora in Rime, cit., p. 123), Lodovico (che un documento del 1547 ci dice essere clericus) allude alla sua difficile condizione esistenziale come ai pericoli cui di continuo lo esponeva un’esistenza così errabonda.
Passato a Roma e poi in Campania, Martelli entrò in contatto con il circolo di letterati legati a Vittoria Colonna. Poco tuttavia si conosce degli ultimi anni della vita del poeta. Errata è, per es., la notizia che, giunto a Napoli, entrasse al servizio di Alfonso d’Avalos, addirittura partecipando alla battaglia di Capo d’Orso, il 18 aprile del 1528: tale ipotesi, avanzata da Guglielmo Pellegrini (1915), era infatti fondata sulla falsa attribuzione a Lodovico delle stanze sulla celebre sconfitta navale della flotta spagnola, a opera dei francesi guidati da Filippino Doria, pubblicate nel Primo volume della scielta di stanze di diversi autori toscani. Raccolte da m. Agostino Ferentilli (1571). La testimonianza di Paolo Giovio smentisce questa notizia: nel secondo libro del Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus (intitolato De viris literis illustribus e composto fra il 1527 e il 1528) lo scrittore comasco riferisce della morte di Lodovico come di un fatto avvenuto di recente, ossia tra la fine del 1527 e l’inizio dell’anno successivo.
L’opera poetica di Martelli vide la luce una prima volta nel 1531, presso Aurelio Pincio (si tratta della pubblicazione di alcune composizioni intitolata Stanze e canzoni), e poi, nel 1533, nella doppia edizione già indicata. La raccolta risulta soprattutto costituita da sonetti, canzoni, sestine, ballate, madrigali, ma anche da egloghe in versi sciolti e poemetti in ottave (le stanze “In lode delle donne” e “In morte del marchese di Pescara”, dedicate alla Colonna). Nel 1548, a Firenze, verrà pubblicato un volume di Opere, contenente, insieme alle rime e all’unico dramma, anche il volgarizzamento del IV libro dell’Eneide, brillante esempio di traduzione in versi sciolti. Rimane dubbia la paternità del capitolo burlesco in lode dell’altalena, che si trova nel Secondo libro dell’opere burlesche, di m. Francesco Berni, del Molza, di m. Bino, di m. Lodovico Martelli, di Mattio Francesi, dell’Aretino, et di diversi autori (1555, cc. 36v-39r). Martelli ha poi probabilmente composto, durante il carnevale del 1524, un Trionfo della pace (cfr. Canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di C.S. Singleton, 1936, pp. 332-33). Perdute risultano invece la Georgica, menzionata da Gaddi, e le Stanze alla fata fiesolana.
Bibliografia: Tullia, a cura di F. Spera, Torino 1998; Rime, a cura di L. Amaddeo, Torino 2005. Si vedano inoltre: B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, 1° vol., Firenze 1843; B. Varchi, Opere, 2 voll., Trieste 1858-1859, ad indicem; Canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di C.S. Singleton, Bari 1936, pp. 332-33; B. Varchi, Liber carminum, a cura di A. Greco, Roma 1969, ad indicem; N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982; N. Machiavelli, Opere, a cura di R. Rinaldi, 1° vol., Torino 1999; N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, a cura di P. Cosentino, in Id., Opere letterarie, 2° vol., Scritti in poesia e in prosa, coord. di F. Bausi, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., Roma 2012, pp. 419-65.
Per gli studi critici si vedano: G. Pellegrini, La battaglia di Capo d’Orso descritta poeticamente da un testimone oculare, «Archivio storico italiano», 1915, 278, pp. 381-422; O. Castellani Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla nostra lingua, Firenze 1978, pp. 99-141, 256-68; C. Slim, Un coro della Tullia di Lodovico Martelli messo in musica e attribuito a Philippe Verdelot, in Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del ’500, 2° vol., Musica e spettacolo. Scienze dell’uomo e della natura, Firenze 1983, pp. 487-511; P. Cosentino, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del primo Cinquecento, Manziana 2003, ad indicem; A.M. Cummings, The maecenas and the madrigalist. Patrons, patronage, and the origins of the Italian madrigal, Philadelphia 2004, pp. 103-04, 107, 112, 171, 175, 192-93, 249; P. Cosentino, Martelli Lodovico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 71° vol., Roma 2008, ad vocem; P. Cosentino, Oltre le mura di Firenze. Percorsi lirici e tragici del classicismo rinascimentale, Manziana 2008, ad indicem; T. Mozzati, Giovanfrancesco Rustici. Le compagnie del paiuolo e della cazzuola. Arte, letteratura e festa nell’età della Maniera, Firenze 2008, pp. 382-83; D. Chiodo, R. Sodano, Le muse sediziose. Un volto ignorato del petrarchismo, Milano 2012, ad indicem; F. Tomasi, “Mie rime nuove non viste ancor già mai ne’ toschi lidi”. Odi ed elegie volgari di Benedetto Varchi, in Varchi e altro Rinascimento. Studi offerti a Vanni Bramanti, a cura di S. Lo Re, F. Tomasi, Manziana 2013, pp. 173-214.