Il conflitto armato in Ucraina Orientale, noto anche come guerra del Donbass, è iniziato come conseguenza della Rivoluzione di Majdan a Kiev nel novembre 2013, cui seguì la deposizione del leader filo-russo Viktor Janukovyč, con un conseguente avvicinamento di Kiev all’Occidente. Le risposte di Mosca aprirono ulteriori fasi di forte instabilità, e si rivolsero verso due principali teatri geopolitici ucraini. La prima reazione prese di mira la Crimea, che tramite un’incruenta operazione militare e un referendum (illegittimo per la comunità internazionale), venne annessa alla Federazione Russa. La seconda riguardò l’area russofona dell’Ucraina sud-orientale, principalmente attorno alle due regioni a vocazione indipendentista di Donets’k e Luhans’k. Nell’aprile 2014, sulla scia degli eventi che portarono all’annessione della Crimea, gruppi di attivisti pro-russi diedero inizio, in queste regioni, all’occupazione di vari edifici amministrativi. Di fronte a questa situazione, e con movimenti di truppe russe ai confini, Kiev decise di intervenire manu militari per scongiurare una replica dello scenario crimeano e riprendere il controllo delle regioni centrifughe. Nell’aprile 2014 è iniziato così il conflitto armato che, con momenti di diversa intensità, è durato per oltre 18 mesi: da un lato le forze armate ucraine e il governo Porošenko, dall’altra le formazioni ribelli delle due repubbliche comandate da Alexander Zakarchenko e Igor Plotnitsky, con un bilancio totale di oltre 7000 vittime, di cui oltre 2600 soldati ucraini, 2200 separatisti, e 2500 civili. Nonostante l’evidente influenza diretta del Cremlino sulle repubbliche separatiste, e le reiterate accuse di Kiev e dell’Occidente al Cremlino di aver invaso a più riprese l’Ucraina, Mosca ha tuttavia negato il coinvolgimento diretto del proprio esercito, ritraendosi come parte terza al conflitto. Il conflitto è stato segnato da due principali armistizi: gli accordi di Minsk I sottoscritti il 6 settembre 2014, seguiti da quelli di Minsk II dell’11 febbraio 2015. Gli accordi di Minsk I, che tra i vari punti istituivano come priorità un cessate il fuoco e la creazione di una buffer zone tra il territorio sotto il controllo di Kiev e quello in mano ai separatisti, furono in seguito pesantemente violati. I negoziati sono stati anche causa diretta di decisivi scontri militari sul campo. In effetti, gli accordi di Minsk I, si sono resi necessari in seguito a una pesante battuta d’arresto dell’esercito ucraino con la violenta battaglia per la strategica città di Ilovaisk, dove reparti paramilitari e dell’esercito, in seguito a un’iniziale offensiva, dovettero ritirarsi dopo essere stati accerchiati e decimati dai ribelli. Stesso scenario, ma su scala maggiore, si verificò nei mesi successivi agli accordi di Minsk I, quando tra gennaio e febbraio 2015, oltre ai prolungati scontri per il controllo dell’aeroporto di Donets’k, che si risolsero con la sua conquista da parte delle forze ribelli, si verificò la battaglia chiave di Debaltseve. Questo scontro, che ebbe nuovamente l’effetto di accelerare la ripresa dei negoziati, si concluse con un nuovo assedio da parte delle forze separatiste che causò cospicue perdite tra i reparti ucraini, che furono in seguito costretti a ritirarsi dalla città il 18 febbraio, quattro giorni dopo la firma degli accordi di Minsk II. Questi ultimi, che hanno di fatto rafforzato le misure già approntate negli accordi del settembre 2014, hanno esercitato una maggiore pressione sulle parti per un cessate il fuoco immediato e per il ritiro degli armamenti pesanti dalla linea di demarcazione. L’impegno diplomatico sotto la supervisione dell’Osce, con la presenza della cancelliera tedesca Merkel, del presidente francese Hollande, insieme al presidente russo Putin, a quello ucraino Porošenko, e ai leader separatisti, ha certamente influito sull’implementazione di un cessate il fuoco più duraturo. Nel settembre 2015, l’azione diplomatica del Gruppo di Contatto (Mosca, Osce, Kiev e leader separatisti) ha ottenuto il ritiro effettivo degli armamenti dal fronte e la creazione di una zona di sicurezza demilitarizzata. A causa della tregua e del sorgere di altre crisi internazionali, la copertura mediatica e l’interesse generale sul conflitto sono scemati. Ad oggi, la situazione nel Donbass a livello politico-militare è in una fase di stallo, e l’area rischia di divenire un ennesimo ‘conflitto congelato’ post-sovietico (analogamente ai casi della Transnistria, Ossezia del Sud e Abkhazia), utilizzabile da Mosca come leva di influenza politica sugli equilibri regionali e su quelli interni all’Ucraina. Tuttavia il Cremlino, sia per ragioni di natura economica che per le conquiste dell’esercito ucraino di varie zone nell’area, sembra per ora aver rinunciato alla creazione della cosiddetta Novorossya, che avrebbe dovuto creare una continuità territoriale nelle aree ucraine russofone da Donets’k fino alla Transnistria. Il rinvio al 2016 del pacchetto di riforme politiche per l’Ucraina (tra cui la questione chiave delle elezioni nei territori indipendentisti), deciso nel novembre 2015 dal ‘Formato Normandia’, composto dai ministri degli esteri di Russia, Francia, Germania e Ucraina, indica che nonostante la riduzione della tensione militare, una soluzione politica del conflitto che affronti le cruciali questioni di un assetto federale del paese e dello status speciale per le regioni pro-russe, è per ora ancora lontana.