locuzioni
Nella terminologia grammaticale tradizionale locuzione è il nome generico che designa qualunque unità linguistica formata da più parole grafiche: per es., forze dell’ordine, prestare servizio, bello e buono, di male in peggio, fin tanto che, grazie a Dio, ecc.
Le locuzioni nascono come fenomeno di solidarietà lessicale, nel dominio delle cosiddette ➔ collocazioni (Beccaria 1994: 148-149); rispetto a queste ultime, però, presentano un sovrappiù di compattezza sintattica e semantica (per es., la possibilità di sviluppare significati traslati, come nel caso delle espressioni idiomatiche; ➔ modi di dire), che ne giustifica l’assimilazione alle parole monorematiche (cioè composte da una sola parola).
Lo studio delle locuzioni va ascritto ai due domini della ➔ sintassi e della ➔ formazione delle parole (cfr. Voghera 2004: 57; Kavka 2009: 20). Infatti, pur presentandosi sotto forma di segmenti testuali, le locuzioni condividono alcune caratteristiche con i composti e con i conglomerati: la sequenza non ti scordar di me, pur avendo la forma di una frase, è usata come nome (denominazione comune per le piante del genere Miosotide); alla stregua di un nome (invariabile), non ti scordar di me (anche accompagnato da un articolo e da aggettivi) è usato come costituente (soggetto, oggetto o complemento di varia natura) di frase:
(1) ho trovato un piccolo non ti scordar di me nel diario di mia nonna
Che la locuzione si comporti in tutto e per tutto come una parola semplice è confermato anche dalle varianti grafiche non-ti-scordar-di-me e nontiscordardimé; quest’ultima, in particolar modo, testimonia come la sequenza rappresenti un’unità anche da un punto di vista prosodico.
La locuzione è una fase intermedia nel processo che dalla frase conduce alla parola monorematica: nel caso dei composti, secondo alcuni ciò avviene per condensazione di una frase soggiacente, ridotta ai suoi elementi più pregnanti: carro armato («il carro è armato»), macchina da scrivere («la macchina serve per scrivere») sono considerabili alla stregua di lavastoviglie «X lava le stoviglie», altopiano «il piano è alto». Più correttamente si parla invece di conglomerato (cfr. Benveniste 1974: 171; Beccaria 1994: 167; Dardano 2009: 189) quando un segmento di frase, preso così com’è, si cristallizza in un elemento grammaticale o lessicale: è il caso del già citato non ti scordar di me, così come di (il) fai da te, (il) cessate il fuoco, (un) non so che, assimilabili (sul piano diacronico) a parole come daccapo, nullaosta, qualsivoglia, stanotte, ecc.
Non di rado, a testimonianza di un avvenuto e non sempre esaurito processo di ➔ lessicalizzazione, la grafia univerbata (➔ univerbazione) concorre con quella etimologica: carro armato e (meno spesso) carrarmato, pan di Spagna e pandispagna, tira e molla e tiremmolla, mangia e bevi e mangiaebevi, nulla osta e nullaosta. Lo stesso vale per elementi grammaticali come non ostante e nonostante, se non che e sennonché; in alcuni casi, degli elementi che formano un composto, solo alcuni sono univerbati: mangiapane a tradimento (attestato, benché raro, anche come mangia pane a tradimento, ma non come *mangiapaneatradimento). La grafia univerbata, naturalmente, contribuisce all’opacizzazione del significato originario (composizionale) degli elementi del composto (o del conglomerato) ed è perciò indice di un più avanzato livello di lessicalizzazione o grammaticalizzazione del medesimo.
Le locuzioni possono essere assimilate a varie classi di parole, di cui condividono distribuzione e funzioni.
Si parla di locuzioni nominali nel caso di sintagmi che esercitino la funzione di nomi (➔ nomi). Le combinazioni più frequenti sono: nome + aggettivo (zuppa inglese, metro quadro, campo magnetico), nome + preposizione + nome (ferro da stiro, mal di testa, tiro a segno), aggettivo + nome (alta tensione, terza pagina, vecchia gloria), nome + nome (busta paga, effetto serra, porta finestra).
Le locuzioni verbali sono formate da un predicato unito a un sintagma di vario genere; nella maggior parte dei casi si tratta di un nome (dare avvio, battere cassa), un sintagma preposizionale (andare a capo, uscire di senno), un avverbio (saltare su, andarci piano, essere lì lì; ➔ sintagmatici, verbi), un aggettivo (essere fritto, stare fresco) o un infinito verbale, per lo più retto da preposizione (andare a parare, darsi da fare). In alcuni casi il predicato può reggere sintagmi più complessi: essere sulla bocca di tutti, andare a farsi benedire, far venire il latte alle ginocchia; oppure, in una stessa locuzione, possono trovarsi più predicati coordinati fra loro: cantare e portare la croce, cantarsela e suonarsela:
(2) E mentre davanti allo studio di Carramba protestano i ballerini esclusi, lei se la canta e se la suona («La Repubblica» 27 settembre 1996)
Molto usati come testa di locuzioni verbali sono i verbi cosiddetti pro-complementari (➔ verbi; ➔ pronominali, verbi), spesso accompagnati da un aggettivo che si accorda col clitico al femminile (➔ oggetto): saperla lunga, raccontarla giusta (cfr. Viviani 2006: 258).
La forma più tipica delle locuzioni aggettivali è quella del sintagma preposizionale: di tutto rispetto, all’acqua di rose, di là da venire; rientrano in questa categoria anche conglomerati formati da due verbi di modo finito coordinati, del tipo mordi e fuggi, fai da te, taglia e cuci.
Le locuzioni avverbiali (alla buon’ora, di gran carriera, con rispetto parlando) arricchiscono la categoria degli ➔ avverbi e degli attributi (➔ avverbiali, locuzioni; ➔ attributo); tra le forme più tipiche è la sequenza preposizione + nome (o aggettivo): a menadito, a tutta birra. La funzione avverbiale di questi sintagmi è particolarmente evidente nei casi in cui è possibile riformularli come avverbi denominali o deaggettivali, agganciando alla base del nome o dell’aggettivo il suffisso -mente, tipico degli avverbi composti; si hanno così alternanze come alla perfezione e perfettamente, di solito e solitamente.
Sono locuzioni congiuntive (o congiunzionali) sintagmi come dal momento che, ammesso (e non concesso) che, se non che, per quanto, posto che, ecc., usati come connettivi. Molte fra queste parole (➔ polirematiche, parole), come mostrano gli esempi, sono formate aggiungendo materiale lessicale al complementatore che, marca della funzione sintattica. Questa struttura è riconoscibile anche nella forma di alcune congiunzioni dalla grafia oggi univerbata: poiché < poi + che (originariamente anche con significato temporale), benché < ben + che.
Le locuzioni prepositive (o preposizionali) hanno la forma (preposizione) + nome + preposizione: a guisa di, a causa di, rispetto a ( ➔ preposizioni). Insieme a quelle congiuntive formano l’insieme delle «unità polirematiche grammaticali» (DISC 1997: XIV).
Che cosa, che so io, il tal dei tali, noi altri (anche univerbato), quello là sono classificati come locuzioni pronominali (per una rassegna dei tipi cfr. Voghera 2004: 65).
Altre categorie individuate dai linguisti non fanno riferimento al comportamento sintattico delle locuzioni, ma ad aspetti semantici, formali o funzionali:
(a) le locuzioni polari sono coppie di termini antitetici in ordine obbligato (➔ binomi irreversibili) come più o meno, giorno e notte, volente o nolente, tira e molla, bene o male, con le buone o con le cattive, (farne) di cotte e di crude;
(b) le locuzioni iterative sono formate ripetendo più volte la stessa parola, per conferirle valore iterativo o intensivo ( ➔ iterazione, espressione della; ➔ intensificatori); si tratta di locuzioni avverbiali come ben(e) bene, piano piano, quasi quasi, così così, cammina cammina; di molti ideofoni (➔ onomatopee e fonosimbolismo), come ciuf ciuf, glu glu e lemme lemme; delle polirematiche nominali fuggi fuggi, magna magna, pigia pigia o di quelle aggettivali zitto zitto, terra terra, papale papale;
(c) le locuzioni pragmatiche sono frasi o sintagmi che non veicolano il proprio significato letterale, agendo piuttosto come «indicatori di atti linguistici» (Voghera 2004: 60) o ➔ segnali discorsivi: in altre parole, segnalano l’atteggiamento del parlante nei confronti della situazione comunicativa; è quanto avviene, per es., con alcune domande retoriche (➔ interrogative retoriche): ma che mi racconti?, che si dice?, chi ti credi di essere?
Nella formazione delle locuzioni avvengono frequenti passaggi di categoria grammaticale: in acqua e sapone una coppia di nomi coordinati produce la locuzione aggettivale; non è infrequente la lessicalizzazione di forme verbali (mordi e fuggi) o la ➔ grammaticalizzazione di nomi che entrano a far parte di locuzioni congiuntive, svuotandosi del proprio significato lessicale (rispetto a).
Al pari delle parole monorematiche, anche le locuzioni possono essere ricategorizzate, generando ambiguità interpretative: fai da te, che abbiamo in precedenza classificato come locuzione nominale, può essere usato in funzione di aggettivo:
(3) Turista fai da te? (spot pubblicitario «Alpitour» del 1994)
Parimenti, non è infrequente l’uso avverbiale di locuzioni aggettivali:
(4) ha subito una punizione / è stato punito all’acqua di rose
All’acqua di rose mostra anche come il costituente di una locuzione possa essere a sua volta una polirematica (acqua di rose «cosmetico a base di acqua e alcol con essenza di rose»).
Inventariare e lemmatizzare le locuzioni non è semplice. Innanzi tutto non esiste una regola univoca che stabilisca quando un sintagma è diventato locuzione; non è improbabile che nel corso del tempo la combinatoria del neologismo consegni ai repertori nuove formazioni: effetto serra, realtà virtuale, rischio cambio, testamento biologico; inoltre non è sempre facile ascrivere una polirematica all’una o all’altra categoria grammaticale, come si è mostrato per la locuzione all’acqua di rose, che il GRADIT classifica sia come aggettivale che come avverbiale (cfr. l’es. 4). Nel caso di locuzioni verbali che contengano verbi di significato ampio (avere, essere, andare) ci si può inoltre chiedere se sia opportuno considerare il predicato come parte integrante della locuzione: (andare) di moda, (essere) in voga, ma anche un abito di moda, uno slogan in voga negli anni Settanta.
La maggior parte dei dizionari tratta la locuzione non come lemma indipendente (➔ lemma, tipi di), ma sotto la voce relativa al componente o ai componenti semanticamente più pregnanti (quando la locuzione sia priva di elementi semanticamente ‘pieni’, si tende a considerarla voce autonoma: per es., al di là): il GRADIT menziona menare il can per l’aia sotto le voci aia, cane e menare, ma non sotto il e per. Possono fare eccezione le polirematiche i cui componenti non hanno un uso autonomo, come lemme lemme, zig zag, appoco appoco (che il VIT, a differenza del GRADIT, inserisce sotto la voce appoco) o i forestierismi ex aequo, word processor, nouvelle cuisine. I forestierismi, nel GRADIT, sono trattati individualmente anche quando a un loro elemento sia dedicata una voce: web agency, web community e web designer, presenti nel lemmario accanto a web; il VIT invece lemmatizza numerose polirematiche endogene, come all’erta, albero bottiglia (pianta australiana e argentina) e dura madre «la parte più superficiale e più spessa delle tre meningi».
Come le parole monorematiche, le locuzioni «rappresentano un unico costituente semantico» ed esprimono «globalmente un concetto unico» (Dardano 2009: 17-18); ciò nonostante, così come è possibile individuare graficamente i componenti della polirematica, spesso è possibile analizzarne la struttura semantica; si parla perciò di significato composizionale, cioè deducibile dalla composizione dei costituenti: motore a scoppio, realtà virtuale, macchina da scrivere.
Sebbene il significato di queste polirematiche sia palesemente composizionale, la loro unità di significato è resa evidente dall’univocità con la quale il parlante le interpreta: il motore a scoppio è così chiamato non già perché produca una detonazione qualsiasi, ma perché sfrutta l’esplosione di una miscela di benzina e aria; quando si parla di realtà virtuale ci si riferisce non già a una realtà potenziale tout court, ma a una simulazione della realtà ottenuta con l’uso di tecnologie informatiche che consentono all’utente di interagire con essa (virtuale è inteso come «che si fonda sulla simulazione del reale mediato da mezzi elettronici»: GRADIT, ad vocem). In sostanza, mentre l’interpretazione dei sintagmi liberi è spesso suggerita dal contesto, quella delle polirematiche è predeterminata all’uso contestuale da conoscenze preesistenti e condivise.
Quanto si è detto è ancor più evidente nel caso delle cosiddette espressioni idiomatiche (cfr. Casadei 1996; Dardano & Trifone 1997: 552; ➔ modi di dire), ovvero locuzioni dal significato non composizionale. Si tratta di sintagmi che hanno subito uno slittamento semantico che ne ha reso opaca la struttura: tirare le cuoia, menare il can per l’aia, alla bell’e meglio, all’acqua di rose, teste di cuoio.
Spesso lo spostamento semantico avviene in ragione di una metafora (patata bollente «situazione difficile da gestire») o di una metonimia (caschi blu) che si associa all’uso di un determinato sintagma (cfr. Casadei 1996); anche la ricategorizzazione origina locuzioni idiomatiche, così come nel caso di fai da te, (giocare) alla viva il parroco «giocare al calcio senza ordine tattico», che ricoprono le funzioni rispettivamente di nome e di avverbio:
(5) Ikea è il ‘tempio’ del fai da te
(6) contro il Brasile, l’Italia ha giocato alla viva il parroco
Un discorso analogo riguarda le locuzioni preposizionali e congiuntive che originano da elementi svuotati progressivamente del proprio significato lessicale: in luogo di, rispetto a, dal momento che (causale) o l’obsoleta con ciò sia cosa che (anche in grafia unita: conciossiacosaché) «poiché, benché, qualora»; parimenti, in alcuni sintagmi è la forza pragmatica a sostituirsi al significato letterale, modificandone status e funzioni (le locuzioni pragmatiche, per le quali cfr. § 3).
Rispetto alle polirematiche ‘trasparenti’, le espressioni idiomatiche impongono restrizioni più rigide: è infatti la capacità di individuare l’articolazione semantica interna di una locuzione che permette all’utente di scomporla in fattori e proporne riformulazioni che meglio si adattino al proprio discorso; ciascuno dei componenti di una sequenza come motore a scoppio, pur partecipando a un significato complessivo, conserva anche il proprio valore individuale; i ‘pezzi’ di questa costruzione sono perciò riassemblabili più o meno liberamente, senza corruzione del significato composizionale della locuzione.
Rispetto ai sintagmi liberi, l’alto livello di codificazione assimila le locuzioni alle parole monorematiche; in particolare, il loro uso impone ai parlanti restrizioni che ricordano quelle proprie dei composti (➔ composizione).
La proprietà più evidente è la stabilità della sequenza; assai limitata, rispetto ai sintagmi liberi, è la possibilità di cambiare l’ordine dei costituenti di una polirematica: accoglienza calorosa / calorosa accoglienza, ma bandiera bianca «in guerra, segnale di resa» / * bianca bandiera; nell’esempio seguente la riformulazione di vecchie glorie in glorie vecchie genera un evidente mutamento di significato:
(7) il rischio delle vecchie glorie è di essere glorie vecchie («La Repubblica» 4 gennaio 1987, cit. in Serianni 19912: 204)
Difficile è anche l’inserzione di materiale linguistico nella sequenza nominale: sala per gli ospiti → una sala grande per gli ospiti, ma sala da pranzo → * una sala grande da pranzo; più permeabili sono le locuzioni verbali (per contro, le locuzioni congiuntive e preposizionali presentano di solito la massima resistenza a qualsivoglia intervento sulla forma canonica):
(8) Forse ho sopravvalutato il cavallo – dirà alla fine – gli ho dato troppo spago e quando ha rotto era difficile riprenderlo («La Gazzetta dello Sport» 3 settembre 1998) [dare spago]
La maggior flessibilità delle locuzioni verbali consente anche procedimenti di segmentazione e messa in rilievo, come tematizzazioni o ➔ dislocazioni (➔ focalizzazioni):
(9) a capo si va premendo il tasto ‘Invio’ [andare a capo]
(10) in assenza del relatore, le parti dello studente le ha dovute prendere il correlatore [prendere le parti di]
Riformulare una locuzione con sinonimi non è sempre possibile: si può scegliere fra far cadere e cascare le braccia, macchina da e per cucire, alla bene e bell’e meglio (così come, con l’ingl. to grasp e seize the nettle «prendere il toro per le corna»; cfr. Kavka 2009: 21); viceversa, non avrebbero senso le riformulazioni al soldo → * al denaro, per mezzo di → * per strumento di, andare per la maggiore → * andare per la più grande, casa da gioco → * abitazione / * residenza / * appartamento da gioco; come sinonimo di macchina da guerra, il sintagma macchina per la guerra potrebbe forse essere accettato col significato letterale «ordigno bellico», ma sicuramente non nei casi in cui la locuzione è usata metaforicamente:
(11) che poi, il giorno dopo, la felice macchina da guerra messa a punto dai progressisti sia andata a pezzi è questione tutt’altro che secondaria («La Stampa» 4 febbraio 1994)
Ridotta è pure la possibilità di sostituire un elemento con un suo alterato: casa editrice → * casupola editrice, ferro da stiro → * ferretto da stiro, andare in porto → * andare in porticciolo, grande invalido → * grandissimo invalido; per contro, a caso → a casaccio, un po’ → un pochetto / un pochino / un pochettino. Alla grandissima non sarebbe inaccettabile in uno scambio di battute come il seguente:
(12) – Come va? – Alla grandissima!
La rigidità della sequenza con cui alcune locuzioni sono usate e trasmesse ne fa spesso il terreno ideale per la conservazione di forme ‘fossili’, scomparse o desuete nell’uso corrente: è il caso del nome repentaglio «grave pericolo», che sopravvive solo nella locuzione verbale mettere a repentaglio; del nome guisa «maniera» in a guisa di; del verbo menare «condurre» in menare il can per l’aia; del plurale in -a di cuoia in tirare le cuoia. A questo carattere conservativo delle locuzioni vanno probabilmente ascritti i numerosi fenomeni di apocope in esse presenti: ragion per cui, in men che non si dica, menare il can per l’aia, vin santo, cuor di leone, a rigor di logica.
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