DOLCE, Lodovico
Nacque a Venezia nel 1508 da un'antica famiglia che aveva accesso al Maggior Consiglio: ma, di essa, un ramo si estinse nel 1248 con Filippo e l'altro ne fu escluso dalla regolamentazione attuata dal doge Pietro Gradenigo. I discendenti furono membri della pubblica magistratura: il padre Fantino fu gastaldo delle Procuratie per intercessione del doge Leonardo Loredan, come il D. ricorda nella dedica a Geronimo Loredan nel Dialogo della pittura.
Rimasto ben presto orfano, il D. venne affidato al doge Loredan e alla famiglia Corner; terminati gli studi, svolti a Padova, tornò a Venezia dove, per sopravvivere, non poté far altro che mettere a frutto la sua educazione letteraria. Risolutiva in questo senso, anche se mai lucrosa, fu la collaborazione in qualità di curatore di testi con l'impresa editoriale dei Giolito, professione che il D. esercitò fino alla morte, avvenuta nel 1568.
Scarse le notizie sulla sua vita, tutta esaurita nella vertiginosa mole di traduzioni, rifacimenti, riscritture, prefazioni, allestimenti redazionali e opere proprie, e solo a tratti percorsa da rivalità professionali più che da autentiche polemiche letterarie, come la lite con Niccolò Franco e l'annoso dissidio con Girolamo Ruscelli.
Vita comunque infelice, quale la definì egli stesso nella lettera a Cristoforo Canal premessa all'Ecuba giolitina, funestata dal carcere (come da lettera a Federico Badoer) e dalle malattie (come da lettera ad Anton Giacomo Corso). Padre di una femmina, che il marito, Fortunato Martinengo, lodò in una lettera al suocero, e di un Marcello, di cui lo stesso D. dette notizia a Iacopo Marmitta, soggiornò nel territorio padovano e a Mantova e fece parte, secondo il Quadrio, dell'Accademia della Fratta, a Rovigo, insieme a L. Domenichi e a G. Ruscelli, e anche di quella veneziana dei Pellegrini che contava, fra gli altri, Ercole Bentivoglio, Giason de Nores, A. F. Doni e il Sansovino. Il D. fu sepolto nella chiesa di S. Luca Evangelista a Venezia nel medesimo sepolcro in cui giacciono, secondo alcuni, l'Aretino e il Ruscelli, secondo altri, il Ruscelli, l'Atanagi e l'Ulloa.
L'etichetta di poligrafo aderisce perfettamente alla fisionomia intellettuale del D., ma forse ne appiattisce il rilievo storico: il giudizio del Tiraboschi - per cui il D. sarebbe un mediocre "assaggiatore" di generi letterari - viene riformulato dal Dionisotti nel lessico più concreto di una terminologia industriale. "Operaio della letteratura" è definizione che rimanda all'istituzione editoriale e dunque, nel caso del D., alla grande impresa tipografica della famiglia dei Giolito. Le trasformazioni che le moderne tecniche di produzione del libro operarono sul pubblico e sugli intellettuali sono state sottolineate da molti: nacque innanzi tutto una nuova figura professionale, il redattore, il curatore redazionale, organicamente legato alla struttura produttiva, la quale diventò il committente pressoché esclusivo per gli operatori culturali. A ragione vengono individuate, come fa Quondam, le rinnovate coordinate del rapporto intellettuale-committente e di quello tra lavoro "privato" e lavoro "pubblico" (nell'istituzione) anche nelle relazioni personali che si stabilirono fra i Giolito e alcuni collaboratori - come il D. - i quali, secondo il Bongi, furono addirittura ospitati nella loro casa.
Più che per la sua produzione originale, "creativa" - peraltro in qualche occasione non trascurabile - il D. va valutato proprio per l'attività di mediazione culturale che costantemente svolse presso i Giolito accumulando, oltre alle sue circa venti opere per trentanove edizioni, una quarantina di lavori di redazione, di cura e rivisitazione del testo ad uso di un pubblico preciso, colto ma non professionista, secondo una strategia "promozionale" rilevabile in tutta la nuova editoria ed esemplificabile con la diffusione di formati più maneggevoli e l'offerta di sussidi di lettura: tavole, apparati, indici.
Scrittore in versi e in prosa, il D. si cimentò in tutti i generi letterari, soprattutto in quelli più in voga e aderenti alla temperie culturale e sociale del secolo - il trattato in forma di dialogo e il testo teatrale, tragedia e commedia - trasportando all'interno della sua produzione creativa l'attenzione alle richieste del mercato librario, esercitata nel quotidiano mestiere redazionale.
Pietro Aretino costituisce un importante precedente di comportamento intellettuale, per la collaborazione in funzione pressoché direttiva con l'editore Marcolini, per la tempestiva sensibilità nel cogliere i processi in atto nell'ambiente culturale, per l'aggiornamento cui sottoponeva nei propri scritti modi e temi della tradizione. In tal modo egli indicava una via, nella chiusa società letteraria, all'attività, a volte apparentemente disorganica e casuale, di "poligrafi" e "avventurieri della penna", ricorrendo non solo nel facile formulario tematico in cui spesso si stemperò nei seguaci la sua vena polemica ed eversiva - le qualità delle mogli, le disgrazie dei mariti, gli "stati"delle donne - ma anche come autorevole garante dei generi da lui frequentati.
Cogliendo una tendenza del pubblico e una moda letteraria, il D. compose numerosi dialoghi, di cui alcuni sono appunto "di maniera" aretinesca, come quello che discorre "di che qualità si dee tor moglie", datato 1539 ed edito insieme alle Parafrasi nella sesta satira di Giovenale, "nella quale si ragiona delle miserie degli uomini maritati", Venezia, per Curzio Navò, 1538, scandito in una cornice decameroniana sugli esempi volgari di Boccaccio, Ariosto, A. Molino detto il Burchiella, più accessibili del latino Giovenale alle donne che "non hanno studiato". L'Aretino stesso interviene come teste In difesa dei male avventurati mariti nel dialogo del 1542, edito, sempre da Curzio Navò, contro la volontà del D., che in una lettera a madonna Leonora Silvia giudicava sconveniente lo scritto. Più cauto è il Dialogo della institution delle donne, pubblicato da Giolito nel 1545, poi ampliato nel 1547 e nel '53: il sapido controtrattato di comportamento delineato dall'Aretino nelle Sei giornate viene qui rovesciato dall'intento edificatorio in una scialba elencazione di luoghi comuni circa i "buoni costumi", appesantita da esempi e avvertimenti di controriformistico buon senso.
Vivace almeno nello spunto - peraltro non originale e secondo il Cicogna addirittura ricalcato sul trattato latino di Joannes Romberch edito a Venezia nel 1533 - è il Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservare la memoria, pubblicato a Venezia dai Sessa nel 1562.
Il trattatello si articola in una prima parte dedicata all'illustrazione di esempi di uomini celebri forniti di grande memoria, ed in una seconda tutta risolta nella discussione sulla definizione di tale qualità, sulla scorta di Cicerone, s. Tommaso e Quintiliano. Dove traspare il gusto più erudito ed enciclopedico che "tecnico" del D. è nella trattazione appunto dei modi per "accrescere e conservare" la memoria e cioè della quantità e qualità dei cibi non nocivi; dei luoghi e condizioni favorevoli; dei segni e figure che costituiscono una sorta di piccolo prontuario atto a rammentare i nomi dei giochi, dei numeri, dei mesi dell'anno ("percioché dal sapere il nome nasce poi la cognition delle cose").
Tale gusto, e il confluire confuso di nozioni e letture di autori spesso oscuri, sfiora il pastiche nel Trattato delle gemme, edito dai Sessa nel 1565 e poi ristampato nel 1617, che in parte si rifà allo Speculum lapidum di Camillo Leonardi da Pesaro. Tema di antica tradizione letteraria, le "virtù" delle pietre preziose affascinano anche scienziati, astrologie medici, e godono di costante fortuna: circa negli stessi anni, fuori d'Italia, Jean de La Taille pubblicava il Blason de pierres precieuses e Remy Belleau. Les amours et nouveaux eschanges des pierres precieuses, vertus et proprietez d'icelles. Come fonte, il D. cita soltanto Aristotele, chiamato ad avallare le argomentazioni sulle qualità fisiche delle pietre preziose, illustrate nel primo libro; il secondo libro affronta le "virtù" delle gemme, gli influssi che esercitano su coloro che le indossano, e si conclude con un alfabeto dei colori delle pietre e una tavola che raccoglie il nome, l'etimologia, il colore e la specie, il luogo ove si trova e la virtù di ogni gemma. Il terzo libro è dedicato alle "Sculture che si trovano nelle pietre", agli scultori - dagli antichi Greci a Michelangelo - e alle virtù delle figure scolpite, di cui si occupa una scienza difficile da penetrare e che necessita del supporto dell'astrologia, della magia, della negromanzia, fatte salve le ragioni di una cauta posizione che esclude ogni costrizione sui comportamenti dell'uomo. Anche questa parte è corredata da una tavola con i nomi delle singole immagini scolpite, l'illustrazione dei modi in cui vengono raffigurate dai "dotti", i corrispondenti segni dello Zodiaco, la loro collocazione geografica e le virtù.
Non è solo sulla scia di un argomento di oscura ma singolare fortuna nel Cinquecento che il D. si occupa del colore, attingendo soprattutto, secondo la Barocchi, al Libellus de coloribus di Antonio Telesio, Venezia 1528, e al Del significato de' colori di F. P. Morato, Venezia 1535: è anche in base ad un interesse più personale, ad un'affinità di gusto e sensibilità, che avevano già condotto l'autore nel 1557 ad occuparsi di pittura nell'Aretino, il dialogo che resta il suo scritto migliore e più ricco di implicazioni. Il Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori, edito dai Sessa nel 1565 e poi Lanciano, Carabba, 1913, accantona il problema che si poneva come preliminare nel precedente scritto sull'arte, poiché si presenta esplicitamente come trattazione tutt'affatto letteraria di un argomento di per sé tecnico (svolta da persona "il cui studio è di lettere e non di pittura"). Trascurando le riflessioni di Leonardo, Vasari ed altri e le esperienze cromatiche raffaellesche e tizianesche, il D. si appoggia, per illustrare la "bassa e vil materia", al "testimonio de' scrittori antichi": ma Platone e Aristotele introducono solo brevemente sulla natura del colore ripetendo la ben nota divisione tra due colori estremi e tre mediani. La sostanza del dialogo si basa sull'arricchimento del trattato del Telesio con citazioni ed esemplificazioni di terminologia cromatica attinte da Petrarca, Bembo, Ariosto, Omero, Virgilio, Cicerone, Terenzio, Ovidio e da un "terzetto fatto al costume bernesco" dello stesso D.; il trattato del Morato va a completare, con il raffinato codice cortigiano del significato dei colori, il compendio dolciano che, non originale dunque, retorico e astratto, ha tuttavia il pregio di sottolineare l'essenzialità del tema e di cogliere ancora una volta un'esigenza diffusa in materia, se, come nota ancora la Barocchi, Lomazzo e Borghini in seguito tenteranno di approfondire la simbologia cromatica, ferma, nei risultati del Morato e del D., ad un assemblaggio di sostantivi e aggettivi sinonimici.
Il D. condivide la tendenza a divulgare ed interpretare, più che ad elaborare, opinioni ed interessi già diffusi nell'ambiente artistico e culturale, in base anche all'uniformarsi di un gusto che, come rileva il Pozzi, trae dai medesimi testi della retorica classica e moderna (il D. si rifà soprattutto alla Poetica del Daniello) i criteri di approccio ad espressioni artistiche tuttavia differenti. Esemplari in questo senso sono le pagine del Cortegiano che il Castiglione dedica all'arte, il miglior testo di quella fase di "volgarizzazione di livello" in cui entra la riflessione sull'argomento a metà secolo: posizione di "ripresa di contatto con l'intuizione diretta dell'arte", la definisce Venturi, per via più di sensibilità e cultura che di tecnica.
Nel Dialogo della pittura intitolato l'Aretino, edito a Venezia da Giolito nel 1557, alla domanda del grammatico toscano G. Fabrini - se un non addetto ai lavori possa intervenire in materia di pittura - il D. fa rispondere all'Aretino che togni uomo ingenioso" con la pratica può giudicare di pittura; come d'altra parte il pittore deve far riferimento ai letterati per l'"invenzione", l'"istoria" e la "convenevolezza". Si conferma il principio dell'"ut pictura poesis", riaffermando che pittura è "poesia ... istoria ... qualunque componimento de' dotti". Come già P. Pino nel suo Dialogo di pittura edito a Venezia nel 1548, definito dal Venturi teco delle conversazioni dei migliori pittori veneziani", se pure il D. identificava i modi del dipingere (invenzione, disegno, colorito) secondo la tripartizione della retorica del discorso (inventio, dispositio, elocutio), d'altra parte non applicava astrattamente il suo bagaglio culturale, ma tentava di accordare, a volte felicemente, cultura e tecnica, esperienza e creazione, natura e stile. Di conseguenza puntava, al di là delle categorie, in termini assimilabili da parte della dominante cultura classicistica, ad una "convenevolezza" e un "ordine" puristici, antimanieristici, ad una "certa convenevole sprezzatura", che traduce con variazione significativa la "certa sprezzatura" del Castiglione, di cui non a caso nel 1552 il D. aveva curato un'edizione del Cortegiano, Venezia, Giolito, riedita nel 1556 e '59 e poi a Lione nel 1562 (peraltro censurata dal Cian della sua edizione di quest'opera, Firenze 1854). L'esaltazione di Raffaello di contro al michelangiolismo vasariano tende ad assumere in una valutazione classicistica il colorismo veneto e quindi Tiziano: la riconosciuta superiorità di Raffaello su Michelangelo - per "colorito", "varietà" e "convenevolezza" - veniva usata dal D., come suggerisce il Pozzi, in senso strumentale, a malleveria della grandezza del veneziano, superiore nel "colorito" al secondo, e unico autentico erede della dignitosa "varietà" del primo.
Pur in una prospettiva di passaggio ad una "scrittura" d'arte moderna - non più prevalentemente tecnica, ma di libera cultura, segnata dal "distacco dell'artista dall'artigiano" - il D. conservava certamente la lezione umanistica di Leonardo e dell'Alberti: le accuse di moralismo controriformistico, soprattutto per i criteri di "ordine" e "convenevolezza"1 comuni del resto al Pino e all'Aretino, vanno sfumate proprio in nome dell'appartenenza a quell'ambito di formazione culturale e per l'apprezzabile tentativo di rinnovare la comprensione della pittura veneta.
Il D., sottolinea la Barocchi, in nome della "convenienza" sociale e letteraria censurava Michelangelo nella sua monotonia e "disonestà", negli "eccessi" e nel disegno ridotto a pura anatomia, ricalcando il canonismo classicistico della lettera diffamatoria di Pietro Aretino a Michelangelo del novembre 1545. Ma in una lettera del 10 marzo dello stesso anno a Paolo Crivelli il D. affermava: "per dire il vero levato Messer Tiziano (ch'è un altro Michelangelo) chi è in Venezia che sappia dipingere?", riconoscendo almeno pari dignità al pittore veneto e a quello fiorentino. I rilievi mossi successivamente dall'Aretino probabilmente finirono con l'influenzare la lettera a Gasparo Ballini, di data insicura, recentemente assegnata dalla Barocchi all'edizione Giolito 1559 e non 1554 della raccolta di Lettere di diversi curata dallo stesso D.: in essa la "divinità" di Michelangelo viene ridotta a "certa fierezza e terribilità di disegno" e condotta ad una rivalutazione della sua attività di scultore, con un riconoscimento che è comunque limitativo. Da posizioni di matrice classicistica, venivano rimproverate al fiorentino le "difficultà" (specie in "scorti", "fierezze", "moscoli") in nome di un'estetica del "diletto"che nasce da un uso moderato proprio di quelle "difficultà"; e il richiamo è, ancora una volta, a concetti del Castiglione come "grazia"e "affettazione". Piuttosto nella lettera è centrale l'argomentazione sul "colorito" che si deve accompagnare alla perfezione del disegno, e il conseguente rimprovero allo sbrigativo Vasari, secondo il quale Tiziano "tinge bene", mentre il veneto è anche maestro "nel dispor delle forme" - che è l'essenza della pittura - e dunque è "divinissimo e senza pari"; in definitiva, più che un intento censorio nei confronti di Michelangelo, prevaleva la volontà illustrata nel dialogo di inserire la pittura veneziana nel patrimonio culturale del Cinquecento italiano, mediando il concetto di disegno con quello di colore. Questo tentativo però rivela anche la natura episodica degli stessi interessi più vivaci del D.: ne sono spia l'oscillazione di gusto e giudizio nei confronti di Michelangelo e la totale incomprensione dei modi nuovi e progressivi del pur veneto Tintoretto.
Il Dialogo ha una sua storia editoriale: la prima ristampa si ebbe a Firenze, per M. Nestenus e F. Mouche, nel 1735, e fu curata da N. Vleughels, direttore dell'Accademia francese di Roma. SchIosser Magnino elenca una traduzione tedesca, Berlino 1757, e poi Vienna 1871, una olandese, Amsterdani 1756, ed una inglese, Londra 1770. Numerose le edizioni italiane (1863, 1895, 1910, 1913, 1960, 1978).
Gli scritti "creativi" del D. non furono mai originati da una spinta scevra da occasioni di lettura o dalla tentazione di intervenire nelle grandi querelles che agitarono per intero il secolo, sugli argomenti via via più dibattuti nelle sedi di produzione di cultura. D'altronde, tra le edizioni da lui curate figurano i testi che sono alla base della civiltà letteraria cinquecentesca: accanto ai classici, tradotti, rimaneggiati, volgarizzati - Aristotele, Cicerone, Orazio, Donato - e a Dante, Petrarca, Boccaccio, rivisitati e offerti con un corredo critico, compaiono le opere dei massimi contemporanei, da Ariosto al Bembo delle Prose, da Castiglione ad altri. Inoltre, la professione affinava anche l'attenzione al gusto del pubblico: nella prefazione all'edizione del 1560 dell'Amadigi di Bernardo Tasso il D. rilevava che bisognava "accomodarsi all'uso del secolo in cui si scrive", tenendo d'occhio il "giudizio comune", l'unico che nei fatti conferisca reputazione e immortalità, non essendo più i lettori i "pochi" delle Prose del Bembo. Posizione questa che rispecchia anche preoccupazioni di "mercato", inteso come luogo in cui una cultura che nasce elitaria viene mediata per un consumo più allargato.
In questo ambito si inquadrano le opere dedicate dal D. alla "questione della lingua": le Osservazioni nella volgar lingua, in quattro libri, Giolito, 1550, con un Discorso o parere sulla lingua, ristampate più volte, corrette e ampliate (1552, 1556, 1558, 1560, due volte nel 1562 e poi anche fuori Venezia), e i Modi affigurati e voci scelte ed eleganti della volgar lingua, con un discorso sullo stile dell'Ariosto editi dai Sessa, a Venezia, nel 1564, e poi di nuovo nel 1597 con l'accattivante titolo di Nuove osservazioni della lingua volgare, data la grande diffusione della precedente opera del Dolce.
Nella dedica delle Osservazioni a Gabriele Giolito il D. esplicitava il suo intento divulgativo sostenendo che non osava "forniar nuove regole" dopo quelle stabilite dal Bembo e dal Fortunio, ma voleva appunto renderle accessibili a chi non conosceva il latino. Questa "introduzione ... per li principianti", secondo la definizione del Lombardelli nelle sue Fonti, (cfr. Trabalza), seguiva pressoché fedelmente la "bellissima inventione" del Bembo in materia di regole grammaticali e ortografiche - con criteri opposti a quelli del Trissino - e per le questioni di interpunzione, accentazione, poetica, metrica e ritmica. Sostanzialmente animate dalla stessa rigida ricerca della regolarità che sostiene i Fondamenti del parlar thoscano, Venezia 1549, di Rinaldo Corso, cui il D. attinse largamente, le Osservazioni portano agli estremi lo schematismo e l'esemplificazione nella lingua letteraria dei grandi autori, su cui si fondava in gran parte la normalizzazione grammaticale cinquecentesca di tendenza puristica. La prima edizione dell'opera non venne accolta con entusiasmo: Girolamo Ruscelli, ricordato elogiativamente dal D. nella dedica, gli mosse alcuni appunti e, nelle sue annotazioni al Decameron edite dal Valgrisio nel 1552, corresse parte degli errori da lui riscontrati. Il D. approfittò di tali emendamenti nella ristampa, sempre dello stesso anno, senza citare però il Ruscelli e anzi indirizzandogli una lettera diffamatoria. A questa il Ruscelli rispose l'anno doPo con i Tre discorsi, in cui si criticavano l'edizione curata dal D. del Decameron, le Osservazioni e la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio (le Trasformazioni, Giolito 1553), con argomenti tanto fondati - e condivisi da G. Muzio - che il D. preferì ancora una volta metterli a frutto nelle successive ristampe, abbandonando una polemica che aveva raggiunto toni asprissimi.
Il Discorso o Parere riproponeva un quesito ormai d'obbligo negli interventi sulla questione: "se la volgar lingua si dee chiamare italiana o toscana" era un problema che sollevava anche il Varchi nell'Ercolano. Il D. lo risolse in chiave bembesca, proponendo un toscanismo eletto ma esteso anche alle forme dei "poeti e scrittori nobilissimi" di ogni parte d'Italia: d'altra parte, nota il D., gli stessi Petrarca e Boccaccio ampliarono la sostanza fiorentina della loro lingua con apporti diversi.
Nella dedica a Marcantonio Rezzonico dei Modi affigurati il D. sottolineava come fosse più facile scrivere in latino che in un volgare "vago", "regolato", "gentile". Poiché dello "scriver regolatamente" si era già discusso nelle Osservazioni e dello "scriver figuratamente et artificiosamente" si erano occupati i retori, in quest'opera si trattava dello "scrivere ornatamente", fornendo un prontuario di forme e modi eleganti tratti da Petrarca, Boccaccio e da alcuni moderni. Il Discorso sopra a mutamenti e diversi ornamenti dell'Ariosto è una sorta di riassunto dell'Orlando furioso, con inseriti per esteso i brani più cospicui, corredato dai confronti tra le diverse redazioni.
L'altro genere, insieme al dialogo, che il D. coltivò con continuità e in cui giunse ad alcuni risultati garbati e ad almeno uno cospicuo fu il teatro. L'esordio del D. nell'ambito della commedia fu felice e fornì la prova migliore della sua scrittura teatrale: il Ragazzo, in prosa, edito da Curzio Navò nel 1541, ristampato da Bindoni e Pasini nello stesso anno, da Francesco l'Imperadore nel 1559, dagli eredi del Rubin nel 1587 e dal Bonfadini nel 1599, si legge anche in un'edizione moderna curata dal Sanesi (La commedia del Cinquecento, a cura di I. Sanesi, Bari 1912, II, pp. 205-293). L'impianto aretinesco del lessico e del discorso, gli inserti boccacciani, le eredità della Casina, dei Menaechmi e della Clizia non offuscano la vivacità di questa pièce, che tra i prodotti medi della commedia "erudita" si pone come esempio, peraltro poco noto, di originale riscrittura. Il D. ne fu in qualche misura consapevole, se definì "nova" solo questa commedia e la Fabritia, non curandosi invece di dichiarare con diligenza le fonti, come fece per tutte le altre sue opere drammatiche. Le stesse precauzioni, che di regola si prendevano nel prologo contro possibili accuse di licenziosità, non si tramutano all'interno del testo in alcuna censura lessicale o tematica, riproponendo piuttosto la motivazione, per cui bisogna "accomodarsi" al mutamento dei costumi, che ricorreva nella citata prefazione all'Amadigi. La Fabritia - Aldi filii 1549, poi eredi Rubin, 1587 - è anch'essa in prosa e "comedia tutta nuova", poiché "le cose nuove piacciono, et le antiche per la troppa età infastidiscono", come si legge nel prologo. In questo compare un'altra sentenza cara al D., rintracciabile in moltissimi dei suoi scritti, e cioè che non si può dire o fare cosa che non sia stata già detta o fatta da altri: gli echi dell'Eunuchus, dell'Hecyra, dello Stichus e dei moderni Suppositi confluiscono in un intreccio complicato e poco brillante. Il Marito in versi - edito dai Giolito nel 1547, ristampato dai Rubin nel 1580 e '86 - e il Roffiano in prosa - edito dai Giolito nel 1551 - sono due calchi, l'uno dell'Amphitruo e l'altro del Rudens: nel prologo della prima commedia viene citata una precedente versione in versi del Miles - il Capitano, Giolito 1545 e poi '47 - come esempio nobilitante per l'autore che ha riproposto Plauto tcon altra divisa, et fatto giovane", e si abbozza una generica definizione del verso comico. Ben più importante il prologo del Roffiano, in cui viene giustificata la scelta del volgare e non della "lingua Vinitiana" in uso solo presso i "buffoni", né di quella dei "fiorentini moderni", in nome di una più diffusa comprensibilità, specialmente da parte delle poco istruite donne. Fedele alle posizioni teoriche espresse nel Discorso sulla lingua, il D. qui sfiora alcuni problemi della specificità della lingua teatrale: registra, anche se rifiuta, la tipicizzazione di un linguaggio che dallo spettacolo dei "buffoni" e sotto le prime suggestioni dell'arte si va sviluppando nei testi di commedia, e coglie, ancora una volta, l'aspetto di immediato consumo del prodotto teatrale da parte di un pubblico sempre più eterogeneo. Non è un caso che una sezione rilevante delle edizioni giolitine sia costituita dai testi fondamentali dell'esperienza drammaturgica contemporanea, da Ariosto - di cui il D. cura le edizioni del Negromante e della Lena - a Bibbiena, Aretino, lo stesso D., e per la tragedia da Trissino a Giraldi Cinthio a Speroni.
Le commedie del D. vennero ristampate tutte e cinque insieme dai Giolito nel 1560. Anche alcune sue tragedie ebbero un'edizione collettiva nel 1560 e poi nel 1566, però presso il Farri.
Nell'ambito tragico il D. si mosse con minor disinvoltura rispetto ai modelli e con esiti mediocri: il Tieste e le Troiane, ambedue edite dai Giolito, rispettivamente nel 1543 e nel 1567, modellate su Seneca, l'Ecuba, Giolito 1543, la Giocasta, Aldo 1549, l'Ifigenia e la Medea, edite dai Giolito, l'una nel 1551 e l'altra nel 1557 e '58, tutte tratte da Euripide, insieme alla Didone, Aldus 1547, e la Marianna, Giolito 1565 - le uniche due di ispirazione non pedissequamente classica - costituiscono il corpus delle tragedie del Dolce.
Le prime cinque sono larghi rifacimenti degli originali ma, d'altronde, neppure la traduzione delle tragedie di Seneca edita dai Sessa nel 1560 si segnala per fedeltà: per questa parte, l'attività di tragediografo del D., che traduca o parafrasi, si limita al mestiere del divulgatore e del poligrafo. Più della Didone, che propone la vicenda virgiliana con variazioni da Sofocle e Euripide, la Marianna, basata sulle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, permette al D. un'espressione più originale, probabilmente occasionata da una trama inedita per il genere tragico rinascimentale (la folle gelosia di Erode per la moglie); nella dedica a Marcantonio Molino, del 25 maggio 1565, il D. ricorda la prova della rappresentazione della tragedia in casa di Sebastiano Erizzo e poi la recita nel palazzo del duca di Ferrara, sempre in Venezia, avvenuta con successo e l'accorrere di "gran moltitudine". Notizie di rappresentazioni si trovano per la Didone nella dedica di Tiberio d'Armano all'edizione 1547, per le Troiane nella dedica del D. datata 21 marzo 1566, per la Giocasta in quella del "primo di di quaresima 1549".
Tra le altre prose del D. vi sono alcuni scritti encomiastici, come la Vita di Carlo V, Giolito 1561, composta a concorrenza con quella di A. de Ulloa edita dal Valgrisio nel 1560, e quella di Ferdinando I del 1565, di cui Gabriele Giolito offrì un esemplare alla figlia dell'imperatore incensato. Le biografie e agiografie curate per l'impresa giolitina offrono al D. modelli collaudati: così la traduzione della Vita di Apollonio Tianeo composta da Filostrato, 1549; e il D. fa presente, nella lettera ad Antonfrancesco Corso del 1° genn. 1550, la fretta impostagli dall'editore poiché versioni della stessa opera stavano per uscire per i tipi di Comin da Trino e del Torrentino. Nella dedica alla traduzione delle Vite di tutti gl'imperadori di P. Mexia, Giolito 1561, il D. chiariva la natura della sua versione, dichiarando che "si allargò ove stimò che lo ricevesse il corso e la proprietà della nostra pura e dolce favella": analogo è il trattamento che riserva all'orazione funebre panegirica di A. Desbarres in onore di Carlo V, pubblicata nel 1566 e posta in appendice all'edizione 1567 della Vita dell'imperatore. Al D. si devono anche la biografia del Boccaccio - premessa alle edizioni Giolito 1552 in 40 e in 80 del Decameron - e di Dante, nell'edizione giolitina del 1555, in cui il D. attribuiva, da allora per sempre, il titolo di Divina alla Commedia. Così le historiae tradotte e volgarizzate per professione confluiscono con confuse reminiscenze nell'enciclopedico e bizzarro Giornale delle historie del mondo, pubblicato postumo a cura di Guglielmo Rinaldi, Venezia, al segno della Salamandra, 1572: scandito "di giorno in giorno" sulle "cose degne di memoria" accadute "dal principio del Mondo", il giornale rubrica, per esempio, al 1° gennaio la morte di Ovidio e la nascita nel 1469 di Sigismondo re di Polonia.
Questo tipo di compilazione doveva affascinate il D., se nel 1561 il Senato veneziano concedeva al Giolito il privilegio per un Discorso universale sulle "historie di tutte l'Età, Imperii, Regni et Nationi", da far stendere al D.: il Discorso fu edito nel 1570 e ne risulta autore Agostino Ferentilli, ma il Bongi postula una probabile paternità dolciana.
In effetti, tralasciando l'attività svolta al di là della collaborazione con i Giolito, la sezione storica curata dal D. per questi ultimi annovera testi disparati ed eterogenei, spesso derivati non dall'originale, ma da versioni accessibili al traduttore: il Discorso del Guilleo "sopra i fatti di Annibale", ampliato, 1551; l'Istoria delle guerre "esterne" e "civili" dei Romani di Appiano Alessandrino, 1554 e '59; il compendio de "i fatti de' Romani" di Sesto Ruffo e Cassiodoro, ampliato, 1560; le Istorie di Costantinopoli di Niceforo Gregora, traduzione portata a termine da A. Ferentilli, 1569, e l'Istoria degl'imperatori greci di Niceta Coniate, anche questa portata a compimento dal Ferentilli, 1569.
Ancora più legata ad occasioni, suggestioni e mode è la produzione in versi del D., peraltro mediocre versificatore. Nel 1535 all'edizione Pasini e Bindoni dell'Orlando furioso venne aggiunta un'Apologia dell'Ariosto, fortunata e importante tanto da essere più volte ristampata, in cui il D. abbozza, con termini che ricorreranno nei suoi scritti sull'arte, la poetica del "diletto" che il poeta ferrarese raggiunge tramite una "piacevolezza" coincidente con la "varietà". Ma contemporaneamente, nell'avviso ai lettori di un poemetto in ottave sulla Vittoria africana di Carlo V, il D. invitava a distogliersi da letture evasive, come le favole cavalleresche, e a dedicarsi alla realtà, al "vero oggi" dell'epopea contemporanea.
Sulla base di queste incoerenti premesse, la produzione in versi del D. si "accomoda" all'uso e spazia dalla riduzione del Filocolo boccacciano con il titolo Florio e Biancofiore, Venezia, per Bernardino de Vitali, 1537, alla traduzione in versi sciolti dell'Epitalamio nelle nozze di Peleo e Teti di Catullo, edita insieme alla satira di Giovenale nel 1538, al commento alle Imprese del pittore Battista Pittoni, alla Vita di Giuseppe figlio di Giacobbe "descritta in ottava rima", Giolito 1556, ad una traduzione - rimaneggiamento dell'Eneide, sempre in ottave, l'Enea, Varisco 1568, al pastiche tra Iliade e Eneide, in ottave, edito postumo dai Giolito nel 1572, con il titolo di Achille e Enea e, infine, all'Ulisse, tratto dall'Odissea, e pubblicato postumo nel 1573 insieme alla traduzione della Batracomiomachia.
La disinvoltura con cui il D. affrontava i problemi della traduzione era aggravata dal fatto che tutte le sue fatiche letterarie erano scandite dai frenetici tempi del mercato librario e spesso insidiate dalla concorrenza. Nel 1539 il D. pubblicò il Primo libro delle Trasformazioni, parafrasi in versi sciolti delle Metamorfosi di Ovidio, come saggio della versione complessiva che andava approntando: l'opera venne completata solo nel 1553, in ottave, con un tetrastico finale in cui il D. si dichiarava pronto a correggere la traduzione e doveva essere tanto poco sicuro di sé da pregare il Varchi di emendare. Intervenne invece il Ruscelli con il terzo dei suoi Discorsi, in cui, oltre a sottolineare i numerosissimi errori, dimostrava che il D. aveva a sua volta parafrasato la traduzione di N. Degli Agostini. Inutilmente il Varchi difese nell'Ercolano la versione del D., tanto più che non poté non apprezzare quella di G.A. dell'Anguillara che, edita nel 1561, farà dimenticare quella dolciana. Risultati non migliori conseguì il D. traendo ispirazione dal genere epico-cavalleresco a lui più vicino: così il Sacripante, in ottave, di cui nel 1535 uscirono i primi cinque canti, l'anno dopo il primo libro, costituito da quelli e da altri cinque. Ma il D. preferi non insistere: riproverà molti anni più tardi, continuando la storia narrata nell'Amadigi con il Palmerino, Sessa 1561, e il Primaleone figliuolo di Palmerino, sempre Sessa 1562 e poi, con titolo mutato, 1597, ambedue in ottave, e orecchiando Boiardo e Ariosto con Le prime imprese del conte Orlando, edito postumo presso i Giolito nel 1572, che vanta una traduzione spagnola del 1594. A questi tentativi di più ampio respiro, ma sciatti e banali, si accompagnano brevi composizioni di maniera, capitoli berneschi, satire, sonetti, stanze. Inoltre il D. compose, secondo il Cicogna, Il sogno di Parnaso, firmando la dedica "Lodovico Dolcio", e curò le edizioni delle Rime di Vittoria Colonna; dei Carmina di Lodovico Pascale e di Benedetto Lampridio; delle Rime e dell'Arcadia di Jacopo Sannazaro; del commento di Sebastiano Erizzo a tre canzoni del Petrarca; delle raccolte di Rime e Stanze di diversi. A questo tipo di edizioni miscellanee in versi, Gabriele Giolito affiancò quelle delle "lettere", altro genere di larga fortuna, soprattutto dopo l'edizione marcoliniana del primo libro di quelle dell'Aretino: così il D. si trovò a curare una raccolta di Epistole, 1548, una di Lettere di diversi, 1554, poi ristampata, e nel 1563 la traduzione condotta - per sua stessa ammissione - su una versione latina delle lettere, apocrife, del "Gran Maometto", e di quelle di Falaride, altrettanto sospette.
Per completare il quadro dell'attività professionale del D. va citata la cura dell'edizione delle Opere di Giulio Camillo Del-minio; del Sommario di tutte le scienze di Domenico Delfino; del Libro di natura d'amore di Mario Equicola; delle Sei giornate dell'Erizzo, per i tipi del Varisco; dei Fatti e grandezze Manoli Blessi Strathioto del Burchiella; dell'Amorosa Fiammetta del Boccaccio; della Vita di Camillo Orsino dell'Orologi. Ancora, tradusse gli Amorosi ragionamenti di Achille Tazio; l'orazione di Galeno sulla "cognizione delle buone arti"; lo Stato del Cursore Cristiano di Antonio Ulstio; il Concilio, ovvero consiglio e consiglieri del prencipe dello spagnolo Furio Ceriolo; le Istorie viniziane di Marco Antonio Sabellico, per Curzio Navò 1544; e infine, secondo il Cicogna, la Vita di san Mammante del Metafraste, Firenze, alla Stella, 1556.
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