François Hollande il 6 maggio 2012 è divenuto il secondo presidente socialista nella storia della Quinta Repubblica. Diciassette anni dopo la fine del ‘regno mitterandiano’, l’ex segretario del Parti Socialiste (Ps), sindaco di Tulle e presidente del consiglio generale della Corrèze (ma mai ministro), è il settimo presidente del sistema istituzionale rifondato da Charles de Gaulle nel 1958. Hollande ha sconfitto il presidente uscente Nicolas Sarkozy con il 51,62% dei voti, contro il 48,38% di quest’ultimo. Un distacco netto, di circa 1,2 milioni di voti, ma meno largo di quello previsto all’inizio della campagna.
La vittoria di Hollande è legata ad alcuni fattori principali. Il primo riguarda le scelte operate nella sua lunga ‘traversata del deserto’, terminato l’incarico di primo segretario del Ps nel novembre 2008. Da quel momento egli ha iniziato un percorso di costruzione di un profilo presidenziabile. Il punto più alto di questa trasformazione si è toccato con le primarie interne al Ps per la candidatura all’Eliseo, vinte contro Martine Aubry nell’ottobre 2011, dopo che lo scandalo di New York aveva bloccato la candidatura di Dominique Strauss-Kahn. Hollande ha mosso la sua riflessione partendo dai due grandi traumi vissuti dal Ps durante la sua segreteria: la debacle del 2002, quando Lionel Jospin fu estromesso dal ballottaggio presidenziale contro Chirac da Jean-Marie Le Pen, e la vittoria del ‘no’ al referendum sul Trattato costituzionale europeo del 29 maggio 2005, con l’elettorato Ps diviso e in contrasto con eletti e dirigenti del partito (compreso Hollande) schierati per il ‘sì’. Hollande ha avuto come stella polare della campagna elettorale i due insegnamenti di quelle sconfitte: evitare un’eccessiva divisione a sinistra (che nel 2002 aveva sette candidati) e tenere conto delle differenti sensibilità della gauche sull’Europa.
Il secondo fattore che ha contribuito alla vittoria è stato l’impopolarità di Sarkozy. Eletto nel 2007 sull’onda di una campagna elettorale elettrizzante, che aveva riavvicinato i francesi alla politica, ben presto la rupture da lui teorizzata si è concretizzata nel tentativo confuso, e privo della necessaria dimensione pedagogica, di riformare il paese, unito ad una disinvolta ‘desacralizzazione’ e banalizzazione della presidenza della repubblica, attitudine mal tollerata innanzitutto dal suo stesso elettorato.
A questo secondo è legato anche il terzo fattore per comprendere l’elezione di Hollande, e cioè lo storico risultato di Marine Le Pen al primo turno elettorale. Con il 17,9%, la candidata del Front National (Fn) ha superato il record del padre del 2002 e certificato che l’erosione del voto frontista riuscita a Sarkozy nel 2007 (Jean-Marie Le Pen si era fermato al 10%) non si era concretizzata nel 2012. Anzi, Marine Le Pen ha raccolto una parte consistente del voto dei delusi di Sarkozy. Voti che, al ballottaggio, in maggioranza si sono riversati nel quasi 5% di schede bianche o nulle, in progressione del 3% rispetto al primo turno. Il suo successo, così come il recupero operato da Sarkozy nella seconda parte della campagna elettorale, dopo aver riportato il dibattito sui temi dell’immigrazione e dello scontro tra paese reale ed élites dirigenti, ha dimostrato l’importanza della dimensione valoriale (legata a logiche identitarie), diffusa presso un’opinione pubblica popolare, in difficoltà economica e con un livello di scolarizzazione medio-basso.
Infine, Hollande ha potuto sfruttare a suo favore quel desiderio di cambiamento che caratterizza l’elettorato dei principali paesi europei nell’attuale congiuntura di crisi.
Il messaggio elettorale di Hollande si può riassumere nella risposta ad una domanda: il modello sociale e repubblicano francese ha ancora qualche possibilità di sopravvivenza? La sua risposta è stata una rassicurazione al paese smarrito di fronte alla crisi e sconvolto dal volontarismo di Sarkozy: la Francia possiede le risorse per uscire dalla crisi senza stravolgere il suo modello, purché accetti di ‘riunirsi’ (se rassembler) attorno al suo presidente, esempio di giustizia ed uguaglianza repubblicane.
Questo non significa che Hollande abbia rinunciato ad un approccio pragmatico o si sia mostrato non consapevole dei problemi di quello che «The Economist» ha definito il ‘vero malato d’Europa’ (disoccupazione in costante aumento, spesa pubblica oltre il 55% del pil, costo del lavoro su livelli incontrollati, de-industrializzazione accentuata e bilancia commerciale in deficit). La sua rottura con il tema classico del rilancio keynesiano è stata netta e fin dalla campagna elettorale ha giudicato centrale il problema del debito pubblico.
Una volta ottenuta una solida maggioranza parlamentare alle legislative di giugno (però da un punto di vista quantitativo non si è avuto alcun sfondamento, dato che il 39,87%, considerato l’elevato astensionismo, corrisponde solo al voto del 22% degli iscritti), la scelta di Jean-Marie Ayrault come primo ministro è stata la conferma della volontà di procedere con un approccio pragmatico e il più possibile gestionale.
Sin dalla campagna elettorale Hollande ha anche mostrato di aver chiaro che qualsiasi ricetta di riforma e di rilancio del paese deve essere inserita nel quadro europeo. Conscio delle possibili divisioni interne alla sinistra, Hollande ha insistito sul tema della crescita da accostare all’ortodossia nei conti pubblici sostenuta da Angela Merkel e appoggiato da Sarkozy nella seconda parte del suo mandato. L’elezione di Hollande ha archiviato quell’asse Parigi-Berlino giornalisticamente definito ‘Merkozy’, che in realtà mascherava il primato tedesco economico ma anche politico. A partire dal primo vertice europeo e sino a quello di fine 2012, costante è stato il ‘braccio di ferro’ tra Parigi e Berlino. Al Consiglio europeo di fine giugno il neo-presidente francese ha ottenuto un primo e parziale successo imponendo, grazie al sostegno di Mario Monti e di Mariano Rajoy, che si procedesse sulla strada della solidarietà finanziaria, come presupposto per una futura integrazione dei bilanci statali e di una più concreta unione politica e non viceversa, come desiderato da Berlino. Anche il via libera di metà dicembre 2012 alla supervisione bancaria sotto controllo della Banca centrale europea è frutto di un accordo a margine delle continue tensioni tra Parigi e Berlino. Merkel, oramai in campagna elettorale per il voto di settembre 2013, ha ottenuto che cadesse l’idea di un bilancio comune europeo e la conseguente emissione di eurobonds. Anche Hollande può però contare su una parziale vittoria, essendo oramai consolidata la convinzione che qualsiasi accelerazione sul fronte dell’integrazione politica (come desiderato da Berlino) non possa prescindere da una precedente solidarietà finanziaria.
In attesa del voto tedesco, da Berlino ricordano che l’attuale situazione di stallo del dibattito europeo è in larga parte responsabilità di Parigi, che rimanda le imprescindibili riforme riguardanti la spesa pubblica eccessiva e le rigidità del mercato del lavoro. La mutualizzazione eventuale dei debiti pubblici verrà accettata da Berlino soltanto a seguito di un profondo mutamento del quadro macroeconomico francese. In questo stallo sono condensate tutte le difficoltà dell’asse franco-tedesco, in crisi da quando Parigi non possiede più i mezzi economici per offrire input politici alla Germania, se questa decide di temporeggiare.
Con le prime misure attuate dopo la pubblicazione del ‘Rapporto Gallois’ di novembre 2012, Hollande ha accelerato sul fronte della competitività e della diminuzione del costo del lavoro, oltre a procedere con i tagli alla spesa pubblica. Insomma, sembra muoversi nella direzione auspicata da Berlino. Bisognerà valutare se il suo approccio pragmatico e post-ideologico riuscirà ad ottenere risultati sul fronte interno e di conseguenza su quello continentale.
La sua capacità di unire la tradizione di un Chevènement a quella di un Delors finisce per ricordare François Mitterrand quanto a gestione dei rapporti di forza e capacità di superare i conflitti ponendosi come decisore di ultima istanza. La congiuntura attuale è però molto diversa da quella di inizio anni Ottanta. Allora a Mitterrand bastò la svolta ‘europea’ del 1983 per invertire la rotta e passare dalla ‘poesia’ del Quartiere latino alla ‘prosa’ di Bruxelles. Mitterrand utilizzò la carta europea per compensare le difficoltà socialiste. Ad Hollande è oggi richiesto un compito più ingrato. Il suo pragmatismo dovrebbe sciogliere i nodi irrisolti del mai riadattato, dopo la fine dei Trente glorieuses, modello francese. Dovrebbe poi rimodellare un socialismo che, proprio grazie all’approccio mitterandiano, è riuscito a conquistare tutti i centri di potere (oggi il Ps oltre all’Eliseo e a Matignon controlla l’Assemblea nazionale e il Senato, la maggioranza dei consigli generali, tutte le regioni tranne l’Alsazia e le principali città), ma appare orfano di una moderna cultura politica di governo. Infine egli dovrebbe imporre tale approccio ad uno spazio europeo vasto, eterogeneo e al momento dominato dalla leadership di Merkel. Una triplice impresa titanica: guarire il paese, rifondare una cultura politica e imporre la propria leadership in alternativa a quella tedesca, per inaugurare un nuovo capitolo dell’integrazione europea e del socialismo continentale.