GIOVIO, Lodovico
Nacque a Milano il 6 sett. 1772 da Pietro Giovio Della Torre di Rezzonico Lattuada e da Teresa Rusconi, di famiglie nobili della città. Nulla si sa della giovinezza, dell'educazione e degli studi (nelle Memorie il G. dirà solo che si erano svolti "in un collegio") e la mancanza di carte familiari rende impossibile ricostruire le vicende della sua famiglia in quegli anni; si ignora anche se ci fosse un legame con i più noti conti Giovio di Como, nel cui archivio familiare manca qualsiasi riferimento a lui. È possibile che il G. discendesse dal ramo secondario di quella famiglia, del quale però cominciano a perdersi le tracce alla fine del Seicento.
Egli ebbe una parte considerevole negli avvenimenti che interessarono l'Italia e in particolare la Lombardia durante tutto il periodo napoleonico, occupando cariche di una certa rilevanza politica. Fu tra i primi a simpatizzare col vento che spirava dalla Francia, tanto che, ancor prima che Bonaparte giungesse nella capitale ambrosiana, si presentò al generale col piemontese G. Giorna, per sollecitarlo a costituire un governo libero e indipendente per la Lombardia. Come lo stesso G. scrisse nelle sue Memorie, pubblicate nel 1906 da Giuseppe Gallavresi, "dopo i primi anni di una gioventù dissipata comune a tutti quasi que' giovani che si lanciano nella carriera del mondo, appena cominciarono in Italia a spargersi i semi di una rivoluzione, io l'abbracciai con trasporto, poiché ne speravo alla Patria mia luminosi successi di costante indipendenza; né tal mio pensiero poteva essere del tutto riprovevole né criminoso in quanto che appena sortito dall'educazione di un Collegio non potevo essere attaccato alla causa di un Principe di cui rotte e disperse le armate, non seppe garantirsi dall'inimico i suoi dominj. Più con solenne trattato avendo rinunciata la sovranità, e riconosciuta una Repubblica diedi alla stessa tutti i miei sforzi, e i miei servigj".
Durante la dominazione asburgica il G. non aveva avuto alcun incarico amministrativo; solo con l'arrivo dei Francesi a Milano fece le sue prime apparizioni in ambito pubblico. Già membro della Società patriottica, dal 1797 fu tra i componenti della Società di pubblica istruzione (succeduta alla Società degli amici della libertà e dell'uguaglianza, ovvero Società popolare), dove svolse anche attività giornalistica, e la presiedette nel primo anno di vita. Fu capitano nella legione lombarda e nello stesso 1797 divenne presidente del Consiglio degli juniori, rimanendo in carica per quasi tutto il triennio giacobino (tranne la breve parentesi di C.-J. Trouvé), fino a quando venne escluso dal generale L.-A. Berthier per essersi opposto, come molti altri, al trattato di alleanza con la Francia, approvato invece dagli Juniori intimoriti dalle minacce del generale V.-E. Leclerc. Il G. diresse il dibattito che si svolse all'interno del Consiglio proprio in quei momenti convulsi del marzo 1798, pronunciandosi fortemente contro tale trattato che condannava la prima Cisalpina al totale asservimento alla Francia, appoggiato in questa posizione anche dal presidente del Consiglio degli anziani, A. Aldini.
Stando alle Memorie, durante i 13 mesi nei quali la Lombardia fu nuovamente sotto il governo austriaco egli preferì allontanarsi, per sottrarsi "prudentemente per le manifestate opinioni politiche alle indagini di una polizia severa". Nella seconda Cisalpina il G. fu commissario di guerra e membro della Consulta legislativa; in virtù di tale carica fu convocato ai Comizi di Lione, dove prese parte ad alcune importanti sessioni quale membro del Comitato dei trenta. Divenne poi commissario del potere esecutivo del Dipartimento dell'Olona, ma si dimise quasi subito perché colpito e sdegnato per gli "inconsulti eccessi" ai quali si erano abbandonati i Francesi e per "le convulsioni che disonoravano il nome italiano".
La trasformazione, nel marzo del 1805, della Repubblica italiana in Regno d'Italia lo vide nuovamente protagonista della rinnovata amministrazione. Entrò a far parte in qualità di consultore del Consiglio di Stato (che oltre alle funzioni amministrative e politiche acquisì anche quelle giudiziarie), nella sezione guerra e marina. Di conseguenza ebbe modo di svolgere importanti missioni, come una in Dalmazia nel 1806 per organizzare le isole del Quarnero e un'altra nel dipartimento del Lario, dove nel 1813 fu mandato con V. Dandolo e P. Custodi per rinvigorire lo spirito delle popolazioni del dipartimento, incitandole ad arruolarsi per difendere i confini della patria. Nel nuovo stato di cose furono adottate, con poche modifiche, le disposizioni riguardanti la nobiltà imperiale. Il VII statuto costituzionale del Regno, emanato il 21 sett. 1808, stabilì che i nuovi titoli (duca, conte, barone e cavaliere) potevano essere concessi a seguito di cariche pubbliche ricoperte nell'amministrazione del Regno (titoli di diritto), oppure tramite decreto reale di nomina, nel caso di ufficiali civili o militari che si fossero particolarmente distinti (titoli di nomina). Lo statuto introdusse anche un organismo consultivo, denominato Consiglio del Sigillo dei titoli, preposto alle procedure burocratiche previste dal nuovo processo di nobilitazione. Di tale Consiglio fece parte anche il G., che per questo venne nominato conte nell'ottobre 1810, quando aveva già ricevuto il titolo di cavaliere della Corona di ferro. Nel 1808 venne addirittura proposto per il Senato, ma per ragioni sconosciute la candidatura non ebbe esito favorevole.
Gli ultimi anni della dominazione napoleonica lo videro nuovamente protagonista, anche se ormai disilluso. Il cosiddetto "partito degli italici" formato, oltre che dal G., dal più noto conte F. Confalonieri, dal marchese B. Bossi e da L. Porro Lambertenghi, divenne il naturale centro dell'opposizione ai Francesi e a Eugenio di Beauharnais, sfociata in aperto dissenso verso una dominazione che aveva portato solo "sventura e rovina" e aveva tradito le aspettative di chi sognava una patria libera e indipendente.
Nei delicati momenti della congiura militare milanese del 1814, che condussero all'insurrezione popolare culminata nella morte del ministro delle finanze G. Prina, gettato dalla finestra e massacrato da una folla esasperata da continue guerre, coscrizioni e imposizioni fiscali, il G. svolse un importante ruolo di mediazione, cercando di organizzare una sorta di governo provvisorio. Nel collasso del regime, infatti, il Comune si affrettò a subentrare nelle funzioni di governo; egli scrisse in proposito: "La sera del 20 [apr. 1814], dopo aver cercato invano portar soccorso là dove si cercava il misero Prina da uomini cui era sul volto l'indizio dell'ordinato delitto, m'avviai al Palazzo della città, onorato dalla confidenza de' magistrati comunali, chiamato a parte dei loro saggi divisamenti per ciò che conveniva nell'ardua circostanza; si deliberò la convocazione de' Collegi elettorali, si dichiarò permanente il Consiglio comunale, e simili risoluzioni furono nella stessa sera al popolo notificate col mezzo dei pubblici araldi, ed al chiaror delle fiaccole". Nei giorni successivi alla congiura il G. fu anche a capo della deputazione che si presentò al generale inglese R. MacFarlane e ai marescialli austriaci A. Sommariva e H. Bellegarde con la richiesta dell'indipendenza e di una possibile integrità dell'Italia. In un importante discorso che pronunciò il 26 apr. 1814 in qualità di presidente dei Collegi elettorali, il G. sviluppò il concetto che, al punto in cui erano giunte le cose, non spettava alle autorità locali assumere iniziative impegnative: "I Collegi elettorali hanno già esercitato la loro sovranità legittima nominando la reggenza: ora la saggezza impone di astenersi da altre deliberazioni prima che ci venga manifestato il pensiero delle alte potenze, e di rimetterci alla reggenza nella quale abbiamo piena fiducia. I collegi non sono che un corpo tutelare della costituzione ma non hanno potere legislativo; non illudiamoci di fare tutto il bene in un momento. Attendiamo le decisione delle alte potenze: esse ci accorderanno il diritto di esporre le nostre opinioni sul patto sociale e politico che più ci conviene. Allora provvederemo al debito pubblico, alla irrevocabilità della vendita dei beni nazionali, alle pensioni, alla espulsione degli stranieri dal nostro suolo, ai pubblici carichi e all'assegnazione degli impieghi ai soli cittadini del regno. Ora innoviamo il meno possibile". Chiaramente le sue parole erano rivolte a coloro che, nei Collegi, erano impazienti e desiderosi di affermarsi con qualche atto energico e sdegnavano un atteggiamento passivo, considerandolo servile verso le potenze straniere coalizzate. Il G. e altri moderati temevano forse che la fretta, portando a decisioni sbagliate, potesse mettere in pericolo la liberazione della Lombardia.
Il ritorno degli Austriaci cancellò tutte queste aspettative; deluso dal crollo di uno dei suoi sogni di gioventù, ma soprattutto amareggiato dalle accuse di ipocrisia, che da più parti gli venivano mosse e che lo spinsero a scrivere le Memorie a titolo di difesa personale, il G. si ritirò a vita privata nella sua villa di Sovico in Brianza. Nel 1816 il governo asburgico lo confermò nella nobiltà antica, ma gli tolse il titolo comitale del quale lo aveva insignito Napoleone: ultima beffa per chi si era sempre considerato un semplice servitore della patria.
Il G. morì a Sovico nel 1846.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Como, Arch. stor. civico, FamigliaGiovio, alberi genealogici; F. Coraccini, Storia dell'amministrazione del Regno d'Italia durante ildominio francese, Lugano s.d., p. XCI; J.A. von Helfert, La caduta della do-minazione francese nell'Alta Italia, Bologna 1894, pp. 81 s.; E. Verga, La deputazione dei Collegi elettorali del Regno d'Italia a Parigi nel1814, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XXXI (1904), p. 306; G. Gallavresi, I ricordi ed il carteggio del conte L. G..1772-1814, in Periodico della Società storica comense, XVII (1906), 68, pp. 223-250; Id., La rivoluzionelombarda del 1814 e la politica inglese, in Arch. stor. lombardo, s. 4, IX (1908), pp. 145 e n., 146, 148; P. Pecchiai, La "Società patriottica" istituita in Milanodall'imperatrice MariaTeresa, ibid., XLIV (1917), p. 141 n.; N. Ferorelli, Mario Pagano esule a Milano, ibid., p. 634; D. Spadoni, Milano e la congiura militare del 1814 per l'indipendenza italiana. Il moto del 20 aprile el'occupazione austriaca, I, Modena 1936, p. 58; I Comizi nazionali in Lione per la costituzione della Repubblica italiana, a cura di U. Da Como, III, 2, Bologna 1940, pp. 60 s. e Indice; E. Rota, Milano napoleonica, in Storia di Milano, XIII, Milano 1959, pp. 31, 40, 105, 126, 148, 339; P. Pedrotti, La prima Repubblica italiana in un carteggio diplomatico inedito, Roma 1973, p. 60; G. Formenti, La nuova nobiltà napoleonicanel Regno d'Italia (1808-1814), in Arch. stor. lombardo, CXIV (1988), pp. 357-375. In generale, su Milano nel periodo di attività del G., vedi: G. De Castro, La caduta del Regno italico, Milano 1882; Id., Milano e le cospirazioni lombarde (1814-1820), Milano 1892; F. Lemmi, Le origini del Risorgimento italiano(1789-1815), Milano 1906; M. Roberti, Milano capitale napoleonica. La formazione di uno Stato moderno, 1796-1814, I-III, Milano 1946-47.