Lirici del Settecento - Introduzione
Due poeti che il lettore cercherà invano in questo volume vanno considerati quasi i poli della nostra raccolta: Metastasio e Parini. Ne son rimasti esclusi perché all'opera loro di necessità altri volumi sono stati dedicati, così come in altri volumi ancora sono pagine prosastiche e poetiche che il lettore dovrà avere presenti insieme con queste di lirici o sedicenti tali, che mal sapremmo disgiungere, se pur non sono le medesime persone, da autori di melodrammi e opere buffe e poemi didascalici e componimenti giocosi e lettere o saggi critici e descrittivi. Ma il Metastasio e il Parini prima di ogni altro poeta e prosatore del secolo si debbono qui ricordare, poiché ad essi per qualche modo ci rinviano tutti, o quasi, gli autori di questi componimenti. Essi segnano il cammino non diciamo della poesia ma del gusto settecentesco, un cammino non soltanto, per dirla col De Sanctis, dalla vecchia alla nuova letteratura, ma più precisamente da una letteratura che dai classici trae lo spunto per ridurne temi e «situazioni» in forma agevole, piana, cantabile e in fondo povera a una letteratura che nutrita dei classici tenta di evadere dalla musica, mira ad un linguaggio più difficile e complesso, capace a dar forma ad una realtà più varia, meno per se stessa «poetica», com'era quella delle ariette e dei sospiri amorosi. Non che si possa tracciare una linea continua segnante un trapasso regolare dall'una all'altra poetica, per usare un termine di cui oggi si abusa, o per più poetiche dai confini ben delimitati. L'insegnamento del Metastasio, e col Metastasio si intende qui genericamente una poesia limpida e chiara, razionalistica insieme e musicale, perdura per tutto il secolo, non è estraneo allo stesso Parini, offre un sostegno alle immaginette del Savioli, si presenta nella sua forma estrema e più raffinata in un poeta che sopravvive al secolo, il Vittorelli. D'altra parte il classicismo pariniano ha i suoi precedenti sin nella prima Arcadia, non s'intende senza quella preparazione remota (né si vuol negare per questo l'apporto fondamentale della nuova coscienza civile e umana alla poesia del Giorno e delle Odi): basti far menzione delle Rime di Ripano Eupilino, che così scopertamente ci mostrano il lavoro del Parini principiante, inteso a rifarsi, secondo gli insegnamenti arcadici ma con una sua personale scelta, a temi, motivi, forme della nostra tradizione letteraria; basti ricordare quel Femia martelliano, al quale solo egli riconosceva di dover qualcosa per la sapiente versificazione del Giorno e che presuppone la varia cultura e i dibattiti letterari della prima Arcadia.
Al principio dunque, diremmo, era l'Arcadia: vale a dire la versione italiana del tardo classicismo che nell'Europa settecentesca continua raffinandole, razionalizzandole, stilizzandole le tradizioni d'arte del Rinascimento (ricordiamo che per il Voltaire uno dei capolavori assoluti di poesia per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i paesi era il Pastor fido) e che in Italia assumeva un particolare significato e carattere per la reazione al gusto secentistico, suo idolo polemico e insieme suo precedente necessario. Che non era poi dimenticato né del tutto superato, se coloro stessi che si facevano promotori della restaurazione del «buon gusto» non erano insensibili alle attrattive dello spiritoso, dell'ingegnoso, sia pure moderato, e sopra tutto della «musica» marinesca, quella «dolcezza di un verseggiare sempre colante e ritondo», di cui parla con ammirazione Pier Iacopo Martello, che seduceva anche il Muratori e che il Metastasio soleva ricantare dentro di sé per disporre l'animo e l'orecchio alla composizione: e il Martello ancora sembra delineare la fisionomia se non di tutta di una parte cospicua della poesia settecentesca quando nel Commentario al suo Canzoniere vagheggia un'arte che concilii quella musica con la ragionevolezza, «l'antico e il moderno», «facendone quel misto che in genere di pittura ha fatto», scriveva, «la scuola bolognese», l'amore della novità ingegnosa (al sonetto in particolare egli richiedeva «novità» nella chiusa) e la misura propria dei classici, sì che l'espressione umanisticamente lavorata si atteggiasse, per usar sempre le sue parole, con «dintorni (ossia contorni) più del dovere risoluti», come ci si presenterà in componimenti del tempo che insistono su note di grandezza o si compiacciono di note di grazia, quelle che sono parse più propriamente tipiche dell'Arcadia.
Non per questo diremo che la reazione arcadica fosse soltanto un simulacro di reazione, una commedia degli equivoci, per la quale si sostituiva una maniera ad un'altra fondamentalmente non diversa: se pur non possiamo far nostri i giudizi dei primi arcadi, che reciprocamente si congratulavano del restaurato buon gusto, e nella poesia come nella critica del tempo ravvisiamo facilmente i limiti del classicismo arcadico, a cui troppa della più grande poesia fatalmente sfuggiva, dobbiamo riconoscere la serietà di quel movimento, di quel proposito di ritrovare con la guida dei classici la via della verità. Lo riconosceva nel maturo e illuminato Settecento il Parini, rendendo omaggio, e non era per lui soltanto un omaggio d'obbligo, all'Accademia dell'Arcadia, che accomunava nell'elogio, accostamento significativo, all'Accademia del Cimento, poiché l'una e l'altra a suo credere «l'una invitando gl'ingegni alle fìsiche osservazioni», «e l'altra all'elegante semplicità richiamandoli degli antichi esemplari greci, latini e italiani avevano fatto sì che l'Italia si riebbe dalla sua vertigine, tornò a gustare il vero e ad esprimerlo coi suoi propri colori», e indicava così al di là delle polemiche non tanto questa o quella maniera, questa o quella scuola, quanto una generale tendenza che non si esaurisce nell'Arcadia romana o con l'opera in genere dei «riformatori» delle lettere, ma annunciata nel programma della prima Arcadia si viene sviluppando per tutto il secolo. Che poi all'Arcadia, voglio dire all'accademia di tal nome, non si debba attribuire il merito che secondo una concezione prammatica della storia ancora il Parini le attribuiva, è per noi cosa ovvia, poiché essa stessa non è se non una delle manifestazioni di un più vasto moto di spiriti, il nome o il simbolo o la bandiera di un programma letterario che non si esaurisce ovviamente nell'accademia romana o nelle persone dei suoi fondatori, dei suoi Custodi o dei suoi adepti, traduzione com'è sul piano del costume e del vivere sociale di esigenze che fatalmente nell'accademia non potevano essere soddisfatte o soddisfatte molto approssimativamente o incompiutamente.
Certo, per quanto serio, il movimento letterario che prende nome dall'Arcadia e che del resto non può essere rettamente giudicato ove si consideri isolatamente la produzione poetica e più ancora quella dei lirici, rappresentata in questo volume, prescindendo dalla critica, dalla teoria della poesia, dall'erudizione, ispirate da un medesimo intento o da intenti affini, non può esser stimato una rivoluzione poetica, né propriamente una nuova civiltà poetica s'instaura con l'Arcadia, come s'instaurerà invece nell'Europa dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento per un ben più profondo e radicale rivolgimento degli spiriti. Non una nuova poesia ma piuttosto una nuova letteratura o un nuovo gusto si viene formando col secolo, e ad esso s'informano o tentano informarsi i componimenti dei più rinomati come dei più modesti verseggiatori: l'immagine che prima ci si presenta dell'Italia arcadica non è certo quella di una civiltà poetica, bensì di una scuola nella quale con impegno si attenda da parte dei discepoli al compito a ciascuno assegnato (i petrarchisti, i «pindarici», i berneschi ...) e a cui docilmente si sottomettono i molti rimatori che senza far professione di poeti ritengono, come allora si riteneva, l'esercizio del poetare una prova di cultura, di una cultura a cui apparteneva pure la perizia letteraria, un gradevole trattenimento, un ornamento d'obbligo nelle varie solennità pubbliche e private. «E vers e vers e poeù anmò vers e vers: / sti vers razzen pussee de la gramegna, / par ogni cossa e da par tutt en regna, / tucc voeuren fann par drizz o par traversa: così il Balestrieri, riecheggiando un motivo che a mezzo il secolo si va facendo più insistente sino a diventare un luogo comune, il fastidio per i troppi versi, l'invito ad occupazioni più proficue che non il sempiterno verseggiare - vero è che coloro stessi che così polemizzavano contro le raccolte, le poesie d'occasione, l'imperversante diluvio poetico non tralasciavano poi di prestare la loro penna a siffatto esercizio, e il Balestrieri stesso, come può constatare il lettore di questo volume, non sapeva por fine tanto presto, una volta iniziata, a qualcuna delle sue cicalate accademiche, e tanto scrisse da pubblicare una «scelta» in ben sei volumi di Rime toscane e milanesi, e da lasciarne parecchie altre che furono pubblicate postume.
Si legge nelle Lettere inglesi una pagina gustosa sulla avvilita arte del poeta, ridotto a uomo di mestiere, chiamato a lavorare non diversamente da altri artefici e artigiani per sponsali e altre feste. «Mi pareva la poesia, massimamente a Venezia, un curioso mestiere, una nuova manifattura, un lanifizio. Mi son trovato agli sposalizi più d'una volta, ne ho veduti i preparativi e le feste più solenni. I poeti vi lavoravano al pari de' falegnami, de' pittori, degli stuccatori e de' macchinisti...». Non si può negare la fondatezza della polemica del Bettinelli, né quanto vi era di vero nel quadro da lui sia pure satiricamente tracciato: ma dalla sua pagina stessa si può desumere un diverso giudizio, non diciamo su quella rimeria, su quella estrema degradazione della poesia come mestiere, bensì sulla poesia-mestiere o vogliam dire arte, sulla funzione che cotesta poesia serbava nella vita settecentesca e che non dismise a dire il vero anche dopo le polemiche dei Bettinelli, dei Baretti, degli scrittori del «Caffè». Quelle polemiche avevano una ragion d'essere e rappresentano un momento di crisi nella coscienza letteraria e civile, annunciando nuove esigenze e nuovi sviluppi e nella letteratura e nella critica: e di tante rime e di tanti rimatori (oltreché dei versiscioltai) possiamo oggi sorridere - altre forme di retorica e di divertimento hanno sostituito in una società diversamente composta quegli esercizi poetici e ci riesce difficile intendere il loro quale si fosse valore, - ma dobbiamo pur comprendere storicamente quel che in effetto la poesia allora fosse, la poesia dei dilettanti e quella di coloro che più o meno a buon diritto si sogliono ascrivere tra i poeti, non tanto un'espressione della vita, quanto un ornamento della vita, un mezzo per adornare con parole e modi ripresi e variati di una tradizione letteraria le circostanze diverse del vivere, poesia di società o di occasione, quale ne fosse l'argomento, poesia gioco o poesia di parata, o se anche di argomento più intimo atteggiata come composto e ordinato discorso, per un pubblico chiamato ad ascoltarlo e atto ad apprezzarlo. Poesia-mestiere? Può essere: ma anche in questa sua forma più umile o più vile e nei suoi innegabili eccessi si ravvisa l'originaria e non spregevole concezione della poesia come arte o perizia tecnica, del poeta non come individuo romanticamente ispirato ma quale colto artefice della parola, e come tale ricercato non diversamente dagli artefici delle altre arti. Occorre ricordare ancora il riconoscimento unanime non dell'Italia ma dell'Europa che una tale figura di poeta ebbe nella persona del Metastasio, poeta cesareo, compositore di drammi per musica, di feste teatrali, di cantate, di canzonette? O ricordare pure un'altra volta insieme col suo il nome del Parini, che alla facile condiscendenza per non dire faciloneria di troppi facitori di versi oppone la severità del magistero artistico, la rarità della poesia («Parco di versi tessitor ben fia / che me l'Italia chiami...»), che orazianamente rivolge i suoi versi a una cerchia eletta e ristretta di ascoltanti e pure per tanta parte è legato al costume del suo secolo, e se non tutte buona parte delle Odi compone per letture accademiche o per altra occasione, anche se nella poesia di società o di occasione, nella poesia gnomica o galante imprime il segno della sua personalità? S'intende che tra questi poeti erano artefici peritissimi e anche squisiti e talora non privi di un loro affiato di poesia: vi erano artigiani più o meno valenti e coscienziosi, né confonderemo gli uni con gli altri, un Parini con un Frugoni, un Frugoni con uno qualsiasi fra i molti mestieranti. Ma questo era il carattere prevalente della poesia e dei poeti del secolo, per cui così di rado ci è dato ritrovare nella sua assolutezza la parola liricamente intonata, e siam portati piuttosto a considerare il vario lavoro degli autori di questi componimenti. È stato detto a proposito della favola, una delle predilette forme letterarie del secolo decimottavo, che essa «corrisponde ad uno di quegli aspetti delle arti figurative che vanno sotto il nome generico di arti minori» (Sansone): ma non le favole soltanto, bensì la maggior parte dei componimenti raccolti in questo volume appartengono alle arti minori o decorative, poesie per musica o poesie celebrative, poesie-conversazione e poesie galanti, traduzioni o parafrasi di autori antichi o moderni, prove di perizia letteraria o frutto di un edonistico compiacimento di temi, di parole, di suoni. Perciò non in questi versi, anche se graziosi, decorosi, garbati, finemente costruiti cercheremo la più intensa e autentica poesia del secolo: come fu detto per tutta l'Europa settecentesca, l'Italia ebbe allora non nei versi, bensì nella musica e nella pittura i suoi più veri capolavori di poesia.
Di qui, fatte le debite eccezioni, l'interesse precipuo di questa nostra e di altre consimili raccolte, un interesse, come si è accennato, offerto dal lavoro dello scrittore, dal suo linguaggio, dai metri che egli ha accolto o variamente foggiato: di qui il carattere della critica di questa poesia, che sulle orme del Carducci è stata portata a considerarla sotto l'aspetto tecnico, a rilevarne, ad esempio, con particolare insistenza, le forme metriche. Di fatto noi abbiamo qui prima che delle forti e ben individuate personalità, un capitolo della storia del nostro linguaggio poetico, un capitolo che non può essere trascurato o ignorato da chi studii la maggiore o minore poesia dell'Ottocento. Forse taluno oggi si rivolge per simpatia ideologica e gusto decadentistico piuttosto che ai poeti settecenteschi, arcadi o neoclassici, alla poesia del Seicento ritrovando in essa una consonanza col proprio sentire e non so quale precorrimento della più moderna poesia: ma non le rime dei secentisti e i loro ingegnosi ardimenti e la loro monotona sonorità ebbero presenti i poeti dell'Ottocento, bensì (l'osservazione è del resto lapalissiana) questi rimatori a loro più vicini nel tempo, che avevano studiato nella scuola insieme coi classici e che avevano loro offerto il primo avvio al poetare con un patrimonio di voci, immagini, metri. Si sono più volte «scoperte» le derivazioni arcadiche del Leopardi: sono palesi i nessi fra il Manzoni poeta e i lirici settecenteschi (non soltanto per il verso «soli per selve inospite» che è di Agostino Paradisi o per la quartina del Mazza riecheggiata nell'«ineffabil riso» e in «alle donzelle in viso», né per quella cabaletta metastasiana, in cui si flette il severo arco della strofe corale della Pentecoste: «Cui fu donato in copia, / doni con volto amico, / con quel tacer pudico, / che accetto il don ti fa»); ed è nota la consapevole ripresa da parte del Carducci, che questa poesia a lungo e amorosamente come critico aveva studiato, di suoi schemi, movenze, rime nell'opera propria di poeta; e costante è nell'Ottocento minore e romantico, delle romanze, delle ballate, dei libretti d'opera la presenza o l'insegnamento dei lirici del secolo precedente, sì che verrebbe talvolta detto che come vi è un filone barocco nell'Arcadia, vi è pure un'Arcadia romantica e risorgimentale.
Ma a parte questi echi o sviluppi, è indubbio che lo studio della lirica settecentesca deve prima di tutto tener conto di quel che possiamo chiamare umanesimo arcadico, di quel proposito di rifarsi a tradizioni letterarie colpevolmente, pareva, trascurate, del gusto per gli antichi modi per mezzo dei quali si tentava di liberarsi dalla prepotenza della letteratura secentesca, così varia in apparenza e in sostanza così povera, e dire con parole letterariamente consacrate qualcosa di nuovo e insieme di vero. Un umanesimo, se vogliamo, tardivo e riflesso, consonante del resto alla generale tendenza della contemporanea letteratura di tutta l'Europa che al mondo dei classici guardava come perfetto e definitivo e su di esso poggiava tentando di fissare in versi di antica fattura e dentro forme classicamente autorizzate qualche nuovo pensiero, qualche aspetto della vita contemporanea. La stessa finzione pastorale, sulla quale tanto e non sempre a proposito si è discorso e irriso, non è a chi ben guardi se non una delle forme che assume questa letteratura riflessa, che del resto, come è noto, soltanto in parte si presenta in veste o dentro un quadro pastorale: quel che è preminente è il culto della parola letteraria, come mezzo per elevarsi sull'immediatezza della vita, per farsi partecipe, vagheggiandola e elaborandola, di un consorzio di spiriti del passato e del presente. E qui, quali che siano poi i risultati d'arte, è il terreno comune di questi poeti e rimatori, è, lasciando da parte i peculiari motivi d'ispirazione più o meno autentici di ciascuno di essi, il motivo che è al fondo del loro verseggiare, un'aspirazione a ritrovare superando le suggestioni secentistiche un linguaggio eletto e composto, moderno, ripeteremo col Martello, e insieme antico.
Ci sarà dato considerandola per quel motivo e in un ambito esclusivamente letterario, rendere giustizia anche all'opera di un Guidi, senza disconoscere la verità di quanto su di lui ebbero a scrivere il Leopardi, il Carducci e più recentemente il Croce, che se ne libera in una pagina sdegnosa della Storia dell'età barocca. «Nudo intierissimamente d'affetto» senza dubbio, come parve al Leopardi, il Guidi non tanto a «cose» rivolge il suo interesse, quanto a «forme» o ad ombre di forme, compiacendosi di certa grandezza che non ha nulla, checché egli ne pensasse, del pindarico, e quelle forme o immagini compone in un discorso ordinato, privo di diseguaglianze, che proprio per questa equalità, per questa compostezza si impone sia pure senza commuoverci, alla nostra attenzione. Del tutto estrinseca per vero l'invenzione di cui egli menò vanto della cosidetta canzone libera o a selva, per la quale sarebbe, si è detto e si è detta una sciocchezza, il precursore e il maestro del Leopardi. Senonché il poeta dei Canti non tanto si liberò da una forma metrica da tempo divenuta una semplice veste di parata, quanto seppe trovare un ritmo e una misura all'ispirazione sua propria, e non già per suggerimento del Guidi, bensì accogliendo e facendone cosa intima e sua modi e movenze di tutta una vasta tradizione, dal madrigale cinquecentesco al recitativo del dramma per musica: il Guidi invece alla canzone libera giunge per la solita ambizione sua del grandeggiare, e questa libertà sopra tutto ostenta nella più famosa e più enfatica delle sue canzoni, La Fortuna, per la quale resta definitivo il giudizio del De Sanctis, «una freddura». Manca infatti in questa prosopopea della fortuna, che va esaltando alquanto fatuamente se stessa per tutte le potenze umane da lei sollevate e abbattute, e infine a dar prova del suo potere rovescia nembi, turbini, grandine a rovinare i campi arcadici del pastore poeta, una qualsiasi serietà: una pura figura retorica, che nulla ha della creatura angelica di cui Dante parlava con religiosa reverenza o di quella a cui il Tasso accenna in versi tutti penetrati di arcano sgomento: «Quella che, qual fumo o polve, / la gloria di qua giuso e l'oro e i regni, / come piace là sù, disperde e volve, / né diva cura i nostri umani sdegni»; e ci fa piuttosto pensare, se un'anima vogliamo attribuirle, alla boria altezzosa del suo poeta, che qui ci dà la sua più ambiziosa e infelice prova, mentre riesce quando si propone di svolgere un'orazione celebrativa a mantenere quell'ordine, quella compostezza di tono che gli riconobbero anche il giovane Leopardi e il giovane Carducci e che non ha nulla, si capisce, da fare con la poesia, ma è indizio di un gusto, di un aspetto del gusto arcadico. Di quei discorsi in versi, che non hanno altra giustificazione che quella di un qualsiasi altro discorso celebrativo in poesia o in prosa, rimane nella nostra memoria non l'insieme o l'ordito bensì singoli accenti o immagini, notevoli per concettosità o vigore, che si staccano dall'«enumerazione» di fatti o di personaggi, sulla quale secondo l'osservazione del Leopardi il discorso guidiano è condotto: sono immagini della grandezza antica che hanno se non sostanza un'aura di romana solennità, tale da illudere il «romano» e classico Gravina e dopo di lui l'umanista Parini o l'Alfieri o il Foscolo o il Carducci stesso, compreso di reverenza per il mondo romano. Sarà l'accenno agli avanzi dei monumenti romani che «sdegnosi dell'ingiurie antiche / stan minacciando le stagion nemiche» o i «rostri / di bellicose e trionfate navi» o le tumide onde del Tevere, orgogliose d'«esser reine / sovra tutte l'altere onde marine» (e per le due ultime citazioni è inevitabile il ricordo del Foscolo), o il verso «son piene di splendor le sue sventure», o sarà in altro componimento il verso ripreso nel Giorno pariniano «c'ha di barbare penne avvolto il crine». Per queste ed altre espressioni il Guidi a differenza dell'enfatico e turgido e diseguale Filicaia ha una sua parte nella storia del linguaggio poetico settecentesco: ma in un componimento solo, il suo fare concettoso, il piglio risoluto si manifesta in un discorso tutto coerente, forse perché qui l'innata superbia dell'uomo, che altrove aveva del velleitario e del fatuo, ha avuto modo di esprimersi in un soggetto appropriato. Alludo al celebre sonetto Non è costei dalla più bell'idea, un sonetto d'amore o per meglio dire una vendetta amorosa, che non sarà senza eco nell'Aspasia leopardiana: l'inizio risoluto di polemica antiplatonica ed antipetrarchesca, la riaffermata ed esaltata coscienza di se medesimo («Sol dal mio forte immaginar si crea») e l'insistente ripetizione dell'«io»: «Io la cinsi di gloria», il verso sentenzioso «Arte infelice è 'i fabbricarsi i dei» danno a questo sonetto un suo tono, un'unità di stile, ne fanno non so se un capolavoro di poesia, certo il capolavoro del Guidi, che della maniera eroica da lui perpetuamente vagheggiata ha dato qui trattando di materia amorosa il saggio più persuasivo.
Alla maniera eroica, di cui il pavese-romano Guidi si atteggiò maestro, si può ricondurre per più di un rispetto l'opera della gentildonna abruzzese romana Petronilla Paolini Massimi, in Arcadia Fidalma Partenide, che oggetto dei suoi componimenti fece un'esperienza tanto più sofferta e dolente di quella guidiana, la sua tragica vita di donna sacrificata dalle prepotenze e dagli egoismi altrui - una biografia che insieme a episodi della vita della Faustina Maratti Zappi ci lascia intravedere dietro il decoroso apparato dell'Arcadia un mondo di violenze e di soprusi principeschi e prelatizi - e che per questo, quale sia il valore d'arte dei suoi componimenti, non ci dà mai come il Guidi un senso di vuoto mal nascosto sotto frasi magniloquenti. Non la giudicheremo però, come un attardato romantico subalpino, il Thovez, quasi un miracolo di poesia nel gran deserto della letteratura italiana, un Leopardi avanti lettera a cui il peso della cultura letteraria soltanto sarebbe stato d'impaccio al dispiegarsi della sua autentica vocazione lirica. Diremmo piuttosto che l'opera di Fidalma è testimonianza di un insegnamento e di un costume letterario, che permetteva a una gentildonna non già di liberare nel canto l'animo esacerbato, bensì di comporre la storia delle sue pene in un discorso serrato, concettoso, tutto intessuto di immagini di forza, di una tensione tale da mettere in forse in qualche punto la stessa chiarezza, non elevando la propria figura a mito poetico, ma idoleggiando se stessa in una raffigurazione di stampo tassesco non senza influsso del Guidi, eroicamente atteggiata (rientrano in quella raffigurazione, oltre le canzoni autobiografiche, componimenti quali il sonetto in cui l'autobiografia è sottintesa e trascesa in una difesa della donna, delle sue capacità e dei suoi diritti Sdegna Clorinda i femminili uffici); non lirica pura dunque ma una poesia fondamentalmente letteraria, che aveva pure un'efficacia pratica, se così idoleggiandosi la rimatrice disacerbava le proprie sofferenze e riusciva sul piano della cultura almeno a rendersi superiore alle condizioni e agli uomini di cui era vittima.
Ma in pochi altri autori del tempo, anzi forse in nessuno quel che abbiam definito umanesimo arcadico si presenta in forma così pura ed evidente e con accenti così felici come in Eustachio Manfredi, il quale alieno dallo pseudo pindarismo del Guidi e dalle stanche restaurazioni di manierismi tardocinquecenteschi care all'Arcadia romana, perseguì con coerenza e finezza di gusto sulle orme del Petrarca un suo ideale d'arte, vagheggiando in quegli accenti eletti immagini e forme. Anch'egli aveva dietro di sé un'educazione barocca, e del barocco ancora ha quel sonetto famoso per la nascita dell'erede del trono sabaudo (francamente brutto) con quell'ultimo verso rimasto ridicolmente proverbiale «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato!»; e di un barocchismo sorvegliato e raffrenato e volto a madrigale è il sonetto II primo albor, abile riduzione di un componimento di un secentista francese; così come altri sonetti in cui la punta secentistica è risolta e dissimulata in un complesso giro di frase. Né l'amore per il Petrarca gli fa dimenticare l'insegnamento del Casa, che si avverte non ostentato in più di un sonetto per l'ampio giro della frase, per le sapienti inarcature, per il senso del grave e del solenne (si rileggano i sonetti per un gonfaloniere di Bologna o per uno storico di Pistoia): certo in queste e in altre prove di alta retorica l'arguzia secentistica è vinta e superata dal senso del decoro e l'immagine finale non è mai arguta e ingegnosa, bensì vigorosa ed icastica, degna conclusione di tutto il componimento, che non vuole sorprendere ma lasciare nell'animo un'impressione di pensosità, sia che ci ponga innanzi il re di Sardegna vinto e prigioniero dei bolognesi o la sconfitta e la morte di Catilina. Ma il cuore del Manfredi è col Petrarca, e tanto del Petrarca egli si è compenetrato che gli affetti più intimamente suoi egli non può esprimere se non con voci, immagini, modi petrarcheschi. Poiché quella coerente ricerca letteraria viene in lui a risolversi in poesia vera per una felice coincidenza del suo sentire con la sua letteratura, sicché non sapremmo separare i componimenti suoi più poeticamente originali dal resto dell'opera, anche se egli non attinge in quegli altri componimenti la vetta della poesia. Fu celebrata in tutto il Settecento come capolavoro e posta accanto alle migliori canzoni del Petrarca la canzone sua per la monacazione della donna amata, e oggi, dopo che per prevenzioni romantiche e antiarcadiche la sua fama si era attenuata, si è ripreso a leggerla con animo forse diverso ma con l'ammirazione di un giorno per effetto in special modo del saggio del Croce. Il quale a rilevarne l'originalità poetica ha trascurato o lasciato in ombra il precedente lavoro letterario che essa presuppone e risolve in sé e il particolare carattere del linguaggio di cui il discorso tutto s'intesse: certo differente è la «situazione» del componimento del Manfredi e delle canzoni degli occhi petrarchesche e in genere delle canzoni e dei sonetti del poeta di Laura, che il Manfredi ha qui presenti; ma a dire della donna amata, una donna eletta, non fatta per questa terra, la cui monacazione il poeta sente come un dipartirsi dal mondo terreno per ritornare al cielo, a dire il sentimento suo per lei fatto di reverenza, di trepida ammirazione, di indefinita commozione, egli si è valso (e come altrimenti si sarebbe espresso?) di miti, immagini, rime petrarchesche, senza per questo abbassare l'opera sua a un lavoro di pura imitazione, anche se non un verso, non una parola vi è nella canzone che non ci richiami al Petrarca.
L'aristocrazia del sentire voleva quel linguaggio particolarmente eletto: il dramma che qui e in pochi altri componimenti si pone in atto voleva quello sfondo, quella risonanza di un'illustre poesia. Che quanto si dice per la canzone Donna, negli occhi vostri si deve ripetere per altri componimenti che intorno ad essa si raccolgono, scritti per la Vandi o per altre donne (felicemente ha notato il Binni come il tema convenzionale se altri mai della monacazione ispira al Manfredi gli accenti più originali e delicati) o per qualche passo almeno della canzone in morte del Filicaia. Bello fra tutti il sonetto Vergini, che pensose a lenti passi, che si rifa anch'esso a un sonetto petrarchesco Liete e pensose accompagnate e sole, non senza reminiscenze dantesche e stilnovistiche, nel quale si fa sentire con tono sommesso e misurato il rimpianto per la donna scomparsa dal mondo, fissato in quell'immagine ultima, solitaria e per questo tanto più suggestiva, della bellezza di lei ormai perduta per occhi terreni «e il bel crin d'oro se ne porta il vento» - una chiusa così aliena dalla novità ingegnosa del barocco ed anche del rococò caro al Martello, e che sintetizza per noi il gusto del Manfredi. La cui poesia è chiusa nei limiti di una ben determinata ispirazione e di un tempo assai breve, quasi in un momento solo della sua vita lo scienziato bolognese trovasse il motivo a lui congeniale: ed anche in ciò e nella non abbondanza dell'opera sua tutta in un'età di sovrabbondante rimeria è un segno della sua aristocratica coscienza di letterato. Così le sue rime, e in special modo la canzone per la Vandi, composta da lui a venticinque anni nel 1700, poterono assumere quasi un valore simbolico della risorta poesia ed essere come tali celebrate ancora nel tardo Settecento da Ippolito Pindemonte nel noto passo dell' Elogio dello Spolverini:«La famosa canzone che nell'aprirsi del nuovo secolo il Manfredi pubblicò per la Vandi fu quasi un raggio di pura luce tra l'ombre non ancor dileguate affatto di quella barbarie d'artifizio che della stessa barbarie di natura è più difficile a vincersi». Tale pure apparve, vorremmo aggiungere, perché essa rimane solitaria, né il petrarchismo dopo il Manfredi trovò altro poeta a cui quel linguaggio fosse così congeniale e non fu più se non una maniera di una scuola alquanto ristretta di letterati, che polemicamente, direi, la coltivarono a rivendicare contro le grazie e l'ingegnosità dei moderni la purezza dello stile antico, sicché quei componimenti meno che mediocri non sono per noi se non un episodio di quel ritorno ai classici, ad una poesia della quale il virtuosismo dell'età barocca aveva fatto perdere il gusto, e non sono certo per questo più importanti delle pagine di critica di un Muratori, di Biagio Schiavo, del Bettinelli, che pur tra contrasti e incertezze valsero a far comprendere meglio che in un passato vicino la poesia del Petrarca.
Non fu essa, tranne che per il Manfredi, per i letterati settecenteschi se non uno degli elementi onde si compose il loro linguaggio poetico, tanto più affabile e cantabile, mondano e discorsevole della intima e assorta meditazione del Petrarca. Si veda lo Zappi: il quale tanto in maggior grado del Manfredi è legato alla primitiva educazione secentistica persistente nella sua opera anche più tarda, di quello Zappi, autore del sonetto per la visita della vedova del Sobieski a Roma, esempio di un gioco secentistico o diciam pure di una secentistica scemenza, in cui si immagina un Sobieski incerto fra l'invito a Roma, ove dovrebbe essere coronato d'alloro per la vittoria sui Turchi e l'altro invito del cielo a ricevere il premio eterno della sua nobile impresa, e che brillantemente risolve il proprio imbarazzo, come è detto nella terzina finale, secentisticamente solenne e insulsa ad un tempo:
L'eroe che non potea partirsi in dui
e autore pure di notissimi saggi di poesia storica o celebrativa, come i sonetti su Lucrezia, su Giuditta, sull'autoritratto di Raffaello, sul Mosè michelangiolesco, il quale ultimo non per la punta finale soltanto ma in ogni particolare è improntato a una velleità tutta secentesca del grandioso che mal nasconde una sostanziale freddezza e indifferenza verso il soggetto (tutt'altra cosa il sonetto dell'Alfieri per il quale e Mosè e Michelangelo sono eroi della sua stessa tempra), e converte il personaggio biblico in un personaggio da teatro, che scenograficamente a tacer d'altro sospende con un gesto le sonanti e vaste acque per lasciarle ricadere sulle schiere egiziane. Un gusto della punta e dell'effetto che si potrà rinvenire anche nello Zappi più tenue e più autentico, ma che pure sa superare la primitiva educazione in qualche componimento fondato, per parlare col linguaggio del tempo, non sul falso o sul fittizio ma sul vero.
Penso al sonetto della partenza, che riprende fin dall'emistichio iniziale un'espressione petrarchesca, e il Petrarca ancora riecheggia nel quarto e nell'undecimo verso, e a un tempo si rifà all'elegia di Ovidio sulla partenza da Roma, quasi volesse tradurre la situazione ovidiana in un sonetto per stampo e per locuzioni petrarchesco. Ma se il sonetto per una felice fusione di reminiscenze del poeta latino e dell'italiano si presenta come una riuscita composizione letteraria diversa dagli esercizi virtuosistici dei secentisti, che partendo da un'immagine di un poeta del passato miravano ad un «perfezionamento» ingegnoso, è insieme un'espressione schietta del migliore Zappi, il quale non rifà a freddo Petrarca ed Ovidio, ma mentre imita l'uno e l'altro è dall'uno e dall'altro assai lontano. Nulla qui dell'altissimo soliloquio petrarchesco, nulla dello strazio dell'esule romano: il poeta settecentesco ha riportato i suoi autori al proprio livello spirituale, infondendo nei suoi versi un blando sentimentalismo proprio della sua poesia e del suo secolo. Perciò nel sonetto petrarchesco s'insinua come una musica di canzonetta: e i modi propri della poesia musicale possiamo coglierli nella ripetizione della seconda quartina, che vorrebbero tradurre il «quoties ... quoties» ovidiano e ci fan invece pensare a personaggi di un melodramma metastasiano, ai loro sentimentali indugi, ai loro distacchi e ai loro ritorni: «Oh quante volte «addio», dicemmo, «addio»...», «Quante volte partimmo». La stessa esagerazione di certe espressioni, la notte «trista e nera», tanto meno tragica dell'immagine tristissima dell'ultima notte romana di Ovidio, la «cieca sorte» e il «destin cieco», anziché accentuare la drammaticità della situazione la attenuano riportandoci nel clima del melodramma, che è di tutto il sonetto: un melodramma in miniatura, dal primo all'ultimo verso, che chiude non con una trovata ingegnosa ma con una nota di affetto il discorso. Siamo di fronte ad una piccola scena della vita quotidiana, che nel verso non tanto si trasfigura quanto s'ingentilisce: essa ha il suo pendant nel sonetto del ritorno, più scopertamente forse melodrammatico e cantabile, più languidamente atteggiato, nel quale pure noteremo la tipica enfasi melodrammatica («il destin rio»!) e le insistenti ripetizioni e i riecheggiamenti di verso in verso e nell'interno dei versi, oltre vere e proprie battute di una rappresentazione scenica: «Giunger già parmi, e dirle: Amata Clori; / odo il risponder dolce: o Tirsi mio ... Ella dirà .. . ed io ... Diremo ...»: anche qui nella grazia un poco, taluno dirà troppo, manierata del quadro una scena vera di quella «verità» sia pur modesta a cui l'Arcadia mirava. Si posson raccogliere intorno a questi due sonetti una decina d'altri forse (Ardo per Filli, Talora i’ parlo, Amor s'asside, In quell'età, Cento vezzosi, Il gondolier, Due ninfe) che coi modi medesimi tra il parlato e il cantato vengon svolgendo scene di quella che sarà il soggetto dominante dell'arte settecentesca, la commedia dell'amore, di cui il fondatore d'Arcadia Tirsi Leucasio ha dato un non indegno preludio, sia che con vario contrappunto giochi intorno al nome di Amore e alla figuretta della sua Filli («Amor s'asside alla mia Filli accanto») o moduli con aria già di canzonetta i suoi sospiri («Talora i' parlo a un colle, a un rivo, a un fiore / .. . ma non mi crede il colle, il fiore, il rivo») e si compiaccia del segreto che in sé tiene chiuso o di un altro segreto amore custodito nel cuore fin dall'infanzia vagheggi il ricordo e l'immagine, o scherzi con quegli amorini, oggetto della caricatura barettiana, eppure nel loro manierismo così consoni alla sua ispirazione e al gusto del tempo (quando una sontuosa edizione, del 1728-29, delle opere del Fontenelle presentava nelle testate degli elogi accademici raffiguranti le diverse scienze amorini intenti a calcoli algebrici o a lavori gravi in laboratori della chimica o su strumenti di misurazione o persino a dissezioni anatomiche!): e in quella commedia dell'amore vorremmo pure far rientrare qualcuno dei sonetti della consorte, Faustina, o uno almeno, il più famoso e certo il più bello, Donna, che tanto al mio bel Sol piacesti, che se pur tace uno dei personaggi, l'antica rivale, si svolge come una scena di teatro, coi vari moti dell'animo, le parole ed i silenzi, sino alla battuta ultima tipicamente parlata o recitata: «Parla, rispondi; ah, non risponder! taci; / taci, se mi vuoi dir ch'ei t'ama ancora». Il Petrarca è lontano: nel quadro del sonetto o talvolta evadendo in componimenti più lievi e aperti e sciolti, pastori e pastorelle d'Arcadia elaboravano un nuovo linguaggio poetico, il linguaggio del teatro, di quel teatro che è al centro degli interessi artistici del secolo.
Un personaggio di quella commedia ha creato con un suo fare disinvolto e sorridente, con un linguaggio ancor più fluido e sciolto, alieno da modi petrarcheschi, Pier Iacopo Martello, nei versi che scrisse in nome di Teresa Zani: un caratterino che ben potrebbe venir fuori da un intermezzo musicale o da una commedia, coi suoi atti e parole di vanità, di dispetto, di bizze e di gelosie, di vagheggiati non platonici sogni d'amore, con una punta sua di saccenteria che pone in rilievo la non eccelsa levatura o cultura, ma non senza la solita nota di grazia. Son qui forse, in questo episodio della carriera letteraria del mobile, irrequieto Martello, i versi più felici della sua lirica, a cui dovremo accostare passi delle sue opere drammatiche, giocose o miranti al tragico: più convenzionali invece gli altri suoi versi, anche se essi per noi valgono come saggio del gusto da lui teorizzato nel Commentario, di un barocco piegato ormai nelle linee del rococò. Tra questi sono i componimenti in morte del figlioletto, che son sembrati a lettori d'oggi singolarmente nuovi e moderni, mentre altri a ragione vi ha riconosciuto un abito spirituale prima ancora che artistico, conforme ad una tenerezza e pietà che ebbero in certe zone di quel tempo tante altre manifestazioni nel culto, nel costume, nelle arti figurative. Certo leggendoli avvertiamo per quei vezzi e leziosaggini un senso di disagio, che può essere effetto di una diversa e più severa concezione e della vita e della morte (penso a quella scena del fanciullo circondato in Paradiso da uno sciame di cuginetti e cuginette): quel che rimane è una familiarità di linguaggio che ci ferma con qualche suo accento senza mai informare un componimento intero: «Odo una voce tenera d'argento...»; «Questa è la porta, ov'io sovente entrando / venir vidimi incontro il tuo bel viso ...». Anche per questi accenti, nonostante le cadute nella maniera, l'Arcadia acquisiva qualcosa di quella verità modesta e quotidiana, a cui tendeva, quando tralasciava le sue maggiori ambizioni di restaurazione del più alto stile dei classici.
Anche il Crudeli non ha dimenticato, né lo nasconde, la poesia del Seicento e in particolare quella del Marino: ma se per i suoi temi, per la sensualità dominante dell'ispirazione a quella poesia ci riconduce, il suo, se secentismo è, è un secentismo se così possiamo dirlo senza punte, filtrato attraverso una limpida mente toscana, di uno spirito educato in un ambiente alieno sempre dall'enfasi e dagli artifici secentistici e già avviato prima dell'Arcadia ad una sua misura espressiva, e percorso in questa età preilluministica da fermenti di libertà intellettuale, la Toscana degli ultimi discepoli di Galileo e dei primi adepti della nuova cultura d'oltralpe, dove, a tacer d'altro, Alessandro Marchetti aveva atteso alla traduzione del poema di Lucrezio. È questa una poesia che si è formata al di fuori delle scuole o chiesuole arcadiche, aperta più ancora di quella di altri contemporanei a influssi stranieri, poiché mentre non sdegna di gareggiare col Marino descrivendo le bellezze e gli atti di una nuotatrice o il lavoro di una ricamatrice o i voli vocali di un virtuoso della musica, si adegua pure volentieri ai modi della poesia straniera rifacendo liberamente il La Fontaine o riecheggiando Dryden o Pope. A definirne il carattere, il valore ed i limiti va pur ricordato che in un'età così presuntuosamente letterata il Crudeli sdegnò di mandar a stampa i suoi versi e «amante della quiete e negligendo ogni ostentazione del suo talento», come dice il prefatore delle sue poesie pubblicate postume, «non era uso di scrivere giammai le sue composizioni che tutte esattamente riteneva a memoria»; una poesia dunque diremmo composta dal poeta anzitutto per diletto suo e dei suoi amici, che liberamente passa dalla virtuosità descrittiva allo scherzo, dall'immaginazione mitologica alla rappresentazione della moderna galanteria e nella sua libertà è pur sempre fedele alle esigenze dell'arte. Diremmo che il polimetro (che nulla ha in comune, checché sia stato detto, con la canzone a selva del Guidi) sia l'espressione adeguata del suo spirito poetico, di quel bisogno suo di abbandonarsi all'estro del momento inseguendo la mobile immaginazione, né vorremmo col Croce (giusto estimatore delle doti poetiche del Crudeli) troppo insistere sulla frammentarietà della sua poesia: ci piace senza dubbio nell'Ode per il Farinello il passo su Orfeo e la nave degli argonauti, di cui si ricordò il Monti e che il Carducci in Primavera e fiore della lirica italiana presenta come cosa a sé stante, ma la novità e la freschezza di quelle immagini inseparabili dalla varietà metrica del polimetro, da quegli sdruccioli e da quei tronchi non ci possono nascondere la grazia di tutto il resto, quel giocoso abbandono al fascino della musica, quelle maliziose figurazioni degli ascoltanti, quel vagabondare del poeta dall'uno all'altro motivo sino alla chiusa graziosamente e teatralmente decorativa con l'amorino volante per il teatro e che viene a librarsi sorridente sostenendo sul capo del cantante la corona intrecciata di mirto e d'alloro. Animo poetico piuttosto che poeta originale e intenso, che tende a fissare in accenti definitivi la propria ispirazione, il Crudeli vien così toccando temi, motivi, immagini che si ritroveranno in più d'una delle poesie del secolo, spesso con una freschezza che mancherà in non poche di esse (soltanto nelle canzonette che vogliono essere più esplicitamente musicali gli farà difetto la musicalità non solo dei maggiori poeti per musica suoi contemporanei ma anche quella per cui si fa notare qualche minore): per questo sembra che egli abbia bisogno dell'appoggio di altro autore, né senza ragione tra le opere sue e come cosa sua sono annoverate e ammirate composizioni che sono traduzioni o rifacimenti del La Fontaine, l'egloga Tirsi e Amaranta e le quattro favole. Forse vi si cercherà l'indefinibile mistura di malizia e naiveté propria del poeta francese: «Du palais d'un jeune lapin / dame belette un beau matin / s'empara: c'est une rusée. / Le maitre étant absent, ce lui fut chose aisée. / Elle porta chez lui ses pénates un jour / qu'il était allé faire à l'Aurore sa cour / parmi le thym et la rosée». Non vi è certo nel Crudeli «il timo e la rugiada», quei rapidi e freschi scorci di natura inseriti in un amabile discorso tra pungenti profili e massime enunciate con un sorriso ammiccante: eppure non sono le sue favole cose mancate, egli ha rifatto a modo suo il La Fontaine dal di dentro diremmo, un'opera analoga e pur diversa da quella del favolista amico di Boileau e di Racine. Non so quali altri favolisti del secolo, per cui la favola è veramente un «genere», giungano come il Crudeli con queste sue a farne cosa propria (s'intende che a sé stanno il Meli e il Calvo), a superare i limiti del genere in un libero e personale discorso poetico.
Pigro e geniale il Crudeli sta a sé, pur non trascendendone gli spiriti, nella letteratura settecentesca e se pur non fossero state conosciute postume le sue poesie non avrebbero potuto dar luogo ad una tradizione di forme e di modi. Qualunque invece sia il loro valore al lume di un assoluto criterio di poesia, il Metastasio e il Rolli, «i due corifei della canzonetta», per ripetere noi pure la ormai consacrata definizione carducciana, raccolgono in sé e determinano le linee della poesia arcadica quale si è venuta formando nell'ambito della reazione secentistica e della restaurazione classica dell'ultimo Seicento e del primo Settecento. Convergono verso quella musica, tranne eccezioni singole quale insigne quella del Manfredi, il gusto della piccola e precisa realtà psicologica e l'amore per la grande letteratura del passato, ridotta dal costume contemporaneo e dal razionalismo imperante a proporzioni precise, regolari e modeste: l'abbiamo già avvertita nelle forme tradizionali del sonetto ormai non più petrarchesco dello Zappi e di altri contemporanei, ma tutta essa si dispiega nella forma che sarà tipica del secolo, la «canzonetta». Viene in essa a delimitarsi ed affinarsi la pura sonorità del Marino e dei suoi seguaci, fissandosi e variandosi in arie ed ariette, in recitativi e canti che se non attingono l'arcana armoniosa melodia pittrice della più grande poesia e ci fan piuttosto pensare alle «musiche effeminate» che, a dire del Vico, «ammorbidivano gli orecchi dei suoi contemporanei», rappresentano un risultato concreto di quel vario lavoro che va sotto il nome dell'Arcadia. Non è da dimenticare per questo anche se e il Metastasio e il Rolli son parsi ribelli più o meno consapevoli, l'insegnamento del Gravina, il cartesiano e classicista Gravina, di cui e il Metastasio e il Rolli furono (occorre ricordarlo?) discepoli e del quale, checché se ne dica per un persistente spirito romantico, non furono immemori nell'opera loro, pur in apparenza così diversa da quella auspicata dall'autore della Ragione poetica. Fra il Marino e la melica secentesca da una parte e il teatro metastasiano e la varia melica rolliana dall'altra sta col Gravina la letteratura classica, dalla quale i due poeti han tratto situazioni, immagini e sopra tutto l'amore della frase netta e precisa, pur derivando tutto quel mondo nel ben delimitato quadro della poesia per musica o tendenzialmente musicale. Essi sono i poeti di fama europea che lavorano in un'età intimamente convinta che «tout est dit», e portata perciò a ridire il già detto o per lo meno a rifarsi a quei moduli esemplari di eroismo o di tenerezza soltanto piegandoli in forme più facili, piane e cantabili. L'esigenza della musica concorre con la mentalità razionalistica dominante a questa semplificazione, a questo compiacersi e del poeta e degli ascoltanti nella determinazione di verità antiche e di ogni tempo in forma immediatamente comprensibile e tale da fissarsi per sempre nell'orecchio e nell'animo, o di variarle in qualche nuovo piccolo vero, che attrae gradevolmente senza turbare lettori o ascoltanti come cosa del tutto inaudita o inaspettata.
È qui il limite della poesia metastasiana, delle canzonette come dei melodrammi, che tanta parte tiene, come si è accennato, nella lirica settecentesca (basti pensare ai suoi eroi e alle sue eroine, compendio o miniatura di tanta letteratura del passato, ai brevi momenti di patetica incertezza più liricamente commossi, a feste teatrali come L'asilo d'Amore, che è tutto un vario tessuto di definizioni, conforme a una poesia perennemente ondeggiante «tra il gnomico e il melico»): una poesia senza mistero e per questo una poesia dimidiata, se pur in grazia di ciò cara a più di una generazione del secolo, che nella poesia pregiava sopra ogni altra qualità, ne è testimone il Baretti, la chiarezza. Né eccettuerei, come sembra fare il Flora, al quale pure si debbono prima ancora che al Croce alcune pagine singolarmente importanti sul difetto intrinseco dell'opera metastasiana, le canzonette e in particolare la celeberrima Libertà, la «maravigliosissima cosuccia» del Baretti, sulla quale assai meglio degli elogi iperbolici della Frusta ci illumina una pagina delle Lettere a Lesbia Cidonia del Bettinelli, a proposito dello stile familiare e graziosamente sentenzioso proprio di certa poesia francese: «Metastasio non isdegnò qualche volta questo stile anche in nobile poesia, e la canzon famosa Grazie agl'inganni tuoi, che par fatta più coll'ingegno che col cuore, è tutta un gruppo d'epigrammetti frizzanti; ogni strofetta ha un pensierino una viva figura un'ironia dilicata un fine rimbrotto o satiretta o bisticcio, tutti poi ripiegati e rivolti a sorprendere con novità non men che a punger con vezzo l'incostanza l'infedeltà la leggerezza e la falsità femminile, a far insomma un ricamo di guai amorosi tra prosa e verso». È questo l'elogio di un'alta lirica o non piuttosto di cosa che sta, come tanti altri componimenti settecenteschi, «tra prosa e verso» per dirla col Bettinelli? Né si può dimenticare che della canzonetta a Nice l'autore più tardi fece una palinodia, con le stesse rime, con le stesse parole, contrapponendo pensiero a pensiero, strofa a strofa. La compose certamente come scrisse «per gioco», ma è lecito il dubbio, quando una poesia si può per così dire rovesciare così facilmente come un guanto, che in essa sia un intimo difetto di vitalità poetica. L'amore tutto metastasiano dell'«ordine», della «simmetria» giunge infatti nella canzonetta a Nice tant'oltre da far sentire pur nella felicità di accenti rimasti nella memoria di tutti alcunché di meccanico, forse più che in altri componimenti suoi: ed è qui più ancora che nelle espressioni melodrammatiche di questa canzonetta, che son state notate e che del resto son proprie di tutta questa poesia, non del Metastasio soltanto, il segno di quel che manca all'ispirazione metastasiana per attingere la pienezza della vera e libera poesia.
Discorso non molto diverso sarebbe da fare per l'altra celebre canzonetta del poeta rivale, Solitario bosco ombroso: non è in queste strofette di ottonari la descrizione così attenta e precisa di uno stato d'animo nei suoi vari aspetti o momenti che si vien profilando nel quadro di doppie quartine dei settenari metastasiani, ma l'ordine e la chiarezza sia pure non spinti sino alla simmetria e alla lucidità intellettuale del Metastasio pur qui si fanno notare nella delimitazione così accurata delle immagini e dei sentimenti nell'ambito della strofa, del distico, del verso, nella non artificiosa ed armonica contrapposizione di parole e di concetti. Anche qui tutto è chiaro e distinto e insieme affettuoso, forse più affettuoso che nel Metastasio della canzonetta a Nice. Basti rileggere i quattro versi della seconda strofa, definizione così perspicua e concisa e musicalmente sottolineata di un sentimento: «Ogni oggetto ch'altrui piace, / per me lieto più non è: / ho perduta la mia pace, / son io stesso in odio a me». Ma che è tutto il canto, dall'iniziale «solitario bosco ombroso» e il suo «orrore» sino alla lacrimosa chiusa, che rinnova in tono di melodramma una tipica «situazione» petrarchesca, se non un compendio abile e raffinato di tutta una letteratura, ridotta ad un gentile luogo comune? È questa per definizione una poesia per musica, vale a dire un componimento che il poeta ha steso valendosi della sua cultura letteraria, del patrimonio acquisito di parole e d'immagini, perché il suo discorso servisse di sostegno alle note di un musicista. Non chiediamogli perciò accenti fortemente individuati: dinanzi a noi sta un innamorato tipico, un tenore (o un soprano), vorremmo dire, e quel «solitario bosco ombroso» (che del resto è un inizio felicissimo), quel «rio», quelle piante ci fan pensare ad un fondale di teatro: né ci spiacerà per questo nemmeno quel che vi è di melodrammatico, un portato necessario di una lirica così concepita. O vogliamo, per renderci conto di quel che di fittizio e generico è nella canzonetta, porre accanto al «solitario bosco ombroso», ai suoi silenzi, al suo «orrore» al «suon del rio che frange / tra quei sassi il fresco umor» i versi petrarcheschi, celebrazione della trasfiguratrice fantasia amorosa? «Parmi d'udirla udendo i rami e l'ore / e le frondi e gli augei lagnarsi, e l'acque / mormorando fuggir per l'erba verde. / Raro un silenzio un solitario orrore / d'ombrosa selva mai tanto mi piacque». E ricordare pure il sonetto che l'Alfieri ne trasse facendo cosa tutta sua della fantasia petrarchesca e celebrando nella solitudine ritrovata la ritrovata, sempre bramata libertà ? «Tacito orror di solitaria selva ...». Si farebbe torto al Rolli gravando la sua poesia con questi pericolosi raffronti, per i quali essa viene come a dissolversi e a dileguarsi dinanzi a noi.
Ma riconosciuto il carattere e il fine della canzonetta o odicina si deve ammettere che nulla le fa difetto: quel che il Rolli voleva e che da lui si chiedeva egli l'ha raggiunto in questa e in altre canzonette e odi amorose. L'ha raggiunto non già semplicemente mettendosi alla scuola del Lemene e della melica secentesca italiana e francese, come vorrebbe il Calcaterra, per il quale il Lemene fu del Rolli l'unico e vero maestro e che scorge nella cantata L'usignuolo del lodigiano la «fonte» del Solitario bosco ombroso. La musica del Lemene e del suo usignuolo è soltanto uno scherzo: «Allora in suo linguaggio / il musico selvaggio / mi rispose così: / Sì, sì, sì, sì, sì, sì, sì... / Allora in suo linguaggio / il musico selvaggio / così mi replicò: / No, no, no, no, no, no, no, non t'amò ... / Allora in suo linguaggio / il musico selvaggio / disse quando giurai: / Mai, mai, mai, mai, mai, mai, mai noi farai»; e nulla ci permette dal verso iniziale «Nel muto orror di solitarie piante» arguire che quel gioco puramente sonoro abbia offerto lo spunto e l'avvio al canto rolliano. Tra i precedenti del Rolli vi sarà anche la poesia musicale del Seicento, ma il gioco è superato non solo da un'ispirazione diversa ma da una diversa letteratura, in cui, come si è detto, i classici tengono una parte essenziale: della varia melica secentesca, di cui il Calcaterra ci offre con qualche esempio una così lunga serie di titoli delle tante raccolte, ben poco o nulla rimane nella nostra memoria, mentre le strofette, i versi, le immagini del poeta tudertino hanno una consistenza che le fissa al di là del momentaneo diletto musicale. È qui il segno dell'educazione classica del Rolli, che si afferma oltre che nelle svariate cadenze delle odicine per musica in raffigurazioni delle canzonette e nelle rappresentazioni della società moderna degli Endecasillabi. Caratteristica anzi del Rolli è un gusto dell'immagine concreta, realistica che si stacca dall'onda musicale: così nel ciclo delle Stagioni, una fra le prime delle tante «stagioni» del secolo poetiche, musicali, pittoriche, la ricerca di colori non frusti nella Primavera o la nota immaginetta del cane che ci fa pensare al nuovo gusto pittorico della realtà familiare e quotidiana: «Or dal varcato mare / appena si riposa / la quaglia numerosa, / che accendesi di amor; / fiutando il can da lunge / la siegue, la raggiunge, / e con la zampa in aria / fa cenno al cacciator» ; il corteo bacchico di antica origine ma modernamente scorciato nel nuovo ritmo dell'Autunno, con alcune immagini che sulle altre spiccano, di Pane coi «grappoli che gli pendon dalle corna» o i «bei melon di Sezza» che «pesano ed han la rosa / intatta e spaziosa, / gettan gradito odore e han grosso stelo», o il vino di Monte Porzio, «ha un nonsocché mordace / che punge sì, ma piace, / e sparge un odor grato di viole»; e infine nell'Inverno la doppia strofetta: «Quel faggio che tant'aria / co' verdi rami ingombra / e tanto suol con l'ombra, / le frondi perde già, / l'ore soavi e rapide, / ch'ei ne coprì dal fervido / altissimo meriggio, / sol ne rammenterà», e, particolare inedito e colto sul vivo, «M'accorsi ove sta un lepre / nel cespo d'una balza / all'alito che s'alza / qual nebbia sul mattin».
Dalla musica alla pittura: e per vero il Rolli, mentre modula il suo canto a gara col Metastasio, con nell'orecchio la musica contemporanea, ci fa pensare a pitture maggiori e minori del secolo, in cui si profilano insieme a bellezze di ninfe e di dee scene e scenette di una più familiare realtà. Per questa via egli giungerà a quella che è la sua maggior prova, il risultato ultimo della sua arte, gli Endecasillabi. in cui il bel mondo londinese, i suoi costumi e le sue eleganze e sopra tutto le sue belle prendono una loro forma poetica. Non senza però che a quel risultato concorra, componente necessaria, la letteratura poiché il Rolli che aveva giovane vagheggiato la poesia degli elegiaci latini e che tenterà pure esperimenti di metrica barbara, ha qui nell'orecchio il suo Catullo e liberamente rifacendo e variamente ricomponendo gli endecasillabi catulliani, dà per questa classica presenza non solo nitore ma possibilità d'arte alle figure e figurette da lui colte nella realtà contemporanea. Dietro le belle inglesi vi è a lui non meno caro il vagheggiato e vezzeggiato metro catulliano e vi son pure modi stilistici propri del latino, che vengono ad adempiere il compito di quelle più ardite inversioni oraziane e virgiliane che nel Giorno del Parini dan prima ancora che forza e rilievo una giustificazione artistica alla rappresentazione delle eleganze settecentesche, delle cure e degli ozi del bel mondo milanese. L'amica malata e l'amica risanata (ma non si chieda al Rolli il sentimento religioso della bellezza che sarà del Foscolo), l'amica alla toilette, nel cocchio dorato, al passeggio, gli incontri, gli scherzi, i vagheggiamenti, i canti nei giardini di Kensington o nelle barche sul Tamigi: sono temi quali si ritroveranno non so quante volte nella poesia e nella pittura del secolo, che per un suo narcisismo si compiacque di vedersi specchiato nel suo vivere quotidiano e insieme raggentilito e abbellito quasi in un nitido vetro entro una cornice dorata, e che il Rolli per primo o fra i primi ha colto con un suo segno originale. E come un elegante fregio mitologico, avvolge quelle scene e scenette, figure e figurette, l'iniziale inno a Venere, in cui la solenne invocazione lucreziana si è come ammorbidita e ingentilita in un fluente discorso illuminato a tratti di vaghe immagini: «Le sagge favole sull'onde chiare / poserti 'n vaga conca cerulea / a fior del tremulo tranquillo mare». Poesia compiuta? Forse del Rolli ricordiamo di preferenza qualche particolare: ma di lui quel che c'interessa è questa varietà di modi, questa ricerca per la quale non senza diseguaglianze e cadute egli memore sempre del magistero classico, attraverso una poesia puramente musicale accenna al classicismo del Parini e del secondo Settecento.
Non sono nel Frugoni l'ambizione, l'irrequietezza, la cultura del Rolli, né in lui è dato ravvisare una ricerca d'arte che ben riconosciamo nel poeta degli Endecasillabi o risultati sia pure frammentari pari a quelli a cui la ricerca rolliana più d'una volta perviene: anche nell'arte come nella vita, il Frugoni si abbandona alle sollecitazioni del momento, si lascia, diremmo, vivere come lascia che gli vengano incontro dalla letteratura e dalla società del tempo i soggetti e le situazioni dei suoi componimenti. I suoi temi, dice il Flora, a cui sembrano «fertili spesso e nuovi» (e forse il giudizio è in questo troppo benevolo) «parve piuttosto incontrarli in se medesimo che produrli», e l'esperienza della letteratura arcadica ad altro non gli servì che a trarne rime e versi senza numero, quali gli richiedeva la società fra cui viveva e che erano per lui un mezzo di farsi partecipe di quel vivere, di avere in quella società un suo posto riconosciuto. Perciò biografia e poesia in lui si confondono: e le poesie-scherzo, le poesie più scopertamente legate alle occasioni, a persone del suo mondo, a circostanze della vita di società o di salotto, non han sostanzialmente carattere diverso da quelle che mirano ad un fine un poco più alto. Il poetare per il Frugoni non è se non un modo di vivere, di godere, scherzando o adulando o vagheggiando, dei piaceri che la vita offre e che la parola poetica o per meglio dire elaborata secondo i canoni di un consumato mestiere rende meno effimeri, dando loro parvenza di cosa più seria ed una certa dignità. Così egli si adegua del tutto alla figura, che sappiamo propria al secolo suo, del poeta di mestiere e come tale fu celebrato dai contemporanei che troppo spesso, peraltro, tratti in inganno da un così assiduo e non mai intermesso lavoro, protratto durante una lunga esistenza, lo scambiarono per un poeta vero ed anche grande, per una confusione non peculiare del resto al solo Settecento, ma che nel Settecento ebbe una giustificazione nello scarso senso per la maggiore e più vera poesia: né va dimenticato il prestigio della Parma borbonica, della Parma del Du Tillot e del Condillac, l'aurea Parma, la Crisopoli, della quale il Frugoni fu negli ultimi suoi venti anni per eccellenza «il poeta» e che della sua fama fu in certo qual modo lo sfondo o il piedestallo, anche se effimera in effetto fu quella civiltà, quello splendore di una corte illuminata. Ma se altri erroneamente stimò come veracemente poetica e ispirata una produzione che parve non rifiutare alcun suggerimento del gusto contemporaneo, accettando anche la nuova moda dei versi sciolti, anche lo stesso filosofismo giungendo sino all'esposizione in versi del sistema condillachiano, non mai su se stesso, sull'opera propria, sull'ufficio da lui esercitato si illuse il Frugoni, che così di frequente in prosa e in versi respinge, e non per falsa modestia e per un antico topos, il nome di poeta e sinceramente avversò l'idea di raccogliere in istampa i tanto numerosi e dispersi suoi componimenti poetici «degnissimi» diceva «di morir tutti con lui» - e come si sa, l'edizione dell'opera sua non si fece se non dopo la sua morte. «La poesia è difficile, ed io sono in quella misera mediocrità, che non vuoisi soffrire ne' poeti ...». Si può pensare alla dantesca sentenza del magnanimo che sempre si magnifica in suo cuore e del pusillanimo che sempre si tiene meno che non è: ma riconosciuta la fiacchezza o se vogliamo la pusillanimità del Frugoni, così facilmente pago della propria misera mediocrità, si deve pur dargli atto di una schiettezza, tanto più meritevole frammezzo alle adulazioni e celebrazioni enfatiche, di un riconoscimento dell'intrinseco valore dell'arte, a cui sapeva di dover rinunciare. «Io lung'anni alsi e sudai, / molto fei, molto soffersi, / ed ancor non imparai / la divina arte dei versi».
Questa coscienza della propria mediocrità, una non aurea mediocrità, è al fondo dei suoi versi, dei suoi versi migliori, quelli che non ce lo mostrano in atto di sollevarsi sui trampoli per declamare a voce spiegata qualcuno dei suoi sonetti storici, come il celeberrimo annibalico, che dal primo verso tutto arrotante di erre, «Ferocemente la visiera bruna» sino all'ultimo «Terror d'Ausonia e del Tarpeo, discese», sembra sollecitare prima l'attenzione e attendere poi l'applauso degli ascoltanti, o i versi sciolti, nei quali si avvolge non più frenato dalla strofe e dalla rima nelle ambagi di un frasario a dovizia posseduto, sicché quei versi suoi tanto più vacui e ingiustificati ci sembrano degli sciolti degli altri due «eccellenti autori», i quali, se pur non poeti, ben sentivano l'esigenza di evadere dall'usata poesia per un discorso più nutrito di cose e di cose nuove e interessanti. E quasi un apologo o un'epigrafe della sua vita suona quello scherzo o favola che è citato anche come sommamente significativo dal Calcaterra, paziente e amoroso studioso della poesia frugoniana e ciononostante conscio dei suoi effettivi limiti, la favola di origine oraziana e che Orazio riduce alle proporzioni dello pseudo Orazio della corte parmense: «Vi fu un pazzo, non so quando, / che somiglia un poco a me, / che sul trono esser sognando, / comandava come un re …» ; ma tutte le sue cose migliori hanno quest'aria disincantata, dell'uomo di mestiere che maestrevolmente gioca con sillabe, accenti e rime, senza illudersi sul valore del proprio gioco, senza pretendere che esso valga per più di quello che è. Non gli chiediamo freschezza di impressioni - non un particolare solo delle sue Stagioni ci sofferma per un sentimento sia pure fugace della natura; - non gli chiediamo penetrazione psicologica e definizioni precise e tali da fissarsi nella memoria di stati d'animo, e nemmeno una suadente e dilettosa musica. È questa sua una poesia galante e maliziosa, di una galanteria senza commozione, di una malizia tutta superficiale e convenzionale: un canzoniere da salotto, di cui scelta migliore è impossibile dare di quella offerta dal Carducci nel volume degli Erotici. Si raccoglie intorno alla Navigazione di Amore, la più famosa, quella che ne riassume gli spiriti e che pur nella varietà della immaginazione così scarsa eco suscita nell'animo nostro: tutto è bello, attraente, ma di tante vaghe immagini, quale rimane in noi? Come ebbe a scrivere Francesco Torti: «La sua anima più viva che tenera, più fantastica che sensibile, cerca sempre d'abbellire senza curarsi d'interessare, egli è sempre lo stesso poeta pittore, egli descrive ma non si appassiona, egli eccita la fantasia, ma lascia il cuore in riposo». Ma perché chiedere tenerezza o sensibilità al poeta salottiero, a questo che il Carducci giudicò «il più compiuto meccanico fornitore» di metri per la più moderna e meno vacua lirica, per le tante e variate sue prove di versificazione? L'«interesse», e il «sentimento» che stavano a cuore all'autore del Prospetto del Parnaso italiano, seguace del Du Bos, son qui fuor di luogo: ci basti il sorriso che accompagna lo snodarsi di quelle agili strofe, l'incontro delle rime baciate in quei piacevoli discorsi. Se nelle più celebri canzonette del Metastasio e del Rolli abbiamo avvertito l'intrinseco limite della poesia per musica, dobbiamo qui riconoscere ed accettare una ancor più limitata poesia, e cercare di rinnovare, se ci è possibile, in noi il diletto della cerchia di ascoltanti, che si raccoglievano intorno all'anziano e sempre vegeto e sempre vivace poeta da salotto.
Tanto minore del Frugoni parve, e pare agli storici della letteratura, il Casti, la cui opera di poeta lirico si chiude in un piccolo libro ed ha, dicono, al confronto di quella del grande Comante, così scarsa varietà nei temi e nei metri. Miglior giudice il Carducci, accomunando i due poeti nella prefazione agli Erotici, non nascose invece la sua preferenza per il Casti che, scriveva, «da natura sortì ingegno largo e quieto all'osservazione dei difetti umani e vena non impari», e pur riconoscendo la mediocrità della materia e il difetto attribuitogli di una «facilità acquosa», soggiungeva che «nella lirica mezzana aggiunge talvolta a certa pulitezza, che a petto al Frugoni può parer purità, e l'ottonario e il quinario, che pur tolse dal Frugoni li maneggia con tanta agevolezza e padronanza quanta non ebbe mai il genovese e di rado altri». Di fatto, se la sciatteria di alcune canzonette è innegabile, c'è nel Casti col gusto del maneggio della strofe e della rima il piacere del particolare colto sul vivo, di trasportare nel quadro divenuto ormai tradizionale della canzonetta, aspetti del vivere moderno, conversazioni e passeggiate, villeggiature e veglie, finzioni e schermaglie amorose, civetterie e vagheggiamenti. Materia tutta che è pure nel Frugoni e nel Frugoni è abbellita anche dal gioco dell'immaginazione: ma il discorso frugoniano sembra esaurirsi nella sua piacevolezza, come quello di un brillante conversatore mondano, e a lettura finita ci accorgiamo che la stessa malizia sulla incostanza amorosa o sulle conquiste di un vagheggino è tutta esterna, non fa presa, mentre arguto osservatore il Casti coglie scene e scenette con rapidità e precisione, sì da farci pensare, sia venia alla comparazione, a colui che così sdegnosamente ebbe a giudicarlo, il Parini. Vi è, se non ci inganniamo, tra lui e la materia trattata un distacco che nel Frugoni non è: come il precettore d'amabil rito del Giorno egli guarda il suo mondo galante tenendosi non dico sollevato su di un superiore piano morale, bensì con un suo sorriso, che è insieme di compiacimento e di canzonatura. Valga l'esempio della canzonetta, che in questo volume non è riportata, Perché mi dici, o Doride, che va al di là del dispetto amoroso di un innamorato ormai privo di illusioni e ridotto alla parte di chi osserva arti, malizie, umori: «Io me ne sto in un angolo / osservator tranquillo»; della sfilata dei corteggiatori della bella ingannatrice, una serie di tipi, che ancora una volta pur in proporzioni tanto minori non può non ricordarci figure e situazioni del Giorno pariniano. «Veggo, (e il perché figuromi) / Silvio apparir turbato / ed in disparte assidersi / e teco far l'irato. / Titiro vien, che assiduo / le novellette aduna, / e a te mordace e garrulo / le narra ad una ad una. / Ecco cantando giungere / e saltellando Euriso, / pien di motti e facezie / per eccitarti a riso. / In volto grave e serio / entrare Alcon si vede: / chi no 'l conosce e miralo, / uom d'alto affar lo crede. / Poi, tutto vezzi e grazie / e mode pellegrine, / Mirtillo alfin presentasi / carco di polve il crine: / se in piè si posa o movesi, / se tace parla o ride, / di lui più amabil giovine / la Senna mai non vide. / Al suo apparir si turbano / gli amanti tuoi gelosi, / e i guardi a lui rivolgono / furtivi e sospettosi; / poiché ciascun lo reputa / dal tuo favor distinto, / e freme in sé credendosi / da lui depresso e vinto». E con gli innamorati e i corteggiatori, la donna: «Ma tu, benché dissimuli, / di ciaschedun che miri / a maraviglia interpreti / i moti ed i sospiri; / ed or sdegnosa or placida / ti cangi in un momento, / come novello Proteo, / in cento forme e cento. / E in ciò può ben comprendersi / quanto sagace e destra / di amor nel dubbio ed arduo / mestier tu sei maestra. / Freni l'ardir soverchio / de' coraggiosi e franchi, / e accortamente i timidi / mesti amator rinfranchi: / con tue repulse i creduli / desir più accendi e invogli, / e, sia protervo o docile, / speme ad alcun non togli: / ma poscia, in cor ridendoti / dell'altrui duol, dei pianti, / di te superba, ai spasimi / godi de' folli amanti». Ma anche nelle altre canzonette, che trattano dei temi consueti alla poesia erotica settecentesca, quel che dà significato e sapore è sempre quello sguardo distaccato, di chi tiene un poco distante da sé l'oggetto della sua osservazione, la donna e le mode, le occupazioni e gli svaghi, i giochi di società e le passeggiate a Boboli e alle Cascine: né mai il Casti delle canzonette, che sarà pure l'autore delle licenziose Novelle, si lascia trasportare a qualche sguaiataggine di un Frugoni che, a citare un esempio solo, nell'Autunno tratteggia per così dire un quadretto di questa sorta: «Salita già ti veggio: / già intenta al bel lavoro / spogli del suo tesoro / il tralcio produttor. / Ma guarda che furtivo / un satirel giù sotto / da reo desir condotto / viene; e lo sgrida Amor» - piccolo grano di malizia alquanto insulsa che dovrebbe dar sapore alla vivanda. Siamo s'intende lontani dai risultati d'arte non dico di un Parini ma di un Rolli, poeta e pittore delle moderne eleganze, fissate in quadri di non dimenticabile nitore: ma in questa vivace rappresentazione delle belle e del loro mondo il Casti solleva non dico alla poesia ma all'arte il bel mondo fra cui gli piace di vivere, riprendendone pure più di una volta il linguaggio, del quale inserisce, e non per un passivo riecheggiamento, voci e termini nel discorso suo - ed anche per questo va ricordato il linguaggio, sia pure tanto più complesso, del Parini che non sdegna di far propri in un discorso così fortemente improntato di spiriti aulici e classici termini della moda e della scienza contemporanea. Si rilegga la descrizione dei giochi di società, si legga in special modo la canzonetta a Dori, studiosa di «filosofia», o l'altra più tarda a Filli, di cui il sottotitolo suona così nientemeno: «Contraffacendo il sistema della prima Costituzione francese, mostrandone cogli esempi l'assurdità», ma che di fatto al pari di quella a Dori null'altro vuol essere se non un gioco intessuto su discorsi e frasi e vocaboli del gergo di moda, giocando la prima con tante variazioni su quella che pedantescamente sarà detta l'Arcadia della scienza, e la seconda su discorsi sempre più insistenti intorno agli avvenimenti di Francia, tutti contesti di un gergo affatto nuovo divenuto in poco tempo di moda. Si può cogliere qui, in queste due punte estreme della lirica del Casti l'ispirazione, se così vogliam chiamarla, più autentica sua, presente a chi ben guardi pur nelle altre e presente nelle opere di maggior mole e impegno che qui non figurano, il gusto dell'attualità. Anche nelle canzonette il Casti, autore di poemi, che son poi dei libelli politici, autore di un «servizio» giornalistico come la relazione sul viaggio a Costantinopoli, autore di melodrammi fra cui spiccano il Re Teodoro in Venezia e il Teodoro in Corsica, i suoi capolavori, infusi di un gusto parodistico della più solenne tragedia e del più solenne stile melodrammatico, ma insieme, sopra tutto il secondo, così ricco di allusioni ad episodi, motivi, ideologie della politica contemporanea, è essenzialmente un poeta-giornalista, e ciò sia detto non a titolo negativo, bensì nella positiva se pur limitativa accezione del termine. Per questo gusto, per i modi vivaci e frizzanti, le figure e le figurette, le novità linguistiche, egli nella seconda metà del secolo, mentre si andava annunciando un gusto nuovo rispetto a quello della prima Arcadia, potè infondere nelle canzonette, da quelle della giovinezza fiorentina sino allo scherzo con Filli della età rivoluzionaria, qualcosa di nuovo: una novità modesta, se vogliamo, ma che non può essere trascurata da chi studii la letteratura e il costume settecentesco.
Nuove invece parvero, di una felice novità, le canzonette del Savioli, dal primo saggio, pubblicato nel 1758 alla raccolta di ventiquattro componimenti, che col titolo di Amori uscì nel 1765, e alle successive edizioni che attestano un universale favore, non venuto meno per molto tempo ancora nel secolo XIX, nonostante così profondi rivolgimenti nella politica e nella letteratura. Si distinguevano dalle tante canzonette di maggiori, minori, minimi per l'uniformità del metro, per un loro modulo tipico, per il modello o i modelli che deliberatamente ormeggiavano, gli elegiaci latini: una nuova prova d'Arcadia, che mercé l'ausilio di alcuni scelti esemplari temperava la fluenza musicale con un'ambizione figurativa, e nobilitava le vicende della moderna galanteria riportandole in un'atmosfera classica o pseudoclassica con un insistente e sistematico richiamo alla mitologia greco-latina. Canzonette come Grazie agl'inganni tuoi o Solitario bosco ombroso vivevano di per sé, delizia e incanto di chi le leggeva o ascoltava: il Savioli offriva qualcosa di diverso e a taluno potè sembrare di più, un piccolo compiuto libro, un romanzetto-diario in versi, che dilettava senza soverchiamente affaticare le tenere lettrici e a un tempo appagava il gusto più severo, o che si reputava tale, di letterati compiacentisi di vedere con tanta agevolezza ripresa l'elegia antica, non senza qualche tocco della vita presente. Ne era ancora commosso il severo calvinista Sismondi; e il Carducci giovane distingueva il Savioli fra tutti i lirici del secolo decimottavo non solo imitandolo nell'ode A Febo Apolline ma scrivendone in una lettera al Chiarini del luglio '57 («Chi fu esempio unico di perfezione, è il Savioli: in lui i latini ci son tutti e ci sono stupendamente; in lui la passione, tutto, tutto, insomma»), e memore del primo entusiasmo ancora nella prefazione degli Erotici a lui assegnava fra tutti quei poeti un posto distinto, dicendo che «egli appartiene alla scuola latina di buona lega» e soggiungendo: «Per la sobrietà, per la concisione elegante, pel vigore onde condensa le imagini, per la eguaglianza (salvo qualche improprietà e qualche erroruzzo di lingua) lo collocherei con assai d'intervallo ma pur subito dopo il Parini».
Di fatto, come per la maggior parte dei poeti settecenteschi, il riconoscimento di quel che è di positivo nell'opera savioliana e la giustificazione della fama che per tanto tempo godette e dello stesso piacere che ancor oggi si può provare nel rileggerlo, non richieggono uno studio preliminare della personalità del poeta o desanctisianamente del suo mondo, bensì della forma metrica e del modulo dei suoi componimenti, oltreché della maniera a cui queste quartine galanti e fiorite d'immagini letterarie si conformano. Non che il metro per se stesso, astrattamente considerato, sia invenzione del Savioli, ma del Savioli è la riduzione nella vivace quartina di settenari con gli sdruccioli nelle sedi dispari e i due versi rimati nelle pari del distico elegiaco di Ovidio e di Properzio, che lascia intravedere nella miniatura moderna qualcosa del disegno antico offrendo il modo di alternare quadretti di vita contemporanea a figurazioni mitologiche rapidamente schizzate, e intercalando fra gli uni e le altre commenti sentimentali e gnomici: una maniera dunque, ripetiamo, piuttosto che una poesia nuova, una maniera in cui si compendiava con un fortunato compromesso l'esperienza di una zona ben determinata della poesia classica e quella della poesia per musica del Settecento, capace per la sua novità di accogliere in componimenti così foggiati altri e diversi soggetti. Perciò le odicine savioliane divennero uno schema assai comodo e suggestivo per non pochi poeti del secondo Settecento, a tacere di tardivi riecheggiamenti ottocenteschi: significativo sopra tutto, più ancora del Monti della Prosopopea di Pericle e dell'ode Al Signor di Montgolfier, che sono altra cosa, l'esempio dell'ode pariniana A Silvia, che è un vero e proprio calco dei modi savioliani, con l'alternanza in un discorso rivolto a giovane ed elegante donna in tema di moda, di moniti e di esempi, anche se gli esempi non son più tratti, come prevalentemente nel Savioli, dalla mitologia bensì dalla storia, e tanto più incisivamente e con ben altra coscienza morale rappresentati spettacoli della progressiva decadenza del costume romano. Non suona già pariniana una quartina come questa del Savioli a proposito delle giovinette spartane lottanti ignude sull'arena? «Non di rossor si videro / contaminar la gota: / è la vergogna inutile / dove la colpa è ignota».
Se nella poesia per musica si è notata la tendenza ad una chiarificazione e semplificazione dello stile, alla simmetria, cara al Metastasio, di periodetti agili e precisi, tale tendenza si continua nel Savioli, agevolata dalla presenza esemplare del distico latino, dalla sua sentenziosità, dalla scorciata e conchiusa presentazione delle immagini. La quartina si scinde nei due distici contrapposti: la sintassi giunge al massimo della semplificazione, le movenze epigrammatiche ed icastiche del latino sono rese ancor più rapide ed elementari in questo stile che tutto riduce a quadretto miniaturistico, a discorso sciolto e piacevole, che procede per brevi ed elementari proposizioni. «S'erge segreto un tempio / dell'ampie coltri a lato: / là tue bellezze aspettano / il sacrificio usato. / Vieni. Sia fausta Venere, / gli uffizi Amor comparta, / le Grazie in piedi assistano; / tu sederai la quarta». L'onda musicale è franta o per meglio dire superata in una serie di figure e figurette della vita contemporanea o di una mitologia di spirito non difforme. Può accadere più di una volta che il poeta preso dalla ispirazione o per meglio dire dalla maniera non giunga nelle singole voci all'espressione definitiva, sì da lasciare un senso di approssimazione, di indeterminatezza, rilevato dal Croce e non sfuggito ad Attilio Momigliano, il quale pur nella maggiore simpatia per questo «piccolo poeta» non si nasconde che «le sue canzonette sembrano scritte sull'avorio», che egli «continua il vocabolario generico dell'Arcadia», che la sua «aggettivazione» è «di rado classicamente precisa», che «consegna un'impressione generica fra musicale e pittorica alle sue quartine che volatilizzano miti e figure», e il fondamentale edonismo di quest'arte definisce come meglio non si potrebbe dicendo che nel Savioli «tutto è giuoco volubile e accorto, passatempo raffinato di un frequentatore di salotti». E sarà da aggiungere come a dar movimento agli episodi del suo romanzetto galante, il Savioli si valga anch'egli e senza ritegno di modi tipicamente melodrammatici rafforzando le sue parole con un'enfasi che quanto più è rilevata, ci induce tanto meno a prendere sul serio il sentimento espresso, a ricondurlo invece alle sue vere proporzioni, alla temperie che gli è propria. Valgano gli esempi di alcuni esordi in cui più che altrove il poeta sente il bisogno di prendere un atteggiamento melodrammatico per dare un avvio al colloquio amoroso-galante, per interessare il lettore alla sua dolente storia di innamorato. «Fra penitenti lagrime / preda a rimorsi io scrivo: / che dir potrò ? - Me misero! / io t'ho perduta e vivo? - / Amor m'assiste: ei gridami: / - Scrivi, otterrai mercede. - / Ahi! verrà meco inutile / d'un tanto dio la fede ?». «Odi: i momenti volano, / odi una volta, e cedi. / Oimè! gli dii ti perdono / se in Esculapio credi». «Deh, per pietà! silenzio / al rio sospetto imponi, / ed alla guancia tenera / la bianca man perdoni». «Grazie agli dii! mostrarono / palese i tempi il vero, / per loro ebbe giudizio / la nostra lite intero». «Empia, ad orror perpetuo / dannata infausta valle, / che rupi immense adombrano / colle deserte spalle!». Il lettore che sta al gioco dà un'importanza assai relativa a queste e ad altre effusioni e pur considerandole elemento necessario al discorso dell'Ovidio o Properzio bolognese, preferisce ritenere nella memoria non diciamo figure ma lineamenti o profili di quella società, di quel vivere, o, a loro affini, rapidi schizzi di storie desunte dalla mitologia o in genere dalla poesia antica: un Parini, diremmo, privo di intimo vigore, o un'ombra o un presentimento pariniano. La bella nel cocchio e il suo corteggiatore: «La bella intanto i lucidi / percote ampi cristalli, / l'auriga intende e posano / i docili cavalli. / Tosto m'appresso, e incitinomi / a quel leggiadro viso, / che s'adornò d'un facile / conquistator sorriso ... / Risvegliator di zefiri / ventaglio avea la manca, / onde solea percotere / lieve la gota bianca»; l'acconciatura mattutina di lei: «Ma già tuo dolce imperio / la fida ancella invita; / ella s'appressa e all'opera / stende la destra ardita. / Già dal notturno carcere / i crini aurei sprigiona / ed all'eburneo pettine / gl'indocili abbandona»; il carnevale e l'elegante folla mascherata e in domino (anche qui il richiamo al Parini è inevitabile): «Festeggia a gara il popolo / dell'ebbro dio sull'orme; / le vesti ora si cangiano / e i volti in mille forme / ... Così velate e pallide, / in neri manti avvolte, / per l'aria bruna appaiono / le afflitte ombre insepolte»; i silfi del Riccio rapito ministri della donna e delle sue eleganze: «Mille a te Silfi accorrono / in sulle lucid'ali, / diva progenie, aerea, / che sfugge occhi mortali / ... Gelosi custodiscono / i nèi, l'acque odorate, / i vari fior, le polveri, / le gemme e l'onestate»; la bella al teatro e i consigli del poeta amante, il ritorno di lei a tarda notte dopo la veglia consumata nel gioco sulle «ostinate carte»: «Il cocchio allora ai taciti / lari stridendo arriva; le faci intorno splendano; / sta' pronta: ecco la diva»; e infine (ma si potrebbe continuare con gli esempi), il sonno vegliato e pròtetto da Amore e dal Silenzio: «Se sulla sponda assidesi, / Amor si corchi e taccia, / o altrove il volo movere, / finché tu stai, gli piaccia / ... e a te fedel Silenzio / guardi la muta soglia. / Col dito al labbro ei rigido / il passo a ciascun vieti, / solo l'entrar sia libero / a miti sogni e lieti». La storia di quell'amore, se così vogliamo chiamarlo, rimane generica, né la donna o l'innamorato hanno, occorre dirlo?, una vita loro artisticamente individuata. Siamo sempre nel campo di un'arte minore o decorativa, e di questa decorazione è parte integrante e necessaria l'apparato mitologico, che anzi ha l'ufficio di rilevare i momenti salienti della storia o cronaca savioliana accogliendo e fissando in qualche quadretto quel tanto di sentimento che a tal sorta di ispirazione era concesso. L'antro solitario che Teti ha adornato e sembra fatto per essere testimone e custode di antichi e nuovi amori: «Un antro solitario / nel tufo apriron l'acque / ... Onde argentine in copia / dalla muscosa conca / versa tranquilla Naia- de, / custode alla spelonca»; Venere innamorata: «Spesso la cipria Venere / ne' spechi ermi s'assise, / quando, del ciel dimentica / seguia pei monti Anchise»; Deidamìa abbandonata da Achille: «Ed aspettò la misera / le infide vele invano, / e invano al petto ingiuria / fe' coll'avversa mano, / e invan discinta e pallida / pianse sul lito incolto, / e i pianti suoi bagnavano / al picciol Pirro il volto»; Clizia che mutata in fiore ancora si volge verso l'amato: «Clizia, affannosa driade, / in croceo fior cangiata, / tien vòlta al caro Apolline / la faccia abbandonata»; o l'attesa sempre delusa di Penelope: «Sovente ancor Penelope / sognò del greco amato, / e nel sognar destandosi / credette averlo a lato: / poi, fra le piume vedove / stesa l'incerta mano, / dell'error, lassa! avvidesi, / e pianse a lungo invano».
Ne annuncia gli spiriti nella prima pagina degli Amori quella preghiera a Venere, nella quale il poeta anziché rifarsi come il Rolli a Lucrezio rammenta la preghiera di Saffo ad Afrodite, e dell'incontro della dea e della donna, della consolatrice immortale e della creatura umana dal cuore in delirio compone una scenetta di lieve grazia tutto raggentilendo e impicciolendo, sicché il dramma stupendo è più ancora che attenuato dissolto, tanto simili e vicine sono ormai la fanciulla e la dea, tanto poco singolare quella grazia dalla dea concessa da essere presentata come una consuetudine: «Te sulle corde eolie / Saffo invitar solea / ... E tu richiesta, o Venere, / sovente a lei scendesti / ... E mentre udir propizia / solevi il flebil canto», tramutato il sorriso e la parola consolatrice dell'immortale in un gesto affettuoso e familiare e il dolore straziante di Saffo in un tenero pianto: «tergean le dita rosee / della fanciulla il pianto». Dovremo per ritrovare, col motivo profondo della poetessa greca, la voce della più alta poesia rileggere i versi del Foscolo, il quale pur ha saputo del motivo fare cosa così tipicamente sua, non senza trascurare per la lirica di Saffo, da lui piuttosto sinteticamente rievocata che imitata, qualche nota del Savioli, come appunto «il pianto», che pure assume, per tutti i versi che precedono, per il dramma che viene a concludere, un così diverso valore ed accento.
Di quel mel la fragranza errò improvvisa
sul talamo all'eolia fanciulla,
e il cor dal petto le balzò e la lira:
ed aggiogando i passeri, scendea
Venere dall'Olimpo, e delle sue
ambrosie dita le tergeva il pianto.
Ma tra il Foscolo e Saffo, come accadeva per Solitario bosco ombroso raffrontato ad accenti di ben altri poeti, le quartine savioliane vengono ad apparire quasi prive di consistenza: a renderci conto della loro qualsisia ragione d'essere conviene riportarle all'ambiente che è loro, considerare la scenetta della donna e della dea insieme alle altre sopra ricordate gentili e gracili motivi di decorazione in cui il pathos della maggiore poesia si riduce ad una tenue inflessione sentimentale, a un patetismo languido e aggraziato che è quanto di gusti già vivi nel tempo suo sa accogliere il Savioli, il segno più evidente e scoperto dell'«interesse» a cui la sua arte mira, e a cui giunge pure distendendosi in un quadro più ampio ma non per questo più intensamente e profondamente poetico, nelle strofe libere della storia di Amore e Psiche. «Te ritenne Citerà. Ivi t'accolse / la rosata di Psiche emula antica; / e medicava la pietosa mano / l'offese della tua dolce nimica, / mentre la sconsolata / te richiamava lagrimando invano». Una situazione tanto simile ad altre degli Amori, di cui ritornano anche voci ed immagini, e nel fluire del racconto un'agilità sintattica che pure ci fa pensare al discorso di quelle quartine a cui il nome del Savioli resta legato: un piacevole affresco del secondo Settecento che adorna la volta della ideale sala savioliana istoriata nelle pareti e nei battenti delle porte coi quadretti e le fìgurette degli Amori del nuovo e minore Ovidio.
Una medesima propensione per i modi delle arti figurative si avverte a mezzo il Settecento nei sonetti immaginosi o pittorici del Cassiani, che seppe in una forma, inaugurata dal virtuosismo secentistico e divenuta comodo schema o appoggio per una poesia ad effetto come certi sonetti dello Zappi e a un livello più basso i sonetti storici del Frugoni, racchiudere una scena e delle figure meditate a lungo, sentiamo, e vagheggiate con occhio d'artista: sonetti da cui è bandita ogni traccia di improvvisazione, come non era invece in tanti altri consimili di predecessori o contemporanei, ma che, anche i più belli, serbano una certa fissità, connaturata ad una ispirazione delimitata fin nella sua origine in modi ben definiti. Ma l'equilibrio raggiunto in pochi sonetti dal Cassiani (e come gli sarebbe stato possibile un'opera poetica più ricca e più varia?) maggiormente si apprezza quando dopo questi componimenti suoi ne leggiamo alcuni di coloro che tentarono ancora quella maniera, riuscendo talora a qualche effetto di un decorativismo neoclassico come il Salandri, ma più spesso lasciandosi trasportare da un'ambizione ancora secentistica di sorprendere con la novità del soggetto e delle espressioni: insigne fra tutti e al suo tempo famoso il Minzoni, di cui Francesco Salfi ebbe a scrivere che «studiossi di superare il Cassiani e spesso oltrepassa le giuste misure prescritte dal buon gusto».
Siamo col Minzoni, che visse ancora parecchi anni nel secolo decimonono, in una zona di tardo secentismo provinciale (un secentista a ragione lo definisce il Natali), un secentismo persistente nonostante la reazione arcadica e privo ormai di quei fermenti che sia pure con dubbi risultati di poesia eran stati propri del gusto barocco. È l'ambiente medesimo da cui più anziano di una generazione proveniva il Varano, alle cui Visioni quali che siano le differenze, si apparentano le stupefacenti e rumorose invenzioni del minor rimatore ferrarese, cari l'uno e l'altro a Vincenzo Monti, che per tanto variare di gusti e di vicende portò in sé una propensione invincibile al barocchismo quale gli si era presentato in questi autori della sua terra, e dal Varano assai più che da Dante aveva preso l'avvio per le sue cantiche. Figura singolare senza dubbio nel Settecento il Varano, che a tutte le voci del secolo sembra restare insensibile: «poeta di clausura», come ebbe a definirlo il Calcaterra, altro sentimento non sembra esistere per lui se non la fede tradizionale, fermamente assisa nell'animo suo senza contrasto, senza possibilità di avvivarlo, un dato greve ed inerte e per questa sua natura tale da offrire al nobile autore non più che materia per stanche variazioni su motivi tipici della religiosità barocca. Si è lodata, quasi un capolavoro (dal Bertana e dal Natali) la tragedia Giovanni di Giscala, «nobile esempio di vera tragedia italiana indipendente dal teatro di Francia», «opera di un arcade che si nutriva di Dante», anticipazione addirittura del Saul alfieriano: e sarebbe per vero singolare, anche se astrattamente non impossibile, che l'infelice poeta delle Visioni si fosse elevato alla concezione di un carattere così possente quale ci descrivono i suoi ammiratori, come quello del protagonista, l'ostinato difensore del Tempio di Gerusalemme contro l'esercito romano. Di fatto il Varano, letterariamente educato, poteva marginalmente conseguire qualche risultato d'arte, ad esempio nel coro Le feste di Adone della tragedia Demetrio, del resto in sé meno che mediocre, non già concepire e svolgere un dramma di opposte e pur legittime passioni, comprendendo umanamente e poeticamente il furore di fanatismo e di ambizione che si incarna in Giovanni, e i sentimenti avversi e complementari dei suoi antagonisti. Né a tanto egli mirò, bensì ad una «sacra rappresentazione», in cui ben definite sono le parti dei buoni e dei malvagi e che deve concludersi con un edificante finale: una sacra rappresentazione priva della freschezza e della varietà di quelle di un tempo, ridotta com'è alle proporzioni da teatro di collegio, fondamentalmente statica in un'azione che identica si ripete e che appena si avviva più che per il protagonista, null'altro che un malvagio mal comprensibile, per qualche nota affettuosa di Marianne, la madre e la sposa già cristiana.
Nessun contrasto perciò fra l'autore tragico del Giovanni e il poeta delle Visioni, anche se in questa sua estrema e maggior prova il Varano dà un ancor più forte risalto alla sostanziale impoeticità della sua ispirazione. «Volevasi una cotal aversione dalla terrena felicità», è detto a proposito delle Visioni dal prefatore alle Opere scelte varaniane nell'edizione dei Classici italiani, «un'arida malinconia, un contento della sola rigida soprannaturale virtù: poi l'infinita e necessaria schiera de' mali, ond'è afflitto il mondo, e tremuoti e peste e morte e rovine d'ogni maniera, ed angeli sterminatori e spettri e demoni, e la tonante fiamma del cielo e la mugghiante ira dell'oceano tempestoso; cose in complesso atte a scuotere violentemente indi a stringer l'anima di gelato orrore anziché agitarla gradevolmente e condurla per lo sentiero della grazia, della compassione, del terrore e della vaghezza all'utile ed al diletto». E pur riconoscendo l'arte posta dal Varano a render poetica materia così ingrata, l'anonimo prefatore non sa trattenersi dal chiedersi se «tante cure valsero sempre ad allontanare da quelle sublimi Visioni un certo qual senso d'increscimento e di ribrezzo proprio di quel genere di poesia». A noi vengono piuttosto in mente leggendo dell'infinita schiera de' mali che così prodigalmente il Varano ci descrive nelle sue terzine, le parole di san Paolo: «Si linguis hominum loquar et angelorum charitatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans, aut cymbalum tinniens»; e davvero quel che al pio Varano fa difetto è la carità, rimanendo egli, quanto più si addentra fra gli orrori delle sue descrizioni, del tutto indifferente dinanzi agli spettacoli sempre più crudi e macabri che viene moltiplicando, tanto aliena gli è non dico la comprensione poetica ma quella umana partecipazione che può manifestarsi anche in una pagina letterariamente modesta con qualche nota commossa, con un senso della misura e delle sfumature che gli è del tutto ignoto. Basti, poiché abbiamo risparmiato al lettore saggi delle orripilanti Visioni della peste messinese e del terremoto di Lisbona nella scelta da noi offerta delle opere varaniane, seguendo invece i suggerimenti della Crestomazia leopardiana, citare qui un passo soltanto come esempio di quel museo degli orrori.
Con picche annate in ferro adunco e lorde
di melma tratti eran que' corpi al rogo,
cui più vita sì dura il cor non morde:
sacerdoti e fanciulle e quei, che il giogo
maritai strinse, ignudi e insiem confusi,
da vicin tolti, e da rimoto luogo:
e fra questi
d'alta necessitate il gran delitto?
vivi, che ancor movean gli occhi non chiusi;
ma palpitanti col ronciglio fitto
nella gola i sospir versando e il sangue
dal collo in sì crudel foggia trafìtto.
Basti aggiungere, tralasciando con tutto quel che segue la lacrimevole storia declamata da un vecchio, la terzina che ne descrive il suicidio tra le fiamme.
Disse: e debil, tua fìer, venne a gittarse
fra l'altissime fiamme, ove in un punto
s'abbronzò, frisse abbrustolato ed arse.
Simile agli addetti a quel triste ufficio, il poeta da Lucrezio e da Dante trae coi roncigli e va accatastando pezzi di questa sorta (con quali risultati di grottesca deformazione rispetto all'originale può giudicare il lettore): tanto studio, tanto impegno, tante letture non giungono se non ad un effetto di «rigide e castigate esercitazioni» (Calcaterra), non avvivate nemmeno da un moto di affetto per gli autori che si è presi a modello. Ne viene sia nelle descrizioni di immense calamità delle Visioni citate, come in quelle di altro argomento uno stile perennemente sforzato, vizioso insieme per una grossolana materializzazione e per una non meno fastidiosa astrattezza: ne sia esempio la figura della beata Battista Varano, che letteralmente costringe il poeta a seguirla su di un carro per mostrargli lo spettacolo della pestilenza messinese: «In quel momento a me la destra prese / la donna e a sé con tal vigor m'attrasse / che mal mio grado il piè sul carro ascese», e poco più innanzi quando egli, spaventato per il luogo a cui sa d'essere condotto, vorrebbe gettarsi dal carro, con egual forza da virago piuttosto che da spirito beato lo ritrae rimproverandogli «lo sfrenato amore di sé» per cui egli vorrebbe sottrarsi «a imago util ma trista»: «... e mi prese allor tema sì forte, / ch'io spinsi in atto di gittarmi d'alto / le membra alquanto fuor del carro sporte; / e già pendea senza librarmi in alto, / quando la guida pel braccio m'avvinse / da me steso a dar moto al folle salto, / e indietro lo tirò, mentre lo strinse, / con lena tal, che sul lasciato seggio / mi torse, mi piegò, mi risospinse»; e nella Visione prima l'amplissimo racconto con cui egli riprende il tema di Dante smarrito nella selva e salvato da Virgilio, complicandolo e appesantendolo con tanti particolari sia nella minuta descrizione dell'erta da cui precipita e del mare in tempesta, sia nella apparizione dell'anima di monsignor Barberini, che giunge a salvarlo: «Vieni, e la destra mia prese, ch'ei strinse / colla sua manca man e con un salto / delle mie lasse membra il peso vinse». Perciò nonostante l'assunto di edificazione, a cui costantemente egli mira nelle dodici Visioni, il discorso, venendo a mancare l'afflato di un'intima ispirazione, si frange e disperde in tanti particolari, in un susseguirsi di descrizioni, da cui il Leopardi, memore della giovanile simpatia, potè trarre saggi per la sua Crestomazia, ma che tanto meno dicono a noi che non al poeta dei Canti, che quelle immaginazioni aveva vagheggiato quando componeva l’Appressamento della morte, un'opera pur nell'immaturità giovanile tanto più ispirata e fusa, almeno nel primo e nel quinto canto, delle Visioni varaniane.
Occorre dire che ben poco peso hanno gli elogi al Varano tributati di essere stato in un secolo, si dice, così poco dantesco studioso e imitatore di Dante? Assai più che nelle imitazioni varaniane è presente la Divina Commedia nelle pagine di un Bettinelli, sia in quelle che ne tracciano una gustosa caricatura che nel riconoscimento degli episodi più originali e più appassionati. Il Varano accoglie, secondo l'insegnamento dell'Arcadia, Dante come modello da imitare, riuscendo in questa imitazione obbligata soltanto a farci sentire la infinita distanza dal poeta modello, la sua sostanziale indifferenza verso quella grande poesia e verso il mondo che è di Dante. Ancora una volta dobbiamo consentire col Bettinelli, il quale proprio per questi saggi di imitazione dantesca era indotto a dubitare sull'opportunità della scelta di un simile modello nell'età sua e al Varano certo alludeva in una nota del Discorso sopra la poesia italiana: «Così pur Dante è oggi alla moda dopo tre secoli, per chi non nacque poeta e vuol esserlo invitis diis» ; e pensiamo che abbia ormai fatto il suo tempo un dantismo retorico e convenzionale per cui veniva a prendere un posto d'onore nella storia letteraria un così povero poeta in grazia di una tutta estrinseca e fallita imitazione della poesia dantesca.
Nemmeno ci sentiamo di riconoscere, secondo i suggerimenti di una critica più moderna e avveduta, pregio se non di poesia di novità alle Visioni per motivi e temi preromantici che vi si potrebbero scorgere. Se immaginazioni tetre, orrorose, meditazioni sulla morte son proprie di quella letteratura, esse presuppongono tutt'altra temperie spirituale: sono, se non espressioni, manifestazioni della sensibilità del secolo, che si compiace di se medesima, che cerca nel grandioso o nel macabro o nel lugubre un brivido di commozione. Ma questo brivido appunto manca nel Varano, che nessuno potrebbe confondere con qualche spirito «sensibile» dell'ultimo Settecento. Egli invece è, come si è detto, tutto legato al passato, e su temi, soggetti, motivi che il passato gli offre ormai fìssi e definiti lavora in un assiduo e sterile esercizio di letteratura, in cui vien meno anche quanto era al fondo di quei temi, di quei motivi, il senso della distruzione, della morte, del nulla, così vivo nell'età barocca e che in quell'età aveva trovato espressioni d'arte. La cultura del Varano, nonostante le sue letture, è cultura pigra e stagnante: isolate nel tempo loro le Visioni rimangono ad attestare una pigrizia, un'inerzia spirituale, a cui soltanto la persistente tradizione retorica dà una parvenza di vita.
Tanto più riconoscenti ci sentiamo al Minzoni, quando usciti dalle letture varaniane percorriamo i suoi sonetti, che non richieggono a noi, come non richiesero al loro autore, la lunga e ingrata fatica a cui il Varano sottomise se stesso e i suoi lettori. Certo il Minzoni si divertì e diverte in diverso modo noi con questi sonetti, tracciati a grandi pennellate, con la facilità di un affrescatore di cappelle campagnuole, predicatore di provincia che alla brava riprende moduli e temi tradizionali, mirando ad un effetto immediato. Così a un secolo di distanza può ispirarsi al sonetto dello Zappi di un deteriore barocchismo per la visita della vedova del Sobieski a Roma, componendo il suo per la ricuperata sanità di Pio VI, con una doppia intimazione del Cielo e della Terra: «Vieni, diceva il Ciel, vieni, grand'al- ma ...» «Ferma, dicea la Terra ...» e il dubbio in cui si trova al pari del Sobieski il pontefice ammalato: «Stette allor infra due l'anima forte, / pronta a lottar qui nel corporeo velo, / pronta a gioir là nell'empirea corte», dubbio risolto fortunatamente non da lui ma dal Cielo: «Tremava il mondo. Ma l'ingordo telo / nel turcasso ripose alfin la Morte, / ch'ebbe pietade della Terra il Cielo». La stessa superficialità del sentire e la fondamentale mediocrità, per non dire volgarità intellettuale è in sonetti di argomento religioso: la morte di Cristo e il peccato originale nel sonetto celeberrimo, tanto ammirato dal Monti e che il Foscolo per primo osò criticare, con quell'Adamo, che leva la testa, «rabbuffato e sonnolento», destato dal terremoto succeduto alla morte di Cristo, con quel suo rimprovero alla consorte gridato ad alta voce sì «che rimbombonne il monte»; l'Immacolata Concezione con l'anima di Maria «che per le vie del tuono e del baleno» scende dal cielo in terra «quando un mischio di fumo e di veneno / sbruffolle incontro l'infernal serpente»; o nei sonetti sulla morte del padre che vorrebbero essere più intimi e ci offrono gemme di questa sorta, «il gran nemico» che ode l'invocazione a Maria del morente «e per furore / si lacerò le viperine chiome; / udillo e, tratto un gemito dal core, / l'armi addentò disonorate e dome», e la chiusa con l'ascesa del morto in Paradiso: «Quando, su l'ali d'un'auretta assiso, / impaziente di veder Maria, / rapidissimo corse in paradiso». Che divengano poi Dante e Ariosto sotto la penna di questo rimatore che fu detto, ahimè, ariostesco, bastano ad attestare i due sonetti su Rodomonte e Mandricardo all'Inferno: una pittura grossolana e involontariamente parodistica, con Mandricardo che si sta «colle man sotto le ascelle» aspettando «la barca affumicata di Caronte» e col suo avversario che dopo di lui giunge spargendo «sovra il naso e le mascelle / il sangue ancor dalla squarciata fronte», e la zuffa che fra di loro di nuovo furiosamente si rap- picca, e il sopraggiunto Caronte che ad una tale vista «gli occhi d'una feral luce sanguigna / tosto raccende, e i sopraccigli arruffa»: «Il cagnesco dentarne ora digrigna, / or ne' mustacchi arroncigliati sbuffa: / amarissimamente alfin sogghigna, / e le due combattenti ombre rabbuffa». È ovvio che tale poesia non pone problemi alla critica (avremmo anche tralasciato di offrirne saggi se le lodi che ebbe a suo tempo non ci avessero indotto a dare fra non poche cose mediocri che sono in questo volume un esempio anche dell'opera minzoniana); rimane piuttosto, poiché è chiara oltre la nullità poetica l'origine di tali componimenti e la cultura e la mentalità che in essi si rispecchiano, da spiegare le ragioni di quella fama, la celebrazione che ne fece Francesco Torti, fiero di concludere il Prospetto del Parnaso, che aveva iniziato con Dante, col capitolo sul Minzoni, campione entusiasta dell'uno e dell'altro - eppure egli, a parte l'ammirazione schietta per Dante, aveva, ed è uno dei suoi maggiori meriti di critico, riconosciuto il vizio intrinseco dei poeti secentisti, di cui il Minzoni è un tardo seguace (ma forse potè su di lui l'ammirazione incondizionata del Monti, che non si stancò di farsi banditore dell'eccellenza poetica del conterraneo); la stessa così spinta simpatia del Monti e i suggerimenti che ne trasse per il suo poetare; la fama persistente nella scuola e nella tradizione critica, per cui il Tommaseo discorrendo del risorto studio di Dante nel Settecento non si peritava di affermare nell'articolo Cenni sulla storia dell'arte (interessante, come ben ha veduto il Natali, per chi studi la lirica settecentesca): «Il Gozzi, il Varano, il Parini, il Minzoni, il Mazza, il Monti, l'Alfieri, il Foscolo son tutti allievi di Dante e hanno tutti un carattere proprio, tutti sovrastano nel genere loro ai poeti che li precedettero»; e ancora: «Io direi che l'Alfieri, il Parini, il Gozzi, il Minzoni stesso nel genere loro sono più originali del Monti. Non hanno i pregi di lui, ma hanno un carattere proprio: e questa è lode somma». Eppure il Tommaseo non mancava, sopra tutto per i particolari dello stile, di finezza critica e aveva della poesia esperienza tale da poter riconoscere qual poca parte nel mondo della letteratura tenga l'opera del prete ferrarese. La quale a noi resta un indizio e per se stessa e per i giudizi ammirativi che si andaron ripetendo così a lungo, di certa stratificazione nella cultura italiana di tradizioni retoriche non mai del tutto superate e che nella scuola continuarono a far sentire la loro efficacia.
«Lo stile qui chiamato di Lombardia» scriveva da Napoli nel 1795 il Rezzonico «si rigetta come troppo studiato e difficile; non si conosce la lingua, non l'artifìcio e il meccanismo del verso, non l'atteggiamento greco o latino, non si lodano che i versi da colascione, le frasi plebee, le immagini più triviali, la fluidità come dono inapprezzabile delle Muse. A Roma si gusta l'intonazione lombarda e siamo riguardati a buon titolo come i veri poeti che adornino l'Italia, ma Napoli non pensa così...». Non soltanto dei napoletani però era la diffidenza per lo «stile di Lombardia», che sembrava distaccarsi così risolutamente dall'Arcadia metastasiana, se di essa si faceva interprete ancora nel primo decennio dell'Ottocento Francesco Torti, che più di una volta abbiamo avuto occasione di citare come buon testimone se non sempre buon critico della letteratura settecentesca e che in un'importante pagina del suo Prospetto riassumeva le «nuove massime e i nuovi princìpi in materia di gusto» affermatisi nel secondo Settecento, non senza dissimulare le proprie riserve e il rimpianto per «il semplice e patetico linguaggio», per la «dolce impressione del bello sentimentale», la cui dolcezza risuonava ancora nell'animo suo coi versi dell'ammiratissimo Metastasio e dei poeti musici che sia pur da lontano ne avevano seguito le orme: «Si volle credere senza difficoltà che lo stile lirico di Orazio era l'unica scuola del bello poetico; che la felice imitazione del suo gusto e della sua maniera poteva tener luogo di tutto il meglio in poesia; che il segreto dell'arte consisteva nel dare agli oggetti rappresentati quella vernice lucida e brillante, che lusinga la fantasia del lettore senza affaticarne lo spirito; che bisognava ritrarre la natura unicamente dalla parte delle sue forme più eleganti e nel puro fisico delle sue impressioni; che conveniva ripopolare il mondo poetico degli esseri fantastici della mitologia e adottarne le finzioni non meno che l'espressione e il linguaggio; che infine, sull'esempio di Orazio, era d'uopo tener sempre risvegliata la fantasia colla vivacità dello stile, senza piegarlo giammai al semplice e patetico linguaggio che parla all'anima e porta al cuore la dolce impressione del bello sentimentale». Ora la lettera del Rezzonico e il discorso meditato del critico umbro valgono a darci un'idea di quella che apparve, per usare il linguaggio del tempo, una «rivoluzione» del gusto poetico, una conquista per gli uni di modi più severi, di un linguaggio più eletto e robusto, di temi nuovi, un abbandono per gli altri di quel che era stato e sembrava dovesse essere per sempre l'incanto della poesia. S'intende che la scuola lombarda o quel che fu in essa di vitale si compendia per noi nel Parini, che ebbe tanta parte col Giorno e con le Odi nella formazione del più recente linguaggio poetico, dalle varie prove della lirica neoclassica sino alla poesia nuova di un Foscolo. Non che, come pensava il Torti, il suo classicismo rappresenti qualcosa di assolutamente nuovo, una «poetica» venuta, quasi per un atto d'arbitrio, a restringere di tanto il campo delle lettere, a costringerle entro moduli costantemente desunti dai poeti latini: già e nel Rolli e nel Savioli abbiamo avvertito un preannuncio di forme, situazioni e per certi aspetti dello stesso linguaggio pariniano, e il ritorno ai classici, l'adesione più esplicita e coerente al loro mondo ideale e artistico col conseguente ripudio di modi più facili e la ricerca di una dignità e compostezza latine non ci sembra se non un ulteriore sviluppo della letteratura che nell'Arcadia aveva avuto la sua bandiera, un ritorno ai princìpi, nuovamente e più severamente interpretati, una riforma, vorremmo dire, tra le altre riforme di quell'età, che da esse prese il nome, non una rivoluzione.
Mentre un Varano, accettando come per obbligo l'insegnamento arcadico si dava a seguire un modello, nientemeno che Dante, scelto senza alcun moto di intima simpatia, e non sorretto nel laborioso esercizio da una cultura viva e mentre dietro ad altri modelli altrove si continuava stancamente sulle vie segnate dall'Arcadia, il Parini attivamente partecipe alla cultura del suo tempo in una città come Milano e formatosi e affermatosi fra i Trasformati, una sorta di Arcadia affabile e paesana, vernacola anche ma nei suoi stessi poeti dialettali non retriva o puramente linguaiola, poteva sentire nella parola classicamente eletta, e talora ardita e vigorosa e nuova né per questo disforme dagli insegnamenti classici, il suggello di un'antica sapienza di letteratura e di vita a verità e princìpi che sono in ogni tempo fondamenti di umanità, e insieme la giustificazione e direi la redenzione artistica di tanti spettacoli del vivere d'ogni giorno. Né il superamento della «fluidità» e della più facile cantabilità metastasiana implicava un assoluto distacco da temi e motivi propri della poesia settecentesca, che anzi tornano nel Parini, nel «Parini minore» e nel «Parini maggiore», sia che egli li riprenda condiscendendo anche ad antiche cadenze, come nel Brindisi, una tipica canzonetta settecentesca per i modi d'arte e lo spirito informatore, che si affianca nella nostra memoria alle celeberrime del Metastasio e del Rolli, sia che li innalzi nell'ambito di un più complesso discorso dal linguaggio più difficile alla luce di una più severa coscienza morale, col risultato, particolarmente evidente nelle odi galanti e nella Musa di un equilibrio fra mondanità e saggezza, fra linguaggio salottiero e linguaggio icasticamente e sentenziosamente classicheggiante, fra la tradizionale poesia d'occasione e l'energica affermazione dell'io del poeta.
È ovvio che l'«equilibrio», la «forza» pariniana, ben messi in luce dal De Sanctis, non son da cercare negli altri poeti che si raccolgono sotto la etichetta di neoclassici, i poeti della cosi- detta scuola lombarda, i pindarici parmensi o gli oraziani modenesi. Basti, se pur occorre, raffrontare quegli accenni del poeta alla propria persona, che non senza suggestione oraziana il Parini vien facendo nelle sue odi sino a creare di se stesso un vero personaggio (motivo tipico della sua poesia ma anche topos della lirica neoclassica, che sarà accolto insieme con altri dal Manzoni lirico: «Vergin di servo encomio ... un cantico che forse non morrà») con gli altri, tanto più frequenti e insistiti e fastidiosi, di quegli oraziani o pindarici. Non importa aver presente quale fosse il carattere e la vita del Cerretti per avvertire la stonatura e l'intrinseca falsità di versi come questi: «Unico forse delle ascree sorelle / infra i seguaci, io libero, io ne' gravi / modi d'Alceo franco tonai fra imbelle / popol di schiavi; / e mentre offrir godean plebei cantori / ai coronati vizi aonio serto, / io le neglette osai cinger di fiori / are del merto». Altrettanto sgradevoli gli «io» che si levano dai versi di Angelo Mazza («Dunque, io, cantor di vergini / e di celesti affetti, / io, di Plato i difficili / uso trattar concetti / e 'l gemino volume / ove sol parla il nume; / io, d'inspirati numeri / modulatore, e fabro / di non terrene imagini...»); quel Mazza così pieno sempre di sé da dimenticare non dico la misura della poesia a lui sconosciuta o il senso del pudore, ma i dettami elementari della retorica o della convenienza sociale. Non è suo un sonetto in cui seriosamente si contrappone il gesto di Alessandro che risparmia la casa di Pindaro alla sacrilega violazione di un angolo delle sue terre da parte di qualche squadrone francese? «Marte or vegg'io che in su' miei paschi accampa, / io di carmi dircei fabbro non vile, / e l'armato cavallo orme vi stampa: / né vaimi a schermo onor di lauro, o stile / che de l'aure d'Apollo arde e divampa: / tanto i sacri intelletti or s'hanno a vile!». Fortunatamente, ci vien detto, due anni dopo gli austro-russi gli devastarono tutti i suoi possedimenti.
In casi come questi la critica morale si confonde col giudizio dell'arte, e si sarebbe tentati di sbarazzarsi di questi «verseggiatori del grave e del sublime» e in special modo del Mazza rinviando alla condanna sommaria e difficilmente appellabile del Croce, se nell'opera loro, nelle stesse ambizioni fallite, nella varietà dei temi tentati non si ravvisasse il documento di una trasformazione del gusto ancora in atto per la sollecitazione di diverse esigenze e motivi, di una insoddisfazione per quella che era stata sino allora la poesia ricercata e acclamata e la consueta figura del poeta. Documento interessante per questo possono offrirci i molti, troppi versi del Rezzonico, che ascriveva sé stesso, come s'è veduto, alla scuola lombarda, e che tra il Frugoni e il Parini non raggiunge certo un suo autentico stile, ma di quando in quando attrae la nostra attenzione sulla sua pagina per la novità di un tema, per la sua curiosità di letterato, lettore di molti libri e viaggiatore per molti paesi, riuscendo forse a dare il meglio di sé non nei versi ma nella prosa del Giornale del viaggio d'Inghilterra, espressione adeguata di quelle tendenze artistiche che erano al fondo della sua lunga e svagata ricerca. Certo il suo dilettantismo di giovane signore ci è più simpatico della boria del suo rivale, il frugoniano ribelle Mazza, chiuso così nei confini della sua terra, da cui mai non uscì, come nella parte che si era assunta di solenne poeta dell'armonia, sempre compreso della sublimità e della difficoltà del soggetto del suo poetare e ambizioso di modi fuori del comune conformi a sì alta ispirazione. Di qui la tensione retorica di tanti suoi componimenti, di qui non poche forzature lessicali («l'anima armonizzata in paradiso», «Il cantor trace che assiso / su la poppa musicò», «Ha colmo il sen tornatile») ed esperimenti metrici di gusto più che dubbio, come gli sdruccioli (di cui menò vanto) delle cinquanta ottave al Cesarotti, e l'affidarsi a moduli troppo scoperti, come nel celebre sonetto Tutto l'orbe è armonia, e in contrasto con l'altezza di tono e la rarità dell'espressione, a cui costantemente mirava, certe rovinose cadute che basterebbero a renderci palese la vacuità dell'opera sua, come quei due versi con cui egli osa iniziare il discorso di un sonetto: «Quand'io rincorro col pensier le andate / e le presenti qualità del ballo ...». Così nel «poeta dell'armonia» quel che ci colpisce è il venir meno della misura, quella misura cara al buon gusto settecentesco, nella ricerca di novità contenutistiche e formali: anzi di tanto lavoro non rimane in noi una sola verace impressione di quella musica così insistentemente celebrata e nemmeno l'idea dell'armonia di cui egli fu, come ben disse il Calcaterra, non il poeta ma il retore, e che del resto anche come puro concetto, accolto dal pensiero del secolo, restò in lui pigro e sterile, non mai veramente pensato o sentito, bensì soltanto il ricordo del suo travaglio stilistico, che può essere di un certo interesse per chi consideri il linguaggio poetico di quest'età di transizione. E se evidente è col fondamentale velleitarismo di tutta l'opera la staticità della mente del Mazza, ferma nonostante le varie letture e traduzioni di poeti inglesi nella medesima idea o pseudoidea, incapace anche a trovare accenti più schietti, quando discende dal suo cielo platonico ai temi della solita sensualità delle poesie nuziali, Il Talamo e La notte (fra le più infelici del genere nella loro pretenziosità), ostinatamente chiusa in mezzo a tante vicende ad ogni novità (significativa è la dispettosa negazione della «uguaglianza civile» nell'ode di quel titolo, fra le più contorte e stilisticamente faticose), si può qua e là cogliere in qualche momento di riposo dalla solita tensione un discorso finalmente più disteso e meno enfatico, il sonetto, ad esempio, A Santa Cecilia «Dopo le tante vigilate e sparte», in cui tralascia il consueto tono celebrativo per una più sommessa preghiera e che è certo anche retoricamente una delle poche cose sue ben condotte, oltreché uno dei rarissimi accenti di intimità della sua poesia, o qualche passo della traduzione del Parnell, che il Binni giustamente rileva ricordando l'efficacia che ebbe su lettori come il Monti, il Foscolo, il Leopardi: del tutto vano non era dunque stato tanto ingrato lavoro.
Tanto più eguale, sorvegliata, castigata la scrittura di Agostino Paradisi: doti tutte, se vogliamo, non poetiche ma retoriche, e difatti i componimenti del colto patrizio reggiano ci si presentano quale ne sia l'argomento non come poesie ispirate ma come discorsi ben condotti intorno ad un tema, in cui non è una sola frase, un solo epiteto, un solo verso stonato e che s'impongono appunto per quest'aura di decoro, come certi monumenti celebrativi che senza avere peculiare valore d'arte contribuiscono ad adornare decorosamente una piazza, una città. Ma qualcosa di più di queste doti, che per la loro estrinsecità possono talora far ritenere superflui, come li ritenne il Croce, certi suoi componimenti, è almeno in una delle sue poesie, le quartine A Minerva, che in un certo senso vengono a concludere il suo lavoro di letterato e di studioso e a rendere esplicito l'abito di pensosità e di equilibrio che era, sentiamo, al di sotto del suo attento esercizio formale. Nel metro ripreso dal Testi egli trova la forma appropriata a quella poesia discorsiva e confidenziale, più d'una volta vagheggiata durante il secolo nelle epistole in versi sciolti, riuscendo a contemperare l'abbandono del discorso con la misura delle strofe e delle rime e a rinnovare così liberamente, senza pedissequa imitazione, modi di Orazio, mentre come l'antico poeta nella prima delle Epistole.si congeda dalla poesia per volgersi agli studi della sapienza. «Soavi studi, vane cure e lievi / fur già dolce pensier de' miei prim'anni...». La poesia diventa una cosa sola con la professione della saggezza: il classicismo non è tanto in questa o quella imitazione, del resto non ostentata, da Orazio, ma anche da Lucrezio, quanto nell'equilibrio sia formale che intimo, nella corrispondenza fra un ideale di vita e i modi in cui si vien formulando. E meglio che negli altri versi del Paradisi si rispecchia il gusto profondo della età illuministica in questa celebrazione del saggio, degli studi della natura, dei severi sentimenti che essi infondono. «Fugge l'error, fuggono i dubbi: il mondo / al guardo, che ne spia l'ultimo vallo, / per infinito pelago profondo / apre l'immensurabile intervallo. / Oltre le vie degli astri in ardua sede / immutabile immota appar natura ...» «Senza nubi ivi sempre il dì si mira; / splende il liquido ciel d'aureo sereno, / illimitato e libero s'aggira / lo sguardo e tutto scopre al tutto in seno».
Anche del Cerretti, da lui così diverso per abito di vita e così diverso da se stesso tanto nelle vicende dell'esistenza quanto nelle svariate prove d'arte, con le quali si accostò a questo e a quell'esemplare, a questa e a quella maniera, frugoneggiando e savioleggiando, sollevandosi sui coturni neoclassici e affrontando temi di preromantica passione o di settecentesca lascivia con effetti di contrasto, finemente rilevati da Attilio Momigliano, tra un fondo grezzo e prosaico e una ricercata eleganza formale, e del quale tenga per il lettore luogo di un'analisi più particolareggiata la scelta di questo volume (o quella di Giosuè Carducci), ricordiamo come non diciamo capolavori ma componimenti più equilibrati e significativi le epistole in quartine La filosofia morale, La felicità, A monsignor d'Este, in cui raggiunge i suoi risultati migliori la sua lunga milizia classicistica e in special modo oraziana: anch'essi sia pur privi degli accenti più profondi del Paradisi, omaggio a quell'ideale di poesia-saggezza, di misura poetica e misura umana che, quali ne fossero gli esiti d'arte, quale la rispondenza nella vita pratica, era sulla cima dei pensieri di letterati e lettori dell'oraziano Settecento.
Ma nessuno di essi si adeguò a quella forma d'arte e a quella figura di poeta con una nota sua personale come il Cassoli, autore di non molti versi, che poco egli curò di far conoscere, scritti veramente per se stesso nell'età della poesia di parata o di società o da salotto, il più originale dei lirici di questa scuola, a dire del Carducci, che di lui scrisse: «Rado, credo, o non mai, nel secolo XVIII fu meglio compartecipato e interpretato l'intimo sentimento del vero Orazio, quel malinconico e gentile epicureismo di alcune insuperabili odi e delle epistole». Di fatto, fra tanta ostentazione di imitazioni oraziane, che così di frequente s'incontrano nella letteratura del tempo (basti ricordare ancora il Cerretti o il Fantoni), il Cassoli, che Orazio aveva tradotto, non ne imita di frequente singoli passi, o, come nelle quartine All'amico filosofo e poeta, dissolve l'imitazione di un'ode oraziana in una parafrasi che diventa cosa sua e da quell'intimo spirito che il Carducci definisce come proprio di Orazio ma che è ben del poeta nostro prima che del venosino, trae, a tacer d'altro, l'ode Alla lucerna, in cui nulla è del poeta maestro, un vero e proprio mito, vorremmo dire, della sua poesia, una tenue e pur autentica poesia che traluce attraverso la raffinata letteratura sua e del suo tempo: «... l'esil fiammella / che lingueggiando move / da te, mia fida ancella, / lucerna, e dolce piove / del cor nel più secreto / il suo chiaror quieto». Pensiamo a qualche lirica del Tommaseo, in cui è con una contenuta commozione un simile gusto della precisa definizione di un'immagine, di uno stato d'animo, di una disposizione morale, e per vero l'ode non stonerebbe tra le poesie del dalmata: ma per l'opera sua tutta e più particolarmente per La solitudine il Cassoli ci richiama a una determinata temperie di gusto del secolo suo, a quella che ha trovato forse la più compiuta espressione nell'Elegia scritta in un cimitero campestre, ammiratissima pure presso di noi e più di una volta tradotta. Non che si possa parlare di derivazione o imitazione, ma bene avvertiamo nei due componimenti, fatte le debite differenze, una medesima compenetrazione di spirito classico e di nuova melanconia o, per citare un verso cassoliano, del «patetico creator pensiero». Nel quadro oraziano e in un discorso che qua e là si appoggia a modi e luoghi del poeta antico, s'insinua un'esperienza sentimentale non riconducibile nel mondo dei Carmi e delle Epistole. la solitudine celebrata non è tanto quella del savio antico, che basta a se stesso, non mai solo quando è in compagnia di se medesimo, quanto quella di un animo sensibile, di un promeneur solitane, a cui si offrono in una continua successione spettacoli della varia natura e oggetti di meditazione, e la poesia ci attrae appunto per qualcuno di quei quadri, in cui non mancano note fresche e colte sul vivo, e per il fluire di questa abbandonata rievocazione. Siamo sulla via delle Prose campestri del Pindemonte e più ancora di certe pagine dell' Ortis. Se nonostante la vigile cura permane qua e là nell'opera del Cassoli qualche impaccio o incertezza d'espressione, che non nuoce però al tutto, anzi non spiace come segno dell'interiorità di un discorso che non mira ad un pubblico, essa ci sta innanzi come uno degli approdi di questa storia per la felice risoluzione che in lei si compie senza dissonanze e asperità di alcuni spunti della nuova sentimentalità filtrata in un animo ritroso e schivo, nel fondamentale classicismo d'impronta oraziana.
Grezzi invece sornuotano e cozzano l'un contro l'altro gli elementi onde si compone la cultura del Fantoni, non solo per le diverse maniere a cui di volta in volta si volge dalle Notti di un tetro younghismo agli idilli gessneriani, agli sciolti tra frugoniani e cesarottiani, alle odi a cui è più particolarmente legato il suo nome, ma nei singoli componimenti e in particolar modo in quelle odi che ben di rado o non mai, nonostante l'assunto di un più rigido orazianismo, raggiungono un'unità di stile e continuità di discorso. «Singoiar mescolanza di Grecia, Scozia e assemblea costituente, di Orazio e di Ossian con Rousseau e con Franklin»: così il Carducci commentando l'ode del 1791 a Bartolomeo Boccardi, ma una simile mescolanza salta agli occhi in tutte le cose di Labindo, e appunto ci colpisce perché da quella varia cultura e quella varia esperienza non è risultato uno stile nuovo e coerente. E sembrato a Gerolamo Lazzeri, un patito del Fantoni, che il Carducci nelle pagine sul poeta di Fivizzano non sapesse dare un vero e proprio giudizio sulla sua poesia, né agevolarne l'intendimento (del resto per lui la scelta data dal Carducci nel volume dei Lirici è la migliore possibile e già di per se stessa un avviamento al giudizio), e che i tre studi dedicati al Fantoni offrano anziché una critica della poesia fantoniana dei dati biografici e delle considerazioni metriche: null'altro dunque dovrebbe fare un critico del Fantoni che seguire le vicende di una vita avventurosa e discutere i tentativi di metrica barbara ? Veramente il Lazzeri stesso quel giudizio che invano cerca nel Carducci, non dà né nell'articolo Carducci e Fantoni né altrove, e quali siano i pregi e i limiti della critica carducciana, sta di fatto che del Fantoni uno studioso non può discorrere diversamente dal Carducci, ossia perseguire l'indagine di una vita per tanti motivi degna d'interesse e rivolgere sopra tutto l'attenzione al proposito di rendere con maggiore aderenza nel mondo moderno l'antica poesia oraziana. Abbiamo il giovane scapestrato, abbiamo il seguace della rivoluzione a cui attivamente partecipa svolgendo anche importanti missioni, e abbiamo il poeta nei cui versi si riflettono anche le sue idee e aspirazioni; ma questi aspetti della sua personalità stanno per così dire a sé e l'opera poetica non ne rappresenta, come dovrebbe, la più intima essenza. Fra le avventure della sua vita la poesia è un'altra avventura e come tale va considerata, serbando sempre alcunché di sperimentale e provvisorio. Si è particolarmente lodata per gli spiriti patrii e la novità d'accenti l'ode All’Italia del '97, ma questa stessa poesia svela per più parti l'ambizione di rifare luoghi oraziani (della vi ode del III libro), che qui stanno come cosa d'accatto, sicché l'ode scritta in un tal momento dal poeta giacobino si rivela cosa letteraria e letterariamente composita. «La verginella dal materno esempio / lascivia apprende, e, all'oro e al lusso dedita, / dal mal chiuso balcone o in mezzo al tempio / notturni furti, sogghignando, medita. // S'appressa all'ara e, mal trascorso un anno, / arde non sazia di desio colpevole, / e il nostro disonor compra il Britanno, / mentre dorme lo sposo consapevole». Se poi cerca un linguaggio più consono al momento in cui vive, con quell'Inno del Battaglione della Speranza, per cui fu detto il Roger de Lisle della nostra infanzia e che fu persino considerato la sua poesia più ispirata, scade al di sotto di ogni letteratura e si sottrae ovviamente ad un giudizio estetico. «Noi siamo piccoli / ma cresceremo, / e pugneremo / pel patrio suol. / Viva la terra / che Dio ci die! / Guerra, sì, guerra / straniero, a te!».
In realtà quel che del Fantoni colpì i lettori contemporanei e merita ancor oggi la nostra attenzione è il suo tentativo di metrica barbara, non nuovo dopo il Chiabrera e il Rolli, ma vistoso per la sua ampiezza e sistematicità, per la sua insistita aderenza oltre che ai metri ai temi oraziani: il resto, che non è poco, dell'opera sua, come gli Scherzi erotici che si affidano alle facili lusinghe di temi vieti più che alla parola misurata dell'arte, oltre agli altri componimenti a cui sopra si è alluso, possono essere lasciati in disparte anche in un discorso meno sommario del nostro, che mira a tracciare alcune linee essenziali della lirica settecentesca. Né sembri strano che ancora una volta in un secolo, nel quale così debolmente si fece sentire la voce della più alta poesia e in cui per contro vennero a prendere rilievo particolare gli elementi retorici e letterari del discorso poetico, e in primo luogo le forme metriche, un'opera abbia acquistato singolare risonanza per la riforma metrica che con essa si compieva e che sembra esserne la ragione prima se non esclusiva. L'ispirazione, se così possiamo chiamarla, che è al fondo delle odi fantoniane è un desiderio vano (ahi quanto vano) della bellezza antica, una bellezza che viene a identificarsi con alcuni moduli determinati, con temi fissi e puri schemi metrici. Manca, per citare ancora il Carducci, il sacro tremore che è la poesia segreta delle barbare carducciane: nessun tremito, nessuna accorata nostalgia per un passato irrevocabile nel Fantoni, il cui lavoro ha tanto spesso per risultato dei veri e propri calchi. Diremmo piuttosto che il Fantoni miri, quasi polemizzando con gli oraziani del tempo suo, a un contatto più diretto col poeta antico, a trasportarlo quasi di forza nel mondo contemporaneo nella sua interezza, vale a dire coi suoi giri di frase e i suoi ritmi, e insieme a renderlo vivo ed attuale. Di qui da una parte il distacco dai metri consueti per rendere nei versi italiani l'eco dei metri antichi, di qui dall'altra i molti nomi moderni e stranieri che tengon luogo del Cantabro e dello Scita, del Medo e del Daco, dell'Arabo e dell'Indo e del Sicambro e di tutti i nomi esotici di cui è bellamente trapunto il tessuto del latino oraziano. Se ne compiace il Fantoni riversandoli anche senza misura e mettendoli in rilievo nei suoi versi: «Cadde Minorca; di Crillon la sorte ...»; «Washington copre dai materni sdegni / l'americana libertà nascente; / di Rodney al nome tace il mar fremente...»; «Hyder sen fugge; sui trofei britanni / siede Coote ...»;«Rodney vincesti... funesto augurio di Boston ai figli»; «Sorgi, Laware, sovra l'urna ...»; «Franklin, tuo figlio, che di ferro armato / rapì dal cielo i fulmini stridenti»; «Nassau, di forti prole magnanima» ; «Cadde Vergennes ; del germano impero / l'eroe vecchiezza nella tomba spinse», e infine per por termine a questo saggio di citazioni, ben tre nomi propri inglesi in un solo verso italiano, nella chiusa di un componimento: «Scriver la fama del britanno orgoglio / Rodney, Elliot ed Howe». Una bazza per chi sulle orme del De Lollis si desse a studiare il linguaggio poetico del Fantoni! Ma è da chiedere se le così frequenti allusioni a uomini e fatti della politica contemporanea attestino l'«impegno» del Fantoni o non piuttosto una ricerca retorica troppo scoperta, ed è pure da osservare come questo strenuo e rigido classicismo secondi la tendenza, non certo classica, del Fantoni a frangere il discorso in proposizioni giustapposte, sino a fare di queste strofe classiche uno strumento di preromantica declamazione, come nel singhiozzante Vaticinio, tutto frasi rotte e sconnesse, che simulano l'empito dell'ispirazione. Forse meglio egli riesce là dove senza le solite asperità e fratture ormeggia più da vicino l'originale, come nell'ode Ozio agli dei chiede il nocchier per l'onde, anche se, come appare dallo stesso primo verso e dalla chiusa («lo spirto tenue del latino stile / a me la Parca consegnò benigna, / ed insegnommi a disprezzar la vile / turba maligna»), il suo Orazio trasportato di forza nell'italiano troppo perda del suo intimo spirito: certo il Fantoni non è il Parini, il quale, non immemore anche di lui, quella chiusa convertiva nelle parole che sono come un suggello personale dell'ode Alla Musa.
Resta del Fantoni, sia pure illanguidita nell'animo dei posteri, l'impressione di novità, derivante da quella sorta di violenza esercitata sulla materia verbale e poetica, nello stesso accostamento del mondo antico al presente: potè allora taluno illudersi e scambiare quelle nuove frasi per parole durature di poesia, come l'Alfieri il quale forse non soltanto per complimento gli scrisse: «Le odi sue si bramerebbero da tutti gli amatori di poesia stampate nell'oro»; ma non ne era persuaso il Foscolo, urtato da così scoperto incontro di antico e di moderno, alieno dal gusto suo per il quale l'antica poesia, i miti e gli stessi ritmi eran richiamati allusivamente dalle sue nuove parole (basti pensare alla clausola dell'esametro, che egli fa sentire nei suoi tipici accenti derivanti dall'incontro di sesta e settima che dilatano «il nostro misero semiverso»), e si dichiarava contrario in un articolo da lui ispirato, se non da lui scritto, a ogni esperimento del genere di quelli del Fantoni («barbari si dovrebbono a ragione chiamare coloro che a dispetto della natura volessero ridurre la lingua italiana in esametri»); e se ne liberava parecchi anni dopo il Manzoni con un motto arguto: «Molto rumore per nulla». Ma chi pose la questione nei suoi retti termini fu sin dal 1824 Giuseppe Montani sulla «Antologia», con un raffronto tra Orazio e il Fantoni, dimostrando quanto lontani per spirito fossero i due poeti («La finezza oraziana, l'atticismo del pensiero e della parola è appunto quel che meno si trova nelle poesie di Labindo, più focoso che accurato, più vivace che leggiadro») e come necessariamente l'opera soffrisse di un contrasto che era nel suo fondo, e rilevando anche la tendenza fantoniana ad una chiusa ad effetto, indizio della persistente efficacia dello «spirito» pur in questo estremo portato d'Arcadia. Lo studio potrebbe essere ripreso con criteri più moderni: ma il posto del Fantoni è qui, fra gli imitatori e i traduttori d'Orazio, singolare esempio di un singolare orazianesimo tra il Settecento epicureo e l'età della rivoluzione.
È possibile del resto, non per il Fantoni soltanto, che segna una punta estrema del neoclassicismo settecentesco, tracciare un netto confine fra poesie originali, o che tali si pretendono, e imitazioni, parafrasi, traduzioni? Se una tale delimitazione è difficile sempre, particolarmente difficile riesce per una poesia prevalentemente se non esclusivamente letteraria, com'è quella di tutto il Settecento, la cui storia dev'essere per gran parte una storia di ricerche espressive, per le quali si vanno rielaborando motivi, temi, ritmi ripresi da altra letteratura, e assimilandoli più o meno felicemente in un discorso a cui si rifaranno poeti e letterati di altro tempo e di altra tempra. Per questo le traduzioni hanno nel Settecento una particolare importanza e spesso importanza non minore di opere originali: così nel secondo Settecento nessuno dei tentativi, infelici tutti, del gusto preromantico può competere con la traduzione cesarottiana dell'Ossian, che di quel gusto è l'espressione più compiuta e che tanta efficacia ebbe sulla maggiore poesia italiana dell'ultimo Settecento e del primo Ottocento; né discorrendo del neoclassicismo si posson trascurare i traduttori che più d'una volta raggiungono risultati espressivi ai quali indarno mirarono più ambiziosi poeti. Certo anche per essi dobbiamo ricordare quel ritorno ai classici di cui l'Arcadia si era fatta banditrice e che fin dai primi decenni del secolo si manifesta anche con nuove traduzioni dall'antico, più conformi al mutato gusto e più aderenti, nelle intenzioni almeno, allo spirito di quelle opere. E con quelle traduzioni van ricordate le discussioni che da allora in poi per tutto il secolo si susseguirono intorno al tradurre in genere e a traduzioni in ispecie di questa o quell'opera: particolarmente significative le considerazioni dell'Algarotti sul Caro traduttore dell'Eneide, che ne rilevano il gusto prebarocco condannandolo in nome di un più severo classicismo. S'informano già a un tale ideale d'arte nel tempo della prima Arcadia i versi del Femia martelliano, che bellamente inseriscono in quel pastiche parodistico l'episodio delle Georgiche della discesa agli Inferi di Orfeo («Da le sedi de l'Èrebo commosse / l'ombre tenui venir vedransi a guisa / d'ampio stormo d'augei che da la sera / o dal nembo invernai ricovri ai boschi ...»); o le versioni di Antonio Conti, del callimacheo Inno a Paìlade ad esempio, meritevole di esser ricordato per qualche passo almeno che non resterà senza eco nella poesia foscoliana, o della Vi egloga di Virgilio, di cui valgano come saggio questi versi, che ben rendono, senza discostarsi dal testo, il motivo dell'originale, quel lento stupito animarsi del nascente universo.
Come stupiro, al lampeggiar del sole nuove le terre, e scesero le piogge da l'alto, e dileguaronsi le nubi; come le selve sorsero ed i rari animali vagar pe' monti ignoti.
Ma più coerente e fruttuoso il lavoro dei traduttori che nel clima neoclassico trovarono stimolo e alimento all'opera loro, così intimamente connessa con le contemporanee espressioni d'arte, tutte compenetrate della lezione dei classici. Così fra il Mattino e il Mezzogiorno pariniano (si pensi alla geniale rievocazione virgiliana di un luogo come «la regina ... da' begli occhi stranieri iva beendo / l'oblivion del misero Sicheo») e le sottili variazioni di un componimento come La solitudine del Cassoli, per tacere di risultati frammentari di qualche strofe del Fantoni, si inserisce il lungo e amoroso lavoro di un Pagnini, che come altri italiani dai latini e attraverso i latini tenta di rifarsi ai greci e rendere qualcosa della loro bellezza nella lingua nostra vagheggiandola in un discorso libero dalle ultime frasche barocche e da cadenze metastasiane. E merito del Binni aver mostrato qual parte queste traduzioni tengano nella storia della poesia italiana fra l'Arcadia musicale e il sogno neoclassico preannunciando per qualche accento la poesia del Foscolo, che non indarno su questi traduttori e in particolar modo sul Pagnini, da lui ammirato, meditò per raggiungere al di là di essi, al di là della poesia letteraria settecentesca la purezza assoluta del suo mondo poetico. E il Binni ancora nota a ragione come il Pagnini non fosse attratto dalla più solenne epopea a cui si rivolsero altri traduttori neoclassici, ma scegliesse, e questo pare a noi un segno della sua consapevolezza d'artista, soltanto autori a lui più congeniali, e più precisamente quei bucolici intorno a cui lavorò per più di vent'anni: potremmo anche aggiungere che di quegli autori stessi assai meno bene egli rese gli accenti più fortemente appassionati, come quelli della Fattura di Teocrito, una delle cose sue meno felici, che non le note idilliche o affettuose, che sembrano essere a lui appropriate, sicché per questi suoi bucolici il poeta traduttore si viene a collocare nell'ultima, più intima e raffinata Arcadia, accanto a un Cassoli, a un Meli, a un Pindemonte. Dalla lettura del velleitario e contorto Mazza che accanto a lui visse e lavorò, ci riposano passi come questi del più modesto Pagnini, che poco di suo e di scarso valore compose e preferì, diremmo, nascondersi dietro i suoi autori, i versi delle Talisie, ad esempio:
Ivi su letti ben cedenti al basso di molle giunco e pampani ben freschi festosi ci adagiammo; e a noi sul capo scotean lor rami i folti pioppi e gli olmi. E colà presso fuor d'un antro uscìa mormorando un ruscel sacro alle ninfe; sui frondosi arboscelli le cicale innamorate del calore estivo faticavan nel canto, e la calandra stridea da lunge fra spinose macchie;
o
A piombo ei ruinò nelle fosc'acque, siccome quando una raggiante stella striscia dal ciel precipitando in mare.
o la raffigurazione gentile del risveglio d'Europa e del turbamento di lei rapita: «Ella affannata e palpitante il core / balzò dal letto ... / ... in traccia corse / delle dolci compagne»; «... al ballo / si disponeva ; o quando s'abbellia / alle correnti dell'Anauro, o quando / cogliea dal prato gli odorosi gigli»; «Ella rivolta / la faccia e le man tese, alto chiamava / le care amiche ...».
Da questi antichi bucolici, Teocrito, Mosco, Bione, Virgilio, non va disgiunto il Pope, di cui il Pagnini tradusse le egloghe Le quattro stagioni, pubblicandone la traduzione nello stesso anno dei Bucolici - una fra le molte versioni che si ebbero di quei poeti inglesi, dal Pope al Gray, i quali non appartenevano a un mondo culturale diverso dal nostro, ma il cui fondamentale classicismo aveva saputo accogliere e risolvere in sé più che non accadesse in Italia spunti, temi, fermenti nuovi, assumendo in un discorso classicamente condotto note di moderna leggiadria o di moderna malinconia. Ecco un Virgilio sfumato in un acquerello inglese:
Quand'ei dolce lagnavasi, i ruscelli obbliavano il corso, un muto duolo spiravano le mandre, entro le ondose cave piagnean le Ninfe, e Giove accordo teneva ai pianti lor con cheta pioggia;
ecco in altri versi della medesima traduzione un presentimento, ma quanto lontano, delle Grazie:
Ma ve' là dove Dafne oltre le nubi e lo stellante cielo in alto poggia maravigliando. Di bellezze eterne ride il soggiorno alto lucente; i campi son sempre freschi, e sempre verdi i prati.
Anche alle Grazie del Foscolo ci rinviano questi versi della più tarda traduzione del catulliano Epitalamio di Peleo e Teti (come di quelli di Callimaco su Tiresia):
Che le Nereidi, fieri volti, uscirò
dal bianco golfo, il gran mostro ammiranti.
E in quel dì, né mai più, vide occhio umano
ninfe marine con le membra ignude fuor de' candidi gorghi infino al petto;
e in un caso e nell'altro ci è dato avvertire nella identità delle situazioni e della stessa materia verbale e di certo giro di frasi la distanza infinita della poesia riflessa del traduttore e degli stessi originali da quella possente che alimentata da tutta una nuova esperienza con un colpo d'ala si leva su quelle immagini e quelle voci da cui ha preso le mosse.
Ma è pur qui, come ha veduto il Binni, uno dei precedenti della poesia del Foscolo, il quale fra questi traduttori neoclassici vagheggiò anch'egli, sappiamo, una traduzione sua di Omero, senza mai come quei letterati più modesti raggiungere il compito prefissosi, poiché nella poesia vergine, primitiva idoleggiava al di là di quella omerica, come degli altri poeti studiati, la poesia sua propria: ed è pur qui, nelle traduzioni che ci han lasciato i letterati formatisi in questo ambiente di gusto, uno degli approdi del neoclassicismo, un risultato positivo e duraturo, se per tanto tempo i poeti greci, i bucolici e l'Odissea e l'Iliade e i tragici abbiamo imparato a conoscere nelle versioni di questi traduttori. Tra i quali il Pagnini sopra tutto per il Teocrito ha una ben sua fisionomia.
Anche Luigi Lamberti andrebbe meglio che fra i poeti originali collocato fra i traduttori per quelle sue versioni dei poeti minori greci, che ebbero lode altissima dal Carducci. Certo quest'altro poeta della scuola lombarda, vissuto negli anni migliori a Roma, accanto ad archeologi ed ellenisti, perseguì un'idea sua di stile orazianamente difficile, alieno dall'enfasi come dall'abbandono di altri oraziani, in componimenti nei quali la lezione di Orazio e del Parini, oltreché dei suoi maestri modenesi, è per così dire raffrontata ai suoi greci: ne viene una costante ricerca di eleganza e di misura, un insistente richiamo nei nomi e negli epiteti a un'erudizione anche rara, un'impressione generale non di fastidio o di irritazione, come ci lasciano spesso un Mazza, un Cerretti, un Fantoni, bensì di freddezza, se pur qua e là si rileva non dico un'immagine ma una linea, un profilo di verso o di frase, riflesso lontano della bellezza da lui ammirata e studiata negli antichi. In un componimento solo la consueta rigidezza si scioglie, e senza rinunciare del tutto alla severità del suo stile il Lamberti va tessendo una vaga fantasia tra petrarchesca e classica in strofette riprese dal Savioli e fatte più gravi per l'eliminazione degli sdruccioli e per l'andamento di tutto il discorso, un «alto madrigale», vorremmo dirlo col Momigliano, che questa lirica, Il bagno, additò come uno degli esiti più felici e più originali del nostro neoclassicismo: voce solitaria, diremmo noi, di quel che di poetico era nel fondo all'animo dell'«uomo dottissimo».
O ripa in cerchio volta, ove le belle membra pone colei che tolta cosa dal ciel rassembra;
avventurosa fonte, che al desiato uffizio fuor del concavo monte versi l'umor propizio;
acque, che taciturne tepido velo e lieve fate alle spalle eburne e al pie d'intatta neve;
qual de' fiumi famosi, sia pur Partenio o Xanto, andrà si altero ch'osi a voi di porse accanto?
E il medesimo tono si continua nelle strofe seguenti, che cantano le acque avventurate, augurando che fatte vapore ricadano in pioggia nelle urne degli amorini e di là in conche d'alabastro, dove scendono a farsi più belle le divinità.
Intanto a suon di cetre l'accolto umor si verse entro a giro di pietre alabastrine e terse.
A voi scenderan l'alme dive dai sommi chiostri, né più daran lor salme ai fonti o ai fiumi nostri;
e, per virtù di quella che in voi sua luce ascose, di maestà novella emergeran fastose.
Tanto più agevole e piacevole riuscì la poesia al De Rossi, che non vi cercò singolare intensità di espressione e della sua cultura classica, letteraria e figurativa, soltanto si valse per atteggiare con un certo distacco ed entro linee precise ed eleganti i soliti temi della galanteria settecentesca, traendone quegli Scherzi poetici e pittorici, in cui ogni componimento è decorato da una vignetta da lui immaginata e delineata (e in questa associazione delle due arti è già un segno del suo gusto), e il cui carattere e limite son definiti, e bene, dallo stesso titolo: né sostanzialmente diverse sono le altre poesie, favole ed epigrammi. Vi si spiega l'arguzia e la grazia del suo vario ingegno, che ancor oggi dilettano chi non pretenda dall'autore più di quanto egli ha inteso darci e ci ha dato con tanto garbo e misura, in un momento di riposo dei suoi studi d'arte e dei suoi lavori teatrali.
Nemmeno al Vittorelli, che sulla fine del secolo riprende nelle fortunatissime Anacreontiche i modi dell'Arcadia musicale, si può dire sia stata estranea l'esperienza neoclassica, presente nei suoi versi non con immagini, voci, ritmi, bensì per il costante senso della misura, per «la convenienza mirabile delle parole e de' suoni» che «risponde alla elezione delle immagini, alla gentilezza naturale dei concetti lungi dallo stil tradizionale del Settecento», qualità che il Carducci riconosceva e ammirava nelle migliori sue canzonette. Diremmo che la vena melica dell'Arcadia, filtrata attraverso il greto neoclassico, zampilli tenue e pura nella breve fontanella di queste odicine. E ancora una volta dobbiamo in primo luogo rivolgere la nostra attenzione alla forma metrica, poiché ad essa prima che a un determinato contenuto si volse il poeta, il quale ebbe a ricordare come merito suo precipuo di «essere stato il primo a mettere in uso quelle piccole canzoncine». Non che il metro astrattamente considerato sia nuovo, le doppie strofette di settenari piani uniti dalla rima tronca finale riprenderebbero il metro della Libertà metastasiana se il primo verso non rimato della quartina non conferisse alla strofe una maggiore lentezza e autonomia e desse a un tempo un più gran peso alla rima tronca, unico legame delle due strofe: la novità del Vittorelli consiste, oltre questa differenza piccola ma importante, nell'aver fissato in quattro strofette la misura del componimento, chiudendo entro quel quadro fisso un pensiero, un'immagine, un sospiro. Talora la rima tronca si ripete in tutte quattro le strofe: più spesso il Vittorelli preferisce per le due ultime una rima diversa, così che il componimento sembra scandersi, se ci son permessi termini tanto solenni, in una strofe e in una antistrofe, una domanda e una risposta; meglio per tal via esso si adegua a quel che ne è l'intima sostanza, una canzonetta certo pronta ad essere musicata, ma ad un tempo un epigramma, e veri e propri epigrammi, in cui è conchiusa e stilizzata all'estremo una scena della commedia dell'amore, sono tutte le Anacreontiche del poeta bassanese.
Del quale fu detto che «visse e morì poeta di Irene e di Dori» (Carrer): di fatto tra le Nici e le Filli della poesia settecentesca Irene e Dori sono più che non tante altre loro consorelle figure evanescenti, e non già quelle donne e il suo amore per esse il Vittorelli sembra aver cantato, quanto, come ha ben visto il Fiora, la linea melodica da lui trovata e vagheggiata. Tanto più semplice ci appare la sua poesia rispetto a quella dei suoi predecessori: nessun interesse in lui per i vari aspetti del vivere sociale, le usanze e le mode, che tengono una parte così notevole nell'arte del secolo; nessuna fresca e originale impressione della natura, e neppure attenzione ai vari moti dell'animo. Al confronto non solo il Metastasio, ma lo Zappi e il Rolli sembrano poeti assai meno elementari, ricchi come sono di un contenuto più variato e attraente per qualche novità psicologica o pittoresca. E come invano si cercherebbero nell'opera sua tanti motivi più o meno genuini della melica settecentesca, gli spunti e gli sviluppi maliziosi o gnomici, quadretti di colore o di costume, così tutta quella varia esperienza musicale spinta sino al virtuosismo si riduce in lui a un semplicissimo gioco di rime piane e tronche, mentre la sintassi giunge all'estremo della semplificazione e la lingua ad una chiarezza cristallina, non turbata da nessuna ricerca di novità lessicale. Per tal via di quella letteratura per eccellenza riflessa che è l'Arcadia egli viene a darci per così dire il riflesso, quasi l'Arcadia ritrovata nell'anima sua, vagheggiata dentro di sé in quella sua diletta melodia: ché se un contenuto cerchiamo delle sue «canzoncine» altro contenuto non troveremmo se non l'Arcadia stessa, che ne è il precedente e l'ispirazione, e vive nei suoi versi soltanto per l'affetto con cui egli si volge a quelle vaghe immaginazioni, a quella blanda musica, meglio sensibile in qualcuno dei suoi esordi più felici: «Guarda che bianca luna! / guarda che notte azzurra! ...»; «Zitto. La bella Irene / schiude le labbra al canto ...»; «Non t'accostare a l'urna / che il cener mio rinserra ...». Per questo egli ha consegnato ai posteri l'immagine tipica dell'Arcadia, la quintessenza quasi o la sua idea, e in quei versi, raffinati insieme e popolari, poeti dell'Ottocento come il Carducci trovarono un ritmo e una misura a tutt'altre passioni.
Che vi era per il Vittorelli al di fuori di quella sua piccola scoperta, di quel suo amore letterario? Qualcuna delle stesse Anacreontiche ad Irene suona a vuoto, affidandosi il poeta soltanto all'estrinseco effetto del metro: sempre esse tutte han qualcosa di fermo e di conchiuso, quasi un pensiero che si esaurisce appena enunciato, senza farci presentire un al di là dalla nuda parola, dalla frase lineare. Quando poi il poeta tenta, grande ardimento!, di uscire dalla misura che è sua, come nelle Anacreontiche a Dori, non soltanto per la maggiore ampiezza del componimento, ma talora anche per la replicazione della medesima rima tronca in tutte le strofette, riesce inferiore a se stesso, tranne che nella graziosissima A Dori che prende le acque di Recoaro, in cui quel gioco di rime è una cosa sola con la fantasia degli Amorini aleggianti intorno alla donna: anche questa, una sorta di compendio di tante immaginazioni pittoriche e poetiche settecentesche. Se poi in altre canzonette si propone di svolgere diversi e nuovi temi, cade, per citare un solo esempio, nel bamboleggiamento dei consigli igienici-pedagogici de La nutrice: «... Quella man che dee fasciarlo, / sia perita e sia guardinga; / lo avviluppi e non lo stringa, / ché sarebbe crudeltà. Il Mesto allora il polmoncello / si dilata e s'apre a stento, / e il purissimo alimento / chilo impuro allor si fa ...». Tanto ristretta era la cerchia nonché della quale si sia sua poesia, dei suoi interessi. Ne son riprova i due volumetti che ne raccolgono l'opera, nei quali, oltre alle Anacreontiche che gli han dato la fama, sono mediocri componimenti, burleschi o descrittivi, o poesie per varie occasioni, non diverse da quelle con cui letterati d'altri tempi occupavano i loro ozi, e mancan del tutto scritti in prosa intorno alla poesia, all'arte o ad altri argomenti - assenza tanto più significativa in un'età in cui all'attività poetica si accompagnò nei maggiori e nei minori l'esercizio della critica e la ricerca erudita, agli studi puramente letterari una vivace curiosità per uomini e cose. Ma una parola meritano i sonetti, che più d'ogni altra cosa sua ci dicono dei suoi affetti, del suo vivere raccolto di gentiluomo e di uomo pio, contento del suo piccolo ristretto mondo, estraneo ai grandi contrasti di forze e di idee del tempo suo (meno che mediocre è il sonetto enfatico e truculento sulla decapitazione di Luigi XVI) ; anche se la maggior parte almeno non si distinguono per altre doti espressive che per una abile condotta della frase e non van perciò annoverati, come da taluno fu detto, fra le cose belle sue, superiori forse alle Anacreontiche. Si rileva però qua e là qualcosa di più molle, affettuoso, intimo anche nel linguaggio che par preludere a certa minore poesia dell'Ottocento, come l'inizio di un sonetto a Ippolito Pindemonte: «Tremola acquetta e verdeggianti zolle, / sparse di qualche fior bianco e turchino», o qualche accento di quello sulla sua Bassano («Quante grazie ti rendo, amico Nume, / che pietoso segnasti al mio natale / questo ciel, questa gente, e questo fiume!»), o il sonetto a Sirmione, o il tono familiare e domestico di questo esordio e del sonetto tutto, che si chiude senza stacco con un accenno alla Madonna, a cui il poeta indirizza il suo canto: «Mordi pur quanto vuoi, crudo Gennaio; / dal tepido abituro io no, non esco, / e fra i volumi che mi stan sul desco, / raddoppierò, se fie mestieri, il saio. Il Oh felici que' giorni, in cui mi sdraio ...». Ma su tutti si leva come cosa ispirata almeno nelle quartine quel sonetto a Maria Vergine, che il Carducci ricordò con ammirazione:
Io t'amo, e il giuro per que' tuoi sì begli di tortora idumea purissim'occhi, i quai mi stan dinanzi, o che si svegli, o che nell'onda esperia il sol trabocchi.
Oh! fossi un angel tuo, fossi un di quegli, che coli'ondoso manto inombri e tocchi, o destini a velare i tuoi capegli lucidi più che della lana i fiocchi.
Perché mi lasci in queste abbiette parti, ove ognor ti sacrai l'alma e l'ingegno, né il tuo bel paradiso a me comparti?
Che se rompi i miei lacci, e teco io vegno, vedrai quant'amo, e quanto al grande amarti era giusta mercé d'amore il regno.
Commenta il Carducci: «Vi si sente scorrer per entro il fremito dei sensi dell'amante molto più che in tutte le anacreontiche ad Irene»: certo qui, in questo solitario momento di poesia, il Vittorelli ha superato per pienezza di affetto in più ampio giro di versi la stilizzazione delle sue canzoncine, attingendo a quel fondo di tenerezza da cui son scaturiti così questi versi di mistico erotismo come quelle graziosissime cosucce.
Se il Vittorelli, nato nello stesso anno di Vittorio Alfieri e morto due anni prima del Leopardi, sembra vivere in un mondo senza storia e la sua poesia può apparire anacronistica o tardiva, in realtà proprio per quel suo rifarsi al mondo arcadico e rinchiudersi in esso, egli non era solo nel tempo suo. A quest'ultima Arcadia, di cui abbiamo avvertito la voce nelle sue Anacreontiche. appartengono infatti anche altri poeti, nei quali quel che in lui è nostalgia inconsapevole, si fa esplicito e disteso. È un'Arcadia questa, ritrovata non senza suggestioni russoviane nell'intimo dell'anima loro sulla fine del secolo, quando fra tanto mutare di gusti, di passioni, di eventi l'idillio arcadico parve acquistare nuovo fascino, anzi nuova vita. Sono di uno di quei poeti, il Bertola, queste parole: «Ho desiderato più volte che esistesse un libretto poetico italiano, il quale servisse come di un codice portatile per gli amici della campagna; ricopiandola tal quale è, senza il vecchio cirimoniale d'Arcadia». Quest'Arcadia appunto «senza il vecchio cirimoniale», un'Arcadia più intima ma non ignara delle forme e dei modi degli arcadi primi, ci è offerta da questi poeti dell'ultimo scorcio del secolo, i quali non sdegnano di accogliere con l'idillio di un mondo in sé compiuto e conchiuso, di sentimenti eletti, di misurate passioni, sullo sfondo di una natura bella anche se in apparenza almeno selvatica e primitiva, taluno dei modi musicali che a quell'idillio sembravano connaturati: anzi l'Arcadia tipica consegnata nella nostra memoria è proprio quella di questi poeti, che nell'ultimo Settecento la fissarono nelle loro strofette riecheggianti, e non per una passiva condiscendenza, la musica metastasiana: «Guarda che bianca luna! / guarda che notte azzurra! / Un'aura non sussurra, / non tremola uno stel»; «Addio, beato margine, / sacro per tanta età / all'aurea voluttà, / sacro alle Muse»; «Fonti e colline / chiesi agli dei: / m'udirò al fine, / pago io vivrò. // Né mai quel fonte / co' desir miei, / né mai quel monte / trapasserò»; «Sti silenzii, sta virdura, / sti muntagni, sti vallati / l'ha criatu la natura / pri li cori innamurati. Il Lu susurru di li frunni, / di lu ciumi lu lamentu, / l'aria, l'ecu chi rispunni, / tuttu spira sentimentu». Ed è di uno di essi, il Meli, la giustificazione e la celebrazione di quella poesia, negli agili versi di Lu viaggiti retrogradu, in cui s'immagina che il Genio suo ritrovi fra i grandi poeti dell'antichità il vero maestro nel suo Teocrito, il cantore della «simplici bella natura», lontano dalla quale invano credono gli uomini di trovare la felicità.
Dici, e incaminasi
pri oscuri vii
di Dafni all'epoca
cara a li Dii.
Lu trova in placida
silva tranquilla,
unn'acqua un vausu
limpida stilla;
cci penni tacita
sampugn'a latu;
un cani all'alitu
cci sta curcatu;
di attornu pascinu
vacchi infiniti,
l'echi ribumbanu
di li muggiti;
li prati ridinu
sutta li curi
e lu bon ordini
di li pasturi;
e intantu sedinu
dda spinsirati
Paci e Giustizia
sfritti abbrazzati.
Cca juntu fermasi
mio Geniu, e dici:
O grata imagini
di età felici!
S'in mia t'insinui
cu tali darmi
com'è possibili
da tia staccarmi?
«Canti Titiro o Clori, riecheggi Metastasio o Rousseau», scrive bene a proposito di questi versi uno studioso (G. Raya), «il Meli ascolta in definitiva un solo e solenne richiamo, quello della natura, e sia pure di una natura settecentescamente vagheggiata come poesia ed innocenza, consigliera d'amore e modello di leggi, regno di Dafni e insieme della Pace e della Giustizia». È questa pure, a parte i risultati poetici e mutato quel che è da mutare, la natura di un Bertola e di un Pindemonte: come si allarga e si rinnova lo scenario arcadico con la Sicilia del Meli, nuovi e più vasti e vari aspetti esso ci presenta nelle Prose e poesie campestri pindemontiane e nei tanti paesaggi in versi e in prosa del Bertola, e a un tempo sembra talora approfondirsi la dimensione di quella scoperta e vagheggiata natura per una più esplicita consapevolezza di quel che essa è per l'animo, per l'analisi sottile del segreto piacere che ne ricava. «La vita pastorale e campestre ha sempre un non so che di tenero e commovente: risveglia in noi, con le idee più pure e aggradevoli, certo senso soave di quell'età, che si chiama dell'oro, e ci fa risonar nell'anima qualche avanzo delle languide sì, ma inestinguibili voci della natura». Così il Pindemonte; e il Bertola, nella chiusa di una delle lettere renane: «Con sì vivi fantasmi ci si aggira per la mente l'età dell'oro, che non la crediamo già fuggita dal mondo, ma solo ritirata in qualche angolo più riposto e più fido. Tali fantasmi avvalorati dalla presente realtà, quasi s'immedesimano colla nostra propria esistenza. Quella fortunata ma troppo breve età, in cui di nulla si teme, di nulla si sospetta, per cui quanto ci attornia è tinto a color di rosa, la nostra prima giovinezza, quella verace età dell'oro che pur tocca a ciascuno, ci si ridipinge dinanzi lucida tutta e fiorita: partecipando profondamente di quel puro benessere altrui che tanto la somiglia, noi per poco ancor ne godiamo». Presentiamo il Leopardi, che con una coscienza tragica ignota a questi autori ne riprenderà (e talora con le parole stesse e quasi le stesse cadenze) spunti e motivi; ma certo son qui alcune delle punte della sensibilità arcadico-preromantica, e valgono, se pur isolate in pagine più convenzionali e manierate, a suggerirci lo sfondo da cui emerge la poesia dell'ultima Arcadia.
Prima di tutto quella del Meli: di cui si volle contrapporre a un contenuto arcadico frusto e fittizio la forma fresca e nuova, per la quale non si sa per qual miracolo quel contenuto avrebbe acquistato una vita che non aveva e accento di vera poesia (quasi che da un contenuto senz'anima e privo di un suo interesse intrinseco potesse scaturire una poesia vera), mentre a qualche critico della sua terra è sembrato irriverente un giudizio che l'originale poesia meliana verrebbe a racchiudere nei confini della malfamata Arcadia. Di fatto sembra difficile disconoscere che i temi, e i modi, e non so quante immagini del Meli ci rinviano a una letteratura a noi ben nota, e che il poeta siciliano avesse dietro di sé l'esperienza della poesia settecentesca e a quella si rifacesse proseguendo per il cammino che era stato dei poeti italiani e stranieri del secolo decimottavo e dei loro predecessori, quando componeva le sue odi galanti e tutta una Bucolica siculo-virgiliana, ancora un ciclo de Le stagionila e, genere fortunatissimo nel Settecento, le Favole. L'Arcadia bucolica e l'Arcadia galante son presenti, sappiamo, nell'opera tutta del Meli, ed egli non le ha neppure sostanzialmente rinnovate, quando cantava il seno o la bocca o la chioma della bella, o ritraeva qualche quadretto di vita campestre.
Ntra ssu pittuzzu amabili,
ortu di rosi e sciuri,
dui mazzuneddi Amuri
cu li soi manu fa.
Ci spruzza poi cu l'ali
li fiocchi di la nivi,
'ntriccia li vini, e scrivi:
Lu paradisu è ccà!
Ma un'importuna nuvula
m'ottenebra lu celu:
appena ntra lu velu
na spiragghedda c'è.
Non abbiamo visto altrove questi Amorini, tutti intesi all'opera loro in mezzo o intorno ai capelli di una donna?
Chi tirribiliu!
Chi serra-serra!
Deh curri, o Veneri,
sparti sta guerra.
Quindici milia
cechi amurini,
tutti si 'ngrignanu,
fanno ruini,
cui punci e muzzica;
cu' abbraccia ed ardi;
cui tira ciacculi;
cu' abbija dardi.
Ntra lu spartirisi
li cori prisi,
vinniru a nasciri
sti gran cuntisi.
Né è possibile non rammentare una scenetta simile del Rolli (la ricordò il Meli, e certo siamo nell'ambito di un medesimo gusto), leggendo queste strofette della prima Egloga:
La quagghiuzza s'imbarazza
'mmenzu Vervi di lu chianu;
va lu cani e la sbulazza,
poi ci abbaja di luntanu;
e mentr'idda in aria accrisci
novi sciammi a lu so arduri,
già la fulmina e colpisci
lu crudili cacciaturi.
Siamo dinanzi non già a un contenuto esaurito ed esanime, bensì a un mondo squisitamente letterario, a cui il poeta si volge con quell'animus che ci è parso proprio di quest'estrema Arcadia e che talvolta si giustifica in un'esplicita professione di fede naturalistica (come nella canzone dell'Idillio Vi, che è una apologia della «diletta matri, la provida natura»), ma che meglio s'avverte là dove senza giustificazione si effonde in canto. Neppure il dialetto contradice il carattere letterario del mondo meliano, non presentandosi come espressione necessaria di una realtà fresca e vigorosa nuovamente scoperta, a cui si sconverrebbe la lingua nazionale (come sarà il dialetto di un Porta e di un Belli), bensì come una nuova veste timbrica di temi e motivi ben noti, che consente al poeta, nei limiti di quella letteratura, una più ampia e varia gamma di effetti. Non è già un rinnovamento miracoloso e inspiegabile come parrebbe dalle pagine del De Sanctis, ma una acquisizione in campo arcadico di elementi gustosi e spesso finissimi, mercé un linguaggio che con sapiente gradazione si vale sino a confondersi con essa della comune lingua poetica così come si è elaborata attraverso l'esperienza arcadica e si spinge pur poggiando su quel saldo fondamento sino a certe punte più particolarmente dialettali, sino all'onomatopea.
Ntra ss'acqui frischi e lìmpidi,
'mmenzu a st' umbrusi lochi,
anatri, foggi ed ochi
triscanu a tinghi-tè.
Li nìnfi si ci sguazzanu:
cui nata supra l'unna,
cui sbruffa, cui s'affunna,
cui sàuta e grida: Ole!
Sii junti li burraschi
ddà susu a li carrubbi;
li trona cubbi-cubbi
vannu 'ncugnannu ccà;
ntra lampi e ntra surruschi
lu nuvulatu scinni:
eccu sbrizzìa, vinni,
è lesta l'acqua già.
Ne viene per il poeta e per noi un continuo piacere nel ritrovare entro questo linguaggio variamente sfumato e graduato motivi antichi e cari, nel riconoscere in veste virgiliana profili di paesaggi della Sicilia, scene e personaggi della vita siciliana: così il Giorno pariniano ci fa assistere all'assunzione del piccolo elegante mondo moderno alla sfera dell'arte grazie a un linguaggio elettissimo, esemplato sui classici, e per vero il Meli s'impone alla nostra ammirazione prima che come poeta geniale come artista peritissimo, che non sapremmo per questo accostare nel tempo suo ad altri che al Parini. Non lo accosteremmo invece al poeta lombardo come fa, sia pure con cautela, Attilio Momigliano per gli ideali etici che sarebbero al di sotto della rappresentazione dei contadini della Sicilia, poiché fuori della poesia del Meli restano quegli interessi sociali a cui pure non fu insensibile, ma che rimasero senza sviluppo nell'opera sua di poeta, sì che invano si cercherebbero gli accenti vigorosi che in altro ambiente e con ben altra tempra il Parini seppe trovare nel Giorno e in qualche passo delle Odi, superando i limiti della squisita rappresentazione letteraria. Puramente letteraria invece è la Bucolica meliana, un lavoro composito sia nelle ampie cornici descrittive e narrative, sia nei canti: soltanto come esempio di una critica di altri tempi, che sembra lontanissima, si può citare un passo del Cesareo, benemerito degli studi meliani per i contributi biografici, ma nella sua indiscriminata apologia dimentico della realtà estetica e storica dell'opera del poeta palermitano; commentando la scena (riportata in questo volume, dell'uccisione del porco) egli esce in queste parole: «Arcadia, codesta ? O non pare più tosto di sentirvi dentro come un odor aspro di naturalismo zoliano e un oscuro presentimento di rivolta sociale ?» Eppure proprio in questa scena noi abbiamo un esempio della tradizionale poesia descrittiva, che così poco prende il poeta da lasciargli agio di elencare con fìnta serietà i motivi dell'uccisione del porco, animale inutile, e di scherzare poi sulla sorte della sua anima probabilmente trapassata nel corpo di un ricco avaro: e la descrizione stessa è tenuta in tono semiparodistico non senza scoperte reminiscenze della più solenne poesia: «Saziu già di la straggi, lu cuteddu / apri, niscennu, spaziusa strata / a lu sangu ed a l'anima purcina» («Oh che sanguigna e spaziosa porta / fa l'una e l'altra spada»). Né carattere diverso ha la descrizione che segue della festa, pur tanto più fresca e vivace, ma che anche nelle ammirate raffigurazioni delle contadinelle e dei giovanotti non deroga alla generale intonazione classicheggiante e pseudoepica: «Veni la vrunittedda inzuccarata / Joli, chi ad ogni passu, ad ogni gestu, / pinci na grazia nova» ... «Veni di l'occhiu nìvuru e brillanti / Licori, la grassotta; allegra in facci / ci ridi primavera, ad onta ancora / di l'invernu chi regna ntra li campi»... «Filli ed Ergastu, sutta un palandranu / chi fa tettu e pinnata a tutti dui, / jùncinu, e li pasturi tutti intornu / pri cuntintizza bàttinu li manu».
Siamo sempre, anche là dove più felici e originali sono gli spunti paesistici, dinanzi a un'ennesima variazione delle Bucoliche virgiliane: valgano per tutti i notissimi versi iniziali del primo Idillio, fra i più belli di questa cornice descrittiva: «Già cadevanu granni da li munti / l'umbri, spruzzannu supra li campagni / la suttili acquazzina; d'ogni latu / si vidìano fumari in luntananza / li rustici capanni». Né insisterei su accenti di melanconia che son parsi rivelatori del suo animo più profondo, quelli dell'idillio Polemuni e in particolare del canto del protagonista, per il quale si è parlato di «cupo pessimismo preleopardiano» (Natali) e che è stato paragonato addirittura al Canto di un pastore errante.
Sii a lu munnu, e 'un sacciu comu,
derelittu e in abbandunu!
ni di mia si sa lu nomu!
ne pri mia ci pensa alcunu!
Polentone, il pescatore che si sente perseguitato dalle stelle e si chiede invano la ragione di tanta sventura, e perde ad un tempo la barca e l'amata, non canta in tono molto diverso da altri innamorati infelici: «Si vineva da la pisca, / currìa menzu vicinatu; / facìa Nici festa e trisca, / stannu sempri a lu miu latu»... «Canciau tuttu ntra un istanti: / la miseria mi circunna, / e lu jornu chiù brillanti / pari a mia notti profunna». Se in poesia la forma metrica ha un valore essenziale, è impossibile ritrovare in queste strofette cantabili le angosciose domande del pastore leopardiano: piuttosto pensiamo a qualche ballata dell'età romantica in cui un «poveretto» effonde i suoi lamenti coi modi elementari desunti dal repertorio arcadico- melodrammatico. È qui non l'intimo spirito del Meli, ma il segno di una sua adesione a certe tendenze preromantiche, a cui egli si è abbandonato sino a concludere la storia del pescatore infelice col suicidio, un suicidio a dire il vero ingiustificato e che contrasta col carattere generale della Bucolica. Più schietto l'animo del poeta risuona in altri canti, in cui la melanconia, se vi è, è una cosa sola con l'aspirazione idillica, il sogno bucolico o naturalistico che è la sostanza di parte così cospicua della opera meliana: «Sti silenzii, sta virdura, / sti muntagni, sti vallati ...»;«Già sutta di la fauci / càdinu li lavuri: / li gregni a li chianuri / eccu di ccà e di ddà. //La cicaledda raiica, / tra l'àr- vuli e li spichi, / cu lu so zichi-zichi / nn'annunzia l'està»; «È passata la furtura, / già ciurìu la minnulica: / da la grutta a la chianura / nesci e veni, o Clori amica!»; «O bianca, lucidissima / Luna, chi senza velu / sulcannu vai pri l'aria / li campi di lu celu, Il tu dissipi li tenebri / cu la serena facci: / li stiddi impallidiscimi / appena chi tu affacci». Ben lo si sente in queste aperture felicissime (bella fra tutte l'ultima), in cui è di solito l'accento più intensamente poetico di tutto il canto: poiché anche se belli sono tanti particolari, è propria di questi canti una certa staticità, per la quale il componimento tende a chiudersi in tanti quadretti, il discorso tende a insistere sulla medesima nota, come appare più chiaramente nel canto di Polemone: indizio del limite intrinseco di una poesia prevalentemente letteraria, come quella della Bucolica. a cui sembra negato un volo più ampio e spiegato.
Ma più piena, intera, beata di se stessa la poesia del Meli si ritrova in due odi, che sono non a caso nella memoria di tutti: l'ode dell'ape, che poggia sì su di un motivo galante madrigalesco (la dolcezza del labbro della donna superiore a quella di ogni fiore), ma quel motivo trascende nella contemplazione dell'ape volante nel mattino, soggetto e ragione vera del canto, e quella della cicala, che potrebbe essere l'epigrafe o il compendio o la chiusa lirica di tutta l'opera meliana.
Dimmi, dimmi, apuzza nica:
Unni vai cussi matinu?
Nun c'è cima chi arrussica
di lu munti a nui vicinu;
trema ancora, ancora luci
la ruggiada ntra li prati:
duna accura nun ti arruci
l'ali d'oru dilicati!
Li sciuriddi durmigghiusi
ntra li virdi soi buttuni
starimi ancora sfritti e chiusi
cu li testi a pinnuluni.
Ma l'aluzza s'affatica!
Ma tu voli e fai caminu!
Dimmi, dimmi, apuzza nica:
unni vai cussi matinu?
Con la ripresa degli ultimi versi è musicalmente conclusa la lirica, se pur si continua nelle strofe seguenti che ne son state il pretesto o l'occasione: certo in queste quattro strofette è uno dei vertici della poesia arcadica, uno di quei momenti in cui da tanto lavoro letterario vien fuori la poesia che l'Arcadia e il Meli portavan nel loro intimo. Lo stesso direi de La cicala, in cui più esplicitamente il Meli ha cantato la poesia, anzi la propria poesia adombrando nell'animaletto se medesimo, e che nella indimenticabile strofe d'esordio ha la stessa aerea levità delle strofette dell'ape.
Cicaledda, tu ti assetti
supra un ramu la matina,
una pampina ti metti
a la testa pri curtina,
e ddà passi la jurnata
a cantari sfacinnata.
Non decade però nelle seguenti, anche dove sembra piegarsi verso un tono più discorsivo con la menzione di Anacreonte e poi con la favola della formica: l'immagine iniziale si fonde senza dissonanze con l'elogio della cicala e questo dà luogo senza stacco all'antico racconto, ripreso e rinnovato con tanta discrezione sino alla chiusa, che è il non omnis moriar del Meli.
Non altrettanto felice e coerente la Paci, ove pure il poeta una volta ancora manifesta l'aspirazione a rinchiudersi nella sua saggezza contemplativa, così diversa dalla fiera coscienza morale di un Parini, nei versi fra i più belli dell'ode, in cui immagina di guardare dall'alto del sacro monte della poesia il vario mondo degli uomini e dei loro vani desideri.
Di dda supra, mentr'eu cantu,
viju sutta li mei pedi
terra, mari, e tuttu quantu
l'omu ambisci, e nun pussedi.
Questo vario mondo egli rappresenta non con aspetti umani ma nelle sembianze, consacrate dalla tradizione favolistica, degli animali, nelle favole con cui si conclude l'opera sua e che taluno non a torto forse ha ritenuto il suo capolavoro. Certo il poeta dell'ape e della cicala ha trovato qui tra moralità e rappresentazione artistica il giusto equilibrio, con un'aderenza alla vita dei suoi personaggi che elimina la letterarietà persistente nella Bucolica e ci offre tanti particolari gustosi e caratteristici di quel piccolo mondo animalesco: al confronto più tenui o più aridi, graziosi bozzettisti o cicalatori bonari ci sembrano gli altri favolisti settecenteschi (non si parli però del geniale La Fon- taine, che è tutt'altra cosa), anche se ad essi pur si apparenta il nostro poeta, fedele sempre a quella cultura e a quel gusto da cui fu educato. Non ne soffrì però la sua fama, anche presso critici e lettori di un'età come quella del Risorgimento, così severa verso la «vecchia letteratura»: anzi quando leggiamo le pagine a lui dedicate dall'Emiliani-Giudici, dal Settembrini, dal De Sanctis e da minori critici dell'Ottocento ci si riaffaccia alla mente per questo lieto e unanime plauso la scena con cui si apre l'ultimo canto del Furioso. E per vero lettori e critici salutavano in lui il poeta che non già malgrado il dialetto ma in grazia appunto del suo dialetto riportava per così dire la sua Sicilia nella letteratura nazionale, tributandogli fin dal suo apparire un favore così pronto e non mai poi contrastato (ben più difficile sarebbe stata l'affermazione di un Verga, dal linguaggio tanto più arduo e più complesso), poiché riconoscevano pur nella novità e nella felicità di non pochi accenti un mondo familiare - e si dovrà anche di questo dar merito all'Arcadia, alla comune cultura, al comune gusto che con essa si era instaurato.
Un gusto del resto non ristretto all'Italia sola, se il Meli piacque subito anche a stranieri e cose sue furono tradotte da un Goethe e da uno Herder: ma fra tutti i contemporanei fuori della Sicilia nessuno forse accolse con tanta simpatia l'opera meliana come il veneziano Antonio Lamberti, che in lui riconobbe il suo maestro e autore, un esempio altissimo della poesia a cui anch'egli mirava per i temi e le forme e per un linguaggio che al pari del suo idioma veneziano, «non era», come scrisse, «un vernacolo ma un dialetto nazionale» e che tradusse amorosamente sì che queste versioni furon giudicate «un vero capolavoro» (M. T. Dazzi). Avvertì forse, in un tacito confronto, quel che a lui mancava per dare un'opera coerente come quella del Meli, informata da quello spirito di «saggezza» fantastica e sognante, di cui han discorso gli studiosi del poeta siciliano? Il Meli, sappiamo, non fu un eroe e l'incertezza sua tentò di esprimere nel dualismo di Don Chisciotte e Sancio: il Lamberti è un Sancio senza Don Chisciotte, un Sancio terra terra senza quel lievito di fantasia, di sogno, di aspirazione verso un mondo idillico, che è al di sotto dell'opera meliana: è in lui invece la fiacchezza morale degli epigoni di quella che era stata Venezia, e per questa fiacchezza le autentiche doti d'artista non si risolsero mai in un'opera compiuta di poesia o di alta letteratura, riconoscibili come sono soltanto in sparsi frammenti. Capolavoro certo non è la celeberrima Biondina in gondoleta, nonostante la sua grande fortuna, volgaruccia in fondo nel contenuto come nella forma, cosa piuttosto anonima che personale, una delle innumeri canzonette che volgarizzavano la musicalità e sensualità arcadica e che per certa franchezza di piglio e per l'imponderabile gioco della fortuna, per non dire della musica del Mayr, si distinse fra tutte le altre. Spunti tanto più originali si possono cogliere nell'opera lambertiana, ne Le quattro Stagioni, ad esempio, in cui fra l'altro egli ravviva il vecchio tema rilevando in ognuna delle stagioni un carattere di donna, o contrapponendo città e campagna, alternando motivi meliani e motivi goldoniani, allegre descrizioni villereccie e facili canzonature e caricature, e lasciando cadere qua e là freschi tocchi paesistici; come questi cieli autunnali: «Qua l'è ceruleo, / de là el ga un velo, / de qua le nuvole / forma un'armada, / de là un'istoria / xe piturada; / l'oro ve sfiamega / per ogni logo, / quando ch'el sol / sora del col / xe drio a spuntar; / el par un fogo / col casca in mar!», o delineando questo interno invernale, in cui ci sembra avvertire più che un presentimento di pittura ottocentesca:
La vila nel silenzio xe sepolta,
e solo in stala el pulierin se sente
nitrir, scorlando la criniera folta,
che la vogia del fien rende impaziente; le zampe el sbate, e pur nissun l'ascolta, ma sbragia el can, credendo che sia zente, e alora dal filò qualcun vien fora, e quieta el can, e varda in cielo l'ora.
E diverso dalle solite contrapposizioni di città e di campagna è nella Letara a Nina il lamento del garzone lattaio, sperduto nella città tutta pietra, fra i suoi poveri e i suoi ricchi, parimenti a lui estranei, con nell'animo una primavera ben diversa fra i campi con l'amata: una situazione nuova che par annunciare anch'essa sentimenti e personaggi dell'Ottocento.
Adesso che la neve xe tuta desgiazzada, che pianze la to pergola, che l'erba xe tornada, che spanta viole e bocoli, dime, dov'estu ... là? ...
Là in quel bel pra, mia Nina,che i primi nostri amori ga visto in cuor a nascerne come che fa i so fiori che sponta senza acorzerse ... Saressistu in quel pra?
Son qua, lontan, fra zente che par 'na mascherada, che come le formigole va in riga per la strada, che v'urta, che ve strùcola ...
Qua mi no vedo Nina, qua adesso è primavera, ma mi no posso acorzerme, xe tuto zente o piera; qua no fiorisse un albero; un fior no sa spontar.
Meza de sta gran zente par sempre desperada, i pianze, i prega, i suplica, i dorme su la strada, e insin a mi limosina me i vedo a domandar.
St'altra metà par rica; vestii sempre da festa, i paga certe frotole
un ochio de la testa; l'oro, l'arzento, crédime, par che ghe nassa in man ...
Ma quel che segue non è pari alla felice invenzione iniziale: faceva difetto al Lamberti la serietà d'artista che svolge sino al fondo un motivo scoperto, né egli sapeva uscire da quello che era un mondo letterario ormai fissato e che più che altrove nel Veneto perdura ben al di là dei limiti cronologici del secolo decimottavo. E se tra quegli idilli e scherzi, favole e canzonette dovessimo scegliere un componimento come saggio più significativo della sua arte, vorrei indicare El ti e el vii, che è ben più di una traduzione, un rifacimento di una Epistola, assai bella, del Voltaire. Il Lamberti trasporta veramente sin dai primi versi la bellezza parigina nella sua Venezia: «Philis, qu'est devenu ce temps / où, dans un fiacre promenée ...»; «Nina, dov'è quei tempi / che in barca da tragheto, / su l'ora del frescheto / se andava a scorsizar?» e sviluppa il discorso, distribuito dal Voltaire in tre lunghe stanze variamente contrappuntate di rime, in strofette vittorelliane che ne spezzano il fluire in tanti quadretti maliziosi e birichini, con la freschezza e la vivacità di una cosa originale. Si può desiderare l'accento, del resto inimitabile, del Voltaire, quel misto di malizia e di grazia, di melanconia e di sorriso, di mondanità e di poesia, e osservare che nel Lamberti assai minor rilievo ha il pensiero del tempo ormai trascorso, della giovinezza fuggita: il che non sminuisce il valore della canzonetta, che nell'Epistola francese ha trovato un appoggio e una guida alle sue briose e leggiadre variazioni. Caso, sappiamo, non nuovo nella storia della poesia settecentesca, che più d'una volta ci ha offerto fra le sue cose migliori traduzioni e parafrasi e imitazioni, risultati felici più che non tanti altri della ricerca espressiva che contraddistingue questa letteratura.
Più scopertamente quella ricerca persegue in quest'ultimo scorcio del secolo e in un'età di crisi e di trasformazione il Bertola, la cui opera ci sembra avere nel suo complesso un carattere sperimentale. Lo si avverte negli ardimenti lessicali, che egli stesso rilevò compiacendosene nella dedica-prefazione delle Operette in verso e in prosa: «Sa (l'autore) quanto può saperlo chicchessia» scriveva «di aver non di rado arditamente arbitrato in fatto di lingua; ma non può egli persuadersi che da una favella viva debba escludersi il neologismo, dove questo guidato sia dalla ragione e non dal capriccio. Nell'icastica sopra tutto si è lasciato vincere dall'invito di maggiori libertà, avendo avuto la debolezza di credere di dir sovente sulla campagna ciò che in nostra lingua non erasi ancor detto». Senonché un consapevole neologizzare è indizio di un linguaggio non ancora divenuto cosa intima e spontanea, e le novità linguistiche, veri e propri neologismi o voci estranee alla tradizionale lingua poetica, fanno spicco nei versi del Bertola per la loro singolarità perché al discorso tutto è mancata l'unità di tono in cui soltanto il nuovo troverebbe la sua giustificazione. Abbiamo così «sentieri che mentre all'erme guidano / montagnette scoscese, / mostran senza cultura / simmetrica verdura», o «quanti per fronde e fiori / degradanti colori»; e il «montanesco ingenuo colloquio», e i «secreti rami, / che oltraggio da legami / simmetrici non han» e la «sottile riga di densa luce» che «tra' folti s'introduce / rametti», e «il non pingibile teatro» e «il verde e il grigio che in bel simmetrico punto degradano», e come ultimo saggio, ma l'elenco potrebbe continuare: «Le rade nuvole / sotto al ciel puro / van galleggianti / e a chiaroscuro / le pinge il sol». Accanto poi a queste e a simili voci astratte o tecniche son altre che si propongono di «particolarizzare», di rendere più da vicino nella sua verità quella vita dei campi che amorosamente il poeta contempla, le «rugose suocere / con ceste al braccio appese», e «su per le pendici / le fresche zappatrici», e «pe' cretosi limi / i più gagliardi fimi», eppur queste novità, che non sono spiaciute (le ha rilevate con lode il Flora), serbano alcunché di gratuito, isolate come sono nel resto del discorso, diversamente da quel che accade nel Parini (nella Salubrità dell'aria per esempio), in cui nel particolare arditamente ed anche crudamente realistico riconosciamo col segno di uno stile la coscienza morale e artistica del poeta. Accade pure al Bertola che l'interesse al particolare singolo, al vocabolo insueto, alla nota di colore gli faccia smarrire la linea melodica del canto e tanto difficile gli riesca trovare per i suoi componimenti una forma metrica soddisfacente. «Avendo voluto molto dipingere, so bene di non aver sempre usato parole amiche a' moderni compositori di musica», scriveva nella dedica de Le quattro parti del giorno; ma non ai «compositori di musica» soltanto, neppure a lui finiva di piacere un giro di frasi e di versi che troppo facevan desiderare la musica di poeti a lui sempre sopra ogni altro cari. «Perché non signoreggiano / ne' versi miei que' molli, / que' dilicati numeri, / che tu prestasti a Rolli?» chiedeva a Tibullo in una quartina de La campagna, e con nostalgia e rimpianto si volgeva costantemente a chi nonostante tanti mutamenti di idee e di gusto, nonostante riserve da lui pure condivise, era sempre sulla cima dei pensieri come maestro della «cara armonia d'Italia», il musico e patetico poeta dell' Olimpiade, il Metastasio. «Nella mia cetra almen per pochi istanti / possente arcan deh penetra furtivo! / Ben mi so ch'oggi Europa altro che canti / chiede agl'ingegni, e vuoti suoni ha a schivo: / ma cosparso è così d'affanni e pianti / il corso della vita fuggitivo, / che il cercar più conforti al seno afflitto, / se virtude non è, non fìa delitto».
Tra pittura e musica il Bertola sembra incerto, né è qui questione di mera tecnica, bensì di una più intima incertezza, propria di uno spirito che tra i diversi impulsi esterni ed interni a un tempo non sa raggiungere quell'armonia interiore, quel centro intorno a cui si raccolgano le sue impressioni, autentiche certo e schiette ma ancora disperse e perciò non mai libere da una punta di dilettantismo. Vi è un Bertola che vagheggia il mondo musicale e per lui perfetto del Metastasio, e in quel mondo della musica ma anche del cuore (bene egli conosce e fa proprio il giudizio del Rousseau: «Métastase est le seul poète du coeur») vorrebbe comporre i moti della sua sensibilità preromantica ma fondamentalmente idillica, e vi è un Bertola che ansiosamente ricerca la nota nuova, pittoresca, stanco del solito generico scenario arcadico e desideroso di portare alla poesia qualche aspetto della così varia e sempre nuova natura. «Oh come il sol cadente / tinge di foco il ciel! / e sovra l'onde un vel / pone di foco! // Come tra i folti rami / del colle più vicin, / là scherza porporin, / qua il raggio è croco !»; «Qua fronde mezzo lacere, / o gialliccie, o cadenti; / volteggian le violacee / a capriccio de' venti; / senz'alcun fiore, il prato / di vaghe striscie è ornato». Talora egli eludendo una scelta si rifugia in una Arcadia generica sia nei facili ritmi che nelle situazioni, come nei molti scherzi che sono appunto anche sotto l'aspetto della poesia soltanto degli scherzi; o si contenta nelle favole di un gioco elegante e garbato (non mai come il Meli sa immedesimarsi nei personaggi animaleschi, che non prendono nei suoi versi anima e figura), o trova un più sincero abbandono e, là almeno dove la sensualità non resta tutta scoperta e immediata, un'onda poetica e musicale in qualcuno dei sonetti pubblicati per la loro arditezza anonimi, per i quali nell'ultimo Ottocento fu detto (dal Biagi) un «verista», quasi precursore della più recente letteratura, mentre di fatto egli continuava per i temi e per i modi una tradizione che risaliva al Tasso e al sensualismo secentistico.
Era certo in quella sensualità il fondo del suo carattere, una sensualità però irrequieta e trascolorante in sentimentalismo e nel tentativo di superare se stessa vagante da oggetto a oggetto: ne veniva la varietà delle prove in cui si cimentava questo «epicureo sentimentale», la frammentarietà dei risultati, l'oscillare tra questa e quella tendenza. È difficile trovare in lui un componimento così fuso come La solitudine del Cassoli; abbiamo invece motivi o quadretti sparsi per le odi in cui ritornano i temi caratteristici del tempo, la melanconia, o la solitudine, variati da immagini sue ed altrui, interessanti spesso anche se non raggiungono la compiutezza dell'arte. Forse soltanto nella canzonetta Partendo da Posilipo il Bertola ha superato l'incertezza sua tecnica ed intima, trovando nei modi del suo Metastasio, di cui fa proprio il metro di certe ariette svolgendolo in un più disteso discorso, un contemperamento fra il gusto musicale e il gusto pittorico, le nostalgie arcadiche e il nuovo sentimentalismo, sicché certo (a parte la chiusa posticcia con l'elogio dell'Albrizzi) abbiamo qui una delle espressioni più persuasive del suo animo poetico. Ma si comprende come un più saldo appoggio alla mal definita sua sensibilità, e insieme una giustificazione del sogno idillico che era dell'Arcadia e in lui si rinnova, egli cercasse e ritenesse di ritrovare in un mondo arcadico libero dal «vecchio cerimoniale» e più conforme, parve a lui come a tanti altri, alla vera schietta natura, alla natura dell'uomo coi suoi semplici affetti e l'altrettanto semplice e schietto e vigoroso paesaggio in cui vive, quale si presentava negli Idilli del Gessner, che dopo il Metastasio divenne, come è noto, il suo maestro vero, ispiratore e idolo. «Fra tanti componimenti italiani sulla campagna» gli venne scritto «non so se pur uno ve n'abbia capace di giovar veramente ai costumi, ispirando l'amore per la semplicità, per la candidezza, per la virtù»; a questi fini invece rispondevano mirabilmente gli Idilli del poeta svizzero, il quale aveva anch'egli compiuto il suo «viaggio retrogrado» verso i campi di Teocrito, infondendo nella vita campestre e pastorale, delineata nell'antica poesia bucolica, una sensibilità e una moralità che era del suo tempo e del suo paese, ma si presentava come esemplare e di tutti i tempi. Senza dubbio quel che già nel Gessner aveva del manierato e del convenzionale, quella «bontà» e quella «innocenza», quella «semplicità di costumi», a cui mancava per diventare autentica eticità un senso vivo del contrasto fra bene e male, diventa nel Bertola ancor più manierato ed estrinseco: checché ne dica, i suoi contadini non son per lui altro che spettacolo, e scene tipicamente gessneriane come l'incontro col poeta svizzero dell'Elogio, e l'episodio del vecchio ufficiale di San Goar, del Viaggio sul Reno, i due più espliciti e patetici «omaggi» al maestro, sono piuttosto che pagine di autentica verità documento di un particolare gusto, saggi dell'idillismo dell'ultimo Settecento, così come la sua figura assume per noi un aspetto quasi caricaturale quand'egli insiste nella presentazione di se medesimo come del «pallido poeta pensatore».
Era nel Gessner, quali ne fossero i limiti a noi evidenti, una moralità, che tanto più al Bertola era cara e preziosa, in quanto faceva difetto a lui un autentico travaglio morale; ed era insieme l'invito ad un'Arcadia dai confini tanto più vasti, variata in tante scene nuove, contemplata e gustata da tante e tanto diverse «prospettive». Giovane aveva cercato nello Young una voce consonante alla sua sentimentalità e ne aveva tratto le infelici Notti Clementine: ben altrimenti lo appagarono le traduzioni degli Idilli del Gessner, a cui si dedicò nell'età matura. È parso che nei suoi endecasillabi andasse perduto quel che di più originale era nella prosa poetica gessneriana, il sapore pregoethiano di certe dense e nuove espressioni, in cui assai più che nel diffuso patetismo sarebbe da riconoscere il reale apporto del Gessner alla nuova poesia: ma se a questo giudizio (del Noyer-Weidner) non si può non consentire, si deve anche aggiungere che mentre nelle traduzioni in versi il Bertola si lasciava trasportare dal consueto linguaggio letterario italiano a stemperare di troppo le immagini originali, la prosa poetica degli Idilli tedeschi lo indusse a tentare esperimenti simili nella lingua nostra, uscendo dai chiusi schemi delle forme poetiche, tra i quali ci è sembrato trovarsi di rado a suo agio, e rinnovando invece in più libero campo la sua ansiosa ricerca di qualche nuovo colore o sfumatura, di impressioni schiette schiettamente e poeticamente rese.
Nascono così le Lettere campestri nelle quali lo scrittore tra Nocera e Sorrento, Portici e la sua Rimini vien ritraendo aspetti di paesaggi famosi e più cari paesaggi da lui scoperti, con troppo evidente preoccupazione del pittorico, ma non senza un accenno ad alcunché di più intimo, che ci porta al di là dell'iniziale dilettantismo. Ecco qualche passo della lettera sorrentina (che citerò qui con altri, perché non compaiono nella scelta di questo volume): «... E balze, e valloni, dove in vece d'orrore, e di nudità sorgono selvette d'agrumi, e cento altri segni della più felice cultura: e tratto tratto il golfo, che ora ti si mostra tutto quant'è, ed ora imprigionato in parte nella curvità d'un senetto popoloso, e affollato di legni, che vansi costruendo, o quasi un'interrotta striscia cerulea fra la verdura ... E calando giù alla marina, come spezza amabilmente il color del mare, e quello della campagna il giallastro venato a bigio di questa montagnetta ...»; o il sorgere del sole dietro il Vesuvio, che per brevità tralasciamo (basti un particolare: «Su per la falda della montagna stendonsi striscie d'irrequieta nebbietta d'oro»), o le sue passeggiate per vie campestri a monte di Portici: «Io li traverso per vie domestiche solo a' coltivatori, odorosissime una gran parte dell'anno di un grato misto di terra e di mare...»; «Da queste vie secrete, da queste alture romite odesi discretamente lo strepito di carrozze e di gente che battono la strada di Portici: un tale strepito, il fiotto del mare, il travaglio de' pescatori, il fumo del vulcano spirano un'aria singolare di vita e di attività, ed animano soprammodo la solitaria campagna, la quale col tratto del tempo, come che bellissima, pur diverrebbe monotona»; o certi studi di effetti coloristici: «Avete voi posto mente a quello spettacolo che offrono qui gli alberi battuti dalla luce quando agiti le lor foglie alcun venticello? Più volte ho veduto meravigliare gli stranieri che queste foglie così dalla luce battute e così mosse dal vento miravano brillar come gemme: ... Le ferrugigne ceneri del Vesuvio ricamano la verdura di un leggier velo, che col favor del sole e del vento così luccicante apparisce e vistoso»; o questa veduta da un poggetto: «L'occhio misura di là la vicina altezza del Vesuvio; indi va tutti senza alcun ostacolo signoreggiando e Napoli e i colli e i monti, e il mare e le isole. Il tratto di verdura che dal poggetto frapponesi al mare, rende il color di questo anche più risentito; e il contrasto di un luogo gradatamente sì vago e ridente coll'orrido della valle sottoposta è vivissimo. Vi pare in certo modo di essere fatto più alto degli uomini, come a colui già pareva nel leggere Omero» ; o il raffronto tra la costiera e il mare di Napoli e la riva adriatica della natia Rimini: «So che l'aspetto del vostro mare limitato in così gran parte da monti e poggi tutti per singoiar vaghezza osservabili, non è da mettersi a confronto con quello di un mare maestosamente aperto, e senza confini: ma so ancora che questo mare cosiffatto mette nell'anima una cert'aria di grandezza e di libertà che assai mi piace: so che la lunga sua striscia appoggiata alquanto a destra ad un breve sporgimento di montagna è un colpo d'occhio pittoresco e soddisfacente» ; o per finire (e sarebbero pure da citare i versi in vario metro che liberamente lo scrittore ha frammezzato alla sua prosa), questo ultimo studio di colore:
Lo spettacolo della campagna si rinnova al tramontar del giorno in una maniera che la pittura mal sa ricopiare. Quadri del mattino ho veduto leggiadrissimi: ma nessun pittore ancora ha potuto impadronirsi di quelle mezzetinte, onde verso sera pompeggiano le nuvole, che trasparenti e riunite intorno al sole formano a' nostri occhi montagne d'ombre e di luce in un certo disordine maestoso, il qual risveglia una così dilettevole ammirazione: nessun pittore ha ben colpito quel lucido misto di croco e di porpora che ricama la verzura e sfugge a traverso delle foglie in sottilissime laminette.
In queste Lettere è il precedente, non abbastanza preso in considerazione da chi ha studiato quelle del Viaggio sul Reno, l'opera a cui più che ad ogni altra è affidata la fama del Bertola e che nel nostro tempo, per una certa consonanza di gusti, ha avuto una rinnovata fortuna. Nel Viaggio sul Reno è infatti la maggior prova del nostro scrittore, che ha trovato nella materia il soggetto più atto alle sue ambizioni pittoriche come alla sua simpatia per un mondo che per lui si riassumeva nel nome del Gessner: ma è pure la conclusione di una lunga ricerca in versi e in prosa, sfociata in questa serie di paesaggi esotici che di continuo rinnovati si presentano al viaggiatore renano. Non sapremmo darne un giudizio con parole più appropriate di quelle di Leonello Vincenti, il quale nota come «quella natura così varia» e per tanta storia e tanti miti «spesso solenne» «è veduta sempre coll'occhio del paesista patetico». «Tutto» scrive il Vincenti «acque e cieli, monti ed isole, abitati e abitatori è spettacolo, il più sovente ameno: anche il gigantesco e l'orrido e il misterioso stanno in funzione di contrasto, ad accrescere il diletto degli occhi e del cuore. Geografìa, geologia, economia mettono nel quadro arcadico dei tocchi atti a dargli consistenza di realtà moderna; ma la serie inesauribile degli scenari, delle scenette, delle Stimmungen - la parola romantica che si addice a questo preromantico - delle effusioni, delle considerazioni morali circoscrivono l'ambito di un piccolo mondo inalterabilmente sereno». E col Vincenti ancora ammiriamo, riconosciuti gli insormontabili limiti di una visione arcadica, «la limpida precisione con la quale sono osservati e la sagacia con la quale sono disposti elementi e colori», e risentiamo a lettura finita quel «rapporto di affetto» tra il viaggiatore e il fiume straniero, che «fa di quell'esperienza un momento di vita».
Qui il Bertola ha trovato un equilibrio tra le diverse tendenze della sua cultura e del suo gusto, tra una chiarezza di visione analitica, a cui non è stata estranea la cultura illuministica e il personale esercizio della critica, e il gusto dell'impressione fresca, inedita, di cui tanta dovizia gli è stata offerta da un paesaggio straniero, e con l'equilibrio, un ritmo della pagina e del periodo, che agevolmente si scandono nei loro vari scomparti, dando luogo ad episodi in sé conchiusi, paesaggi ben definiti nel giro di una prosa poetica. Valga come esempio questa sull'eco della roccia di Loreley:
Questa nuova serie di rocce ci annunziava in qualche maniera il nuovo spettacolo che ci attendeva indi a poco. I monti, o screpolati spaventevolmente, o tagliati quasi a piombo e pendenti sopra le acque, si alzano e s'incrocicchiano in guisa che i dubbi che qui il Reno si perdesse in un lago venivano a rinforzarsi quasi ad ogni occhiata. Erano le tre ore dopo il mezzogiorno, e tutto quivi era ombra. Un patetico che trae all'orrore, spira tra queste alture, e s'insinua profondamente nell'animo: placidissimo il corso del fiume, un alto silenzio all'intorno, il quale noi rompemmo con alquante grida, onde riconoscere e salutare una celebre e distintissima eco, le cui risposte vanno cupamente romoreggiando per le tortuose cavità di que' balzi, i quali piglian nome dalla medesima. Villaggi alquanto sparuti occupano qua e là le anguste spianate lambite dal fiume: alcuni hanno da un fianco la tenue verdezza di un orticello o di un campo, i quali vengono timidamente appoggiandosi a un qualche decrescente angolo delle rocce. Ma la pesca, ch'è abbondantissima in queste acque, somministra abbastanza a sussistere;
e questa forse più fine e suggestiva sulle rive di San Goar:
Le bellezze di queste rive traggono naturalmente a un certo patetico: forse son fatte per risaltare anche più sulla sera; e verso sera io ne ho goduto. Un velo quasi trasparente stendevasi dalle valli verso le sommità investite dal sol cadente; e noi vi distinguemmo vicine e rilevate modificazioni non apparseci prima: il velo s'inspessiva a grado a grado, ma interrottamente. Intorno a qualche sopracciglio de' monti si addensavano i vapori, e già mostravano di voler prendere bizzarre e svariate figure secondo la mobile direzione de' venti: indi ne presero parecchie assai pittoresche. Già il fondo delle rive si andava infoscando, incupendo; già i tanti oggetti, di che sono esse fregiate e dipinte, altro più non apparivano che una confusa massa, con cui faceva pur corpo il dorso de' monti, senza lasciar più discernere le mezze tinte dei confini: solo le cime occidentali seguivano a rosseggiare alcun poco ne' più isolati profili. Tutto ne presentò l'immagine del sonno della natura, mentre intanto quelle reali e placide acque vegliavano sole con noi: il lor corso però movea strepito così leggiero, che parea volesse secondare anch'esso l'universale riposo.
È stato fatto (dal Bonora) a proposito di questa pagina, tra le migliori del Viaggio, il nome del Manzoni per qualche brano descrittivo dei Promessi Sposi, di cui sembra preannunciare su di un registro più modesto il ritmo pacato insieme e commosso: e per vero qui e in qualche altro passo (come in quello sopra citato sull'età dell'oro della giovinezza, di un sapore preleopardiano) il Bertola sembra andare oltre il suo programmatico descrittivismo lasciando affiorare o in forma esplicita o nella intonazione sola del discorso quell'animo più intimo che si poteva qua e là intravedere. Senonché è insita nell'opera tutta una monotonia propria di un interesse sempre identico, per la quale assistiamo a una sfilata di paesaggi, che l'autore non cessa di ricercare, godere e far godere ai suoi lettori, sì che è portato a insistere sui medesimi moduli della sua prosa, sulle «prospettive» e sulle «simmetrie», senza mai sviluppare quel motivo più intimo che abbiamo in qualche punto avvertito. Vi saranno passi più o meno felici, più schietti o più manierati, ma è riconoscibile in tutti il limite intrinseco non della prosa soltanto ma della personalità bertoliana, nel suo sensualismo o edonismo, il movente e l'ispirazione dei suoi tentativi pittorici, la ragione del suo costante riportare ogni oggetto della sua arte sotto la specie della pittura, del pittoresco. Troppo insistente, a parte i continui riferimenti pittorici, il motivo del godimento, dell'assaporamento delle vedute scoperte e ben messe a fuoco: né a caso questo esercizio più raffinato di «epicureismo sentimentale» è stato riportato in onore ai giorni nostri in clima postdannunziano dal lettore epicureo Antonio Baldini. Se non del tutto giusto è su questa prosa il giudizio di Attilio Momigliano, che inteso a delineare nella sua novità e profondità il paesaggio manzoniano, del Bertola si libera in una rapida paginetta («Interessante ... per l'assidua ricerca delle prospettive, dei colori, delle gradazioni, ma egli lavora con ordine, con precisione, senza sensibilità ...»), certamente il Bertola mentre sembra accennare all'arte dell'Ottocento, al Manzoni e al Leopardi, ci fa sentire ad un tempo quanto ne sia lontano, chiuso com'è insieme con la cultura e il gusto che gli furon propri nell'idillismo e nell'edonismo del Settecento, del tutto ignaro della coscienza drammatica, che è al fondo, come di ogni poesia, della grande poesia del primo Ottocento. Più vicino se mai al Leopardi per certe punte della sua sensibilità, come nella chiusa del Saggio sopra la grazia:
Sì, gli studi di così amena e venusta indole vagliono a crear per noi quasi un mondo incantato, ove entriamo a ricrearci allorché quello in cui viviamo c'infastidisca e ci turbi: in un mondo nel quale sopra tutti gli oggetti così brillano la calma, la ilarità, la vaghezza, che ne sentiamo amabilmente il riverbero sino al fondo dell'anima; e questo piacere, direi quasi sì filosofico e tuttavia sì facile a conseguirsi da' mediocri uomini, appena vuol cedere a quello di che la gloria inebria i più grandi.
Ma con quello del Leopardi si deve fare il nome del Foscolo, che da lui più direttamente si rifà nei suoi esordi e che non a caso nell'Ortis, insieme ai maestri Parini e Alfieri, ricorda il Bertola, e più precisamente nel momento più tragico del suo Jacopo («Tutto mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertola; da gran tempo io non aveva sue lettere ... È morto.»): omaggio al poeta a cui non soltanto aveva sedicenne con una lettera indirizzato l'ode, da lui ispirata, La campagna, ma che dalla sua prosa poetica e descrittiva aveva preso l'avvio per il suo romanzo sin dai primi tentativi della Laura. Si rammenti la lettera famosa sulla sera, che s'inizia con le parole «S'io fossi pittore ...», o qualche scena idillica di vita campestre; e del Bertola si legga quel che scrive, nelle Lettere campestri, sul ritorno ai luoghi della sua fanciullezza.
Come esprimervi le commozioni e l'ardore, con cui sono andato ricercando da capo a fondo le ripe e i campi vicini, riconoscendo e segnando a dito le siepi, gli alberi, presso a' quali io avea inseguito tante volte le farfallette, o avea seduto ascoltando la melodia de' rosignoli.
Simile moto d'affetto e direi quasi simile ritmo, ma con tanto maggior ala, sarà nella pagina di Jacopo a Lorenzo sui suoi colli e sui luoghi tutti a lui cari che serbano tante dolci rimembranze della sua giovinezza. Nella medesima pagina del Bertola è una frase come questa: «Illusioni, dirà taluno; lo siano: son care e preziose quanto la realtà»; per non dire di certe analogie che si potrebbero scoprire tra certa prosa del suo volumetto clandestino e la Lettera a Psiche del Sesto tomo dell'io. Se pur non giunge nemmeno col Viaggio sul Reno non dico al capolavoro ma a un'opera in sé compiuta e definitiva, non è senza significato che al termine della sua esperienza d'arte il Bertola possa suggerirci nomi come quelli del Manzoni, del Leopardi, del Foscolo.
Quei nomi ed altri ancora italiani e stranieri si affacciano nelle pagine biografiche o critiche su Ippolito Pindemonte, che nella lunga e varia e pur pacifica esistenza ebbe a incontrarsi e a vivere accanto a grandi e minori spiriti dell'età sua, alle loro persone o ai loro libri, e riecheggiando tanti motivi della letteratura del tempo nel suo non mai intermesso esercizio del poetare, uscì talora in accenti che sembrano preannunciare toni ed immagini di altra ben maggiore poesia. Come in un placido estuario confluiscono, diremmo, nell'opera sua se non tutte tante correnti della letteratura settecentesca, sì che così facile è rintracciarvi fonti, reminiscenze, derivazioni; e del tutto scoperto, tale da non offrire novità al lettore e al critico, è il lavoro pindemontiano, che ci fa nella sua diligenza ed equalità desiderare talora l'irrequietezza di un Bertola, quella ricerca di un'impressione, di un'immagine non consueta e più schietta. Nessuna irrequietezza né inquietudine né artistica né morale o politica in quest'uomo, che pur visse in un'età di crisi e di rivoluzione e sembrò, non soltanto all'Albrizzi, «non appartenere a quei tempi sciagurati», dall'animo «sempre per se stesso tranquillo», fedele al «metodo di vita» che si era scelto, «inalterabilmente uniforme» - e i «ritratti» che dell'uno e dell'altro poeta l'Albrizzi traccia con femminile perspicacia e malizia potrebbero nella diversità così evidente di calore avviare anche un critico a un giudizio non dell'uomo soltanto ma dell'opera.
Un lettore prima ancora che uno scrittore vorremmo dire il Pindemonte: ce lo suggerisce il Foscolo assegnandolo a quella classe intermedia fra i grandi maestri dell'arte e i mestieranti, che se talora, come nel caso suo, «produce un autore, è per lo più composta di coloro che potrebbero meglio chiamarsi colti lettori che non scrittori colti»; e il giudizio sottinteso o accennato nelle caute parole foscoliane è esplicitamente ribadito nel manuale del D'Ancona e Bacci, in cui si legge che «le grandi lodi che gli die l'età sua si sono andate gradatamente attenuando, e più che di un gran poeta i posteri ravvisano in lui l'effige di un cultissimo patrizio». Lo scrivere infatti, a cui costantemente attese (nulla dies sine linea, commentava Mario Pieri) fu anzitutto per lui una prosecuzione delle sue letture, un'adesione talora soltanto superficiale senza profondo impegno a questa o a quella forma venuta in favore nell'età sua, o una meditazione su motivi ed immagini di altri poeti più consone al suo animo rispecchiata in un discorso pacato e senza punte. Si spiegano così opere non rispondenti a un'esigenza interiore, quali, per citare una sola, l’Arminio (composta, si direbbe, per offrire un tema a cultori di letteratura comparata o a chi s'appassiona a contrasti veri o presunti di questa e quella «poetica»), o il procedimento divagante di non pochi suoi discorsi in versi che si snodano per digressioni o similitudini anziché scaturire da un centro vivo d'ispirazione (conformi a un gusto del tardo classicismo francese direi più ancora che italiano); e l'insistenza a risolvere anche i soggetti da lui più sentiti in personificazioni che adornano anziché esprimere l'intimo suo sentire, traducendolo in figurazioni estrinseche e in situazioni del tutto fittizie, come nel poemetto La Francia l'incontro e il colloquio con la Libertà, «la gran Dea» ravvisata alle «fattezze conte», la quale, gran degnazione!, «appo lei sul verde smalto de la man stesa e del chinato capo gli accennò ch'ei sedesse» e «tosto la bocca aprì d'ogni ben far maestra», o la prosopopea della Solitudine, che svolge un tema pindemontiano se altri mai, nonostante qualche spunto vivo e personale, in modi propri di una frusta retorica.
Anche è da notare come l'assiduo studio ed esercizio delle lettere non gli impedisse in più di un passo sia delle cose giovanili come di quelle della maturità di cadere in espressioni non brutte soltanto ma improprie e goffe. Maggiormente questi errori di gusto risaltano, e son stati più volte rilevati, per l'inevitabile raffronto, nella Epistola di risposta ai Sepolcri foscoliani: basti ricordare le «parole nere» che il poeta vede «correr su la parete ignuda» nel cimitero privo di monumenti di uomini illustri: «Colui che primo di que' grandi ad uno, / che nel bel chiostro dormono, con l'opre / somiglierà, deporrà in questo loco / la testa, e in marmi non minori chiuso / sonni anch'ei dormirà non meno illustri», in cui si ammireranno particolarmente l'inversione «di que' grandi ad uno» e il «deporre la testa» e i «marmi non minori» e i «sonni non meno illustri». Ma anche nelle più felici o più celebrate Poesie campestri possiamo renderci conto di una debolezza non casuale ma intima e costante leggendo fra l'altro la Sera, in cui ritornano pensieri e immagini del Cimitero campestre del Gray, tante volte riprese e variamente sviluppate sino al Foscolo dell’Ortis e dei Sepolcri: meglio col testo inglese dinanzi ci è dato avvertire quanto si stemperi il discorso originale nelle ottave pindemontiane, in cui così di frequente ricorrono frasi fatte e consunte a riempire il verso e la stanza, in questa ad esempio: «Forse per questi ameni colli un giorno / moverà spirto amico il tardo passo; / e chiedendo di me, del mio soggiorno, / sol gli fìa mostro senza nome un sasso / sotto quell'elee, a cui sovente or torno / per dar ristoro al fianco errante e lasso, / or pensoso ed immobile qual pietra, / ed or voci febee vibrando all'etra» - traduzione alquanto sommaria e infedele nella lettera e nello spirito dei noti versi dell'Elegia. «If chance, by lonely contemplation led, / some kindred spirit shall inquire thy fate, / haply some hoary-headed swain may say: / .. . «There at the foot of yonder nodding beech ... / his listless length at noontide would he stretch, / ... hard by yon wood, now smiling as in scorn, / mutt'ring his wayward fancies he would rove, / now drooping, woeful wan, like one forlorn, / or crazed with care, or crossed in hopeless love»».
Certo anche ben maggiori poeti (quandoque bonus ...) possono incorrere in errori di gusto, e altri minori non privi però di una loro originalità mal riescono a vincere una sorta di impaccio espressivo: gli errori invece che nell'opera tutta pindemontiana come in questo componimento si offrono in copia al lettore (e perciò trascuriamo di continuare nell'esemplificazione), sono indizio dell'abito di cui si è detto, di letterato scrittore che prosegue sulla carta il colloquio coi suoi autori, trovando talora qualche accento suo proprio e talaltra restando pago di espressioni che hanno del sommario e dell'approssimativo, perché gli è estranea l'esigenza della parola assoluta e originale della poesia, lo strenuo rigore della coerenza artistica. Ma è da aggiungere che nello stesso abito letterario di cui si è detto è pure il pregio del Pindemonte, la ragione della simpatia che lui vivo e sia pure affievolita e anche presso i posteri ha destato un'opera non eccelsa per lumi poetici e nella sua ampiezza e apparente varietà così monotona (come giustamente ha notato il Binni): ultimo poeta del Settecento, egli porta in quella lunga prova letteraria in cui per gran parte si risolve la poesia del secolo decimottavo, un carattere suo proprio, per una sua nota di intimità, non più letterato da salotto o poeta d'occasione, bensì scrittore umbratile, amico dei poeti e della poesia e che quest'amicizia coltiva più ancora che nella vita pratica in un lavoro che riempie e conforta la sua cara solitudine.
Vano perciò sarebbe cercare uno svolgimento dalle cose giovanili ai tardi Sermoni: difficile individuare sotto tante pagine un nucleo lirico che palese in una parte più, e meno altrove, giungerebbe in qualche momento ad una espressione compiuta e definitiva. Capolavoro del Pindemonte sono, si vorrebbe dire, i Sepolcri (del Foscolo); così sobriamente evocato vive in quell'Eliso dei poeti, che è il carme, anche questo amico dei poeti, il confidente a cui il Foscolo rivolge il discorso e che non resta un puro nome bensì sembra con la sua discreta presenza ricordarci quello spirito che abbiamo in lui avvertito. Se poi questo giudizio sembrasse scherzoso o irriverente (ma non è), si potrebbe additare come uno dei momenti felici della poesia pin- demontiana quel sonetto che nelle terzine ha del madrigalesco, ma sembra nell'apertura e nelle vaghe immaginazioni delle quartine superare con bell'impeto i limiti consueti del nostro poeta: «Sempre fu questo mar pieno d'incanti / per chi levò su questo mar le vele ...». Né si può tacere, s'intende, delle Poesie campestri, che restano, pur con le riserve che si son fatte, una delle testimonianze più significative dei gusti e degli affetti del poeta veronese, di quell'estrema Arcadia, in cui e per cui egli visse. Ricordiamo qualcuna delle ottave, delle già menzionate Quattro parti del giorno, quelle in particolar modo che ci dicono del libero vagabondare del letterato solitario fra praterie e foreste popolate delle immagini dei suoi poeti. «Tale è l'incanto de' celesti carmi, / tal dolcezza nel sen mi serpe ed erra, / che un nuovo mondo allor mi cinge, e parmi / nuove forme vestir l'aere e la terra. / Già tutto mi s'avviva: i tronchi, i marmi, / ogni erba e fronda un'anima rinserra; / l'onda d'amor, d'amor mormora l'aura, / e intenerito il cor chiede una Laura. // Né men con l'altro di vagar mi giova / per abitata o per solinga strada, / e veder dame e cavalieri in prova / di cortesia venir, venir di spada, / mostri di forma inusitata e nova, / caste! che sorga d'improvviso o cada, / opre d'incanto, ove maggior si chiude, / che tosto non appar, senso e virtude. // ... E talor gioverà per vie novelle / porlo, e piagge tentar non tocche avanti ; / perdermi volontario, e di donzelle / smarrite in bosco e di guerrieri erranti / i lunghi casi e le vicende belle / volger nell'alma, e sognar larve e incanti; / poi, riuscendo al noto calle e trito, / goder del nuovo discoperto sito». Ricordiamo (e chi non la ricorda?) La Melanconia, che nelle esili strofette, punta ultima della chiarezza arcadica, vorrebbe attingere con quella sua forma semplicissima ed elementare l'intimo fondo delle Poesie campestri, anzi dell'anima pindemontiana, e pur in questo discorso scarnito ed essenziale non evita in qualche punto l'improprio e l'approssimativo e non supera nell'insieme un effetto di graziosa levità e di limpida precisione. Maggior ala sembra avere il «grave suo nuovo stile» nell'ode Alla luna, in cui la melanconia o «leucocolia» («che è come dire una bianca tristezza») trova un mito appropriato nella luna a cui il poeta si volge in un discorso vario e sinuoso indugiante su immagini così delicate quali di rado ebbe a trovare, e tale da darci almeno in qualche stanza quel senso di intimità e di raccoglimento che era la nota sua più vera.
Ma neppure in quest'ode, la perla delle Campestri, il poeta sa rinunciare a divagazioni e personificazioni, per l'atteggiamento letterario retorico che assume sempre dinanzi alla sua materia quando prende a far versi. Perciò superiori alle Poesie sono le Prose campestri, nelle quali quel che era in lui di poetico trova la sua forma più adeguata, ed egli sa dirci, come mal sapeva in poesia, del gusto suo della natura, della solitudine. Così era accaduto al Bertola; ma il Pindemonte non tanto ricerca il paesaggio inedito, la nuova prospettiva, l'effetto coloristico, quanto si compiace di analizzare i moti del proprio animo, le ragioni del piacere che egli prova fra i boschi e fra i campi. Sono, queste minori Réveries d'un promeneur solitaire, dei «saggi» a cui non è stata estranea la lezione dei Saggi baconiani (che il Pindemonte cita nella Dissertazione su i giardini inglesi) e di critici e filosofi inglesi del Settecento: l'impressione si sviluppa nell'analisi e trova nell'analisi il suo appoggio e la sua giustificazione; ne nasce una prosa di non grande respiro ma dotata di un suo equilibrio fra diverse tendenze, critica e poetica, di una poesia della quale lo scrittore riconosce la legittimità contrapponendola, libera poesia in versi o in prosa, alla convenzionale poesia d'occasione legata alle consuetudini del vivere cittadino. È stato più volte citato come uno degli esempi più caratteristici di questa prosa e delle piccole scoperte pindemontiane questo passo:
Quando m'entra nelle stanze per la finestra l'odor del fieno tagliato, non è già il solo piacer de' sensi ch'io gusto, benché scossi molto piacevolmente, ma in quell'odore io veggo come una descrizion compendiosa ed energica di tutte le delizie della campagna. Se qualche mattina il canto degli augelletti più forte del solito mi risveglia, quel ch'io non vorrei che per altra cagione accadesse, non è già quel canto che allora mi piaccia, ma veggo quasi epilogata in esso la piacevol giornata che passar dovrò. Tanto piace all'anima l'essere avvisata improvvisamente e d'ogni cosa in un solo istante!
E ancora della stessa Prosa sarà da ricordare questo preleopardiano elogio dell'ignoranza, fonte di gioiose scoperte, di grate immaginazioni:
Veggo un torrente: niun mi dica donde viene, e sin dove giunge. E che è mai dietro a quel colle? O ch'io noi sappia, o voglio chiarirmene io stesso ... Quel bosco io mi guarderò bene dall'aggirarlo tutto, e dal conoscerne ogni parte interna, spogliandolo dell'orror suo misterioso. Mi guarderò ben di sapere che fabbrica quella era, di cui più non veggo che bizzarre e romanzesche ruine: la verità non sarebbe mai così bella, come la produzione dell'immaginazion mia. E tu, o bellissimo Adige, credi tu che le onde tue chiare, benché profonde, maestose, benché veloci ed amabili, benché prepotenti, credi che mi piacerebber tanto, se le sinuose tue rive, celandomi per qualche tempo quegli oggetti cui vado incontro, non eccitasser la mia curiosità, ed io non sentissi prima del piacere d'una nuova scena il piacer forse maggiore dell'aspettarla ?
Ma è pur da ricordare la pagina tutta (riportata in questo volume) sul piacere che il cittadino prova ritrovandosi fra i campi, sulla cultura che diventa essa stessa elemento di quel piacere:
La stessa coltura della mente fa scoprire, o gustar meglio molte bellezze, che inosservate si rimarrebbero, o non degnamente assaporate nella primitiva rozzezza. Mi piace questo ruscello, m'innamora quel prato; ma certamente i versi di quello spirito raro d'Orazio, i versi di quell'incomparabile anima di Virgilio mi fan mormorare più dolcemente il ruscello, mi fan verdeggiare il prato più frescamente. E diciamo anche che il prato e il ruscello ci rendono alla lor volta più belli ancora i versi d'Orazio e Virgilio: come i paeselli dipinti c'insegnano a gustar meglio gli originali, e gli originali con debita ricompensa i paeselli dipinti.
Il Pindemonte saprà descriverci la varietà dei paesaggi intorno alla sua Verona:
Questi colli parte son coltivati, ed a maraviglia, parte, come petrosi, non possono essere. Quindi varietà di scene; scorgendosi fianchi squarciati dai lavori delle cave, e nude pendici solamente ospitali alle capre, e vicino ridentissime coste, dai festoni delle viti sino alla sommità inghirlandate, festoni che dal giallo della messe tramezzati sono; mentre in altra parte si contrappone il verde pallido degli ulivi a quello più vivo di varie maniere di piante, qua sparse, e là insieme aggruppate .. . Tutto è poi seminato pittorescamente di biancheggianti case, alcune delle quali son nobilissime abitazioni, che rompono con la verdezza de' campi, e le masse distinguono del gran quadro;
e saprà pure dire bellamente del diletto offerto dalle scoperte sempre nuove di una passeggiata tra i monti:
Le passeggiate tra i monti vantano anche questa prerogativa; che non si torna mai per la medesima strada; benché si torni per la strada medesima, avendo sempre gli angoli delle montagne aspetti diversi: oltre che basta la differente ora del giorno, basta qualche nuvoletta nel cielo, che ad una porzione de' raggi del sole chiuda la via, a generar varietà, e a farci nuovi sembrare gli oggetti ancora più noti.
Né stoneranno fra questi spunti paesistici riflessioni sulla poesia e sulla fantasia o sul sapere sodo e reale della gente incolta dei campi:
Ciò che saper bisogna all'uom di campagna, a formar viene tal massa di cognizioni, che può dirsi una scienza vasta, a rispetto della profonda e generale ignoranza di tanti uomini della città, dai quali nulla hai ad apprendere ... Se poi, fuori dell'arte sua, è assai ristretto il circolo delle sue idee, queste son molto più chiare e più giuste, che in una gran parte del popolo cittadinesco. Del che si veggono due ragioni: l'una è questa, che colui che esercita la mente in un'arte, tien sempre, anche fuor di essa, più discrezione e giudicio, che non quegli che lascia in un totale ozio le sue facoltà; l'altra, che nel contadino il lume naturale, non offuscato dalle infinite opinioni torte delle società umane, ha una forza molto maggiore. Non sa il contadino tante cose, cioè non sa tanti errori;
o questo accenno al Bettinelli nel ritiro veronese («Convertiva i giovani a Dio nella chiesa, e all'arti belle e al buon gusto nella sua stanza»). È qui, in questa zona media fra riflessione e fantasia, poesia e prosa, il migliore Pindemonte, che in un momento particolarmente felice della sua vita, una convalescenza in campagna, giunge a fissare ed approfondire sin dove gli era permesso, uno stato d'animo nel quale l'idillismo arcadico trascolora in preromantica fantasticheria, l'edonismo settecentesco si affina mercé una compiaciuta riflessione.
Quel momento, quella condizione d'animo il Pindemonte vorrebbe rinnovare nelle Epistole. in un discorso a mezzo tra prosa e verso, e perciò non molto distanti dalle Prose campestri, «saggi» anch'esse a cui soltanto dovrebbe conferire un accento di maggiore intimità il loro carattere di lettere e che, ove non soffrano dei difetti soliti del linguaggio poetico pindemontiano, possono per qualche passo essere poste accanto a pagine delle Prose. Discorsi in versi, s'intende, piuttosto che poesia secondo una tradizione che egli fa propria senza sostanzialmente rinnovarla e soltanto infondendovi a tratti un suo spirito di gentilezza e di affettuosità. Così nel rifacimento del mito di Orfeo e di Euridice, là sopra tutto dove si dice della discesa della giovane donna agli Elisi, della sua meraviglia, del farsi incontro a lei di una schiera di altre spose estinte per morte immatura, prima fra le altre Alceste:
Ed ecco aprirsi le felici al suo piè valli dipinte, i boschetti odoriferi e tranquilli: ecco un etere puro, un roseo giorno, un ciel sereno, un temperato sole, che mai gli occhi non sazia e sempre splende. In danze, in canti, in toccar lire ed arpe si diportan quell'alme, e più che il resto, è l'amarsi, che fanno, il loro Eliso.
Così nell'epistola A Elisabetta Mosconi, il ritratto delle due giovinette, figlie dell'amica, la pagina più poetica forse delle Epistole, che riportiamo qui per intero.
Ambe di beltà fresca, ed ambe ornate
d'amabile virtù, dar però volle
all'alme loro il del tempra diversa.
Pel sentier della vita il pie Clarino
move danzando: innanzi a lei stati sempre
alto su l'ale d'or lieti fantasmi,
e tutte innanzi a lei ridon le cose.
Piagge abitate, aperti campi, siti
cerca lucenti: o de' più ricchi prati
nel variopinto sen tesse ghirlande;
non di viole pallide, o di foschi
giacinti, ma scegliendo i fior più gai.
Giorno così d'oscure nubi avvolto
non sorge che pur chiaro a lei non sembri.
Spera più che non teme; e quando ascolta
chi dell'uman viaggio i guai descrive,
le par che molto al vero aggiunga e voglia
quasi tragico autor, compunger l'alme.
Valli rinchiuse, opachi boschi e muti
cerca Lauretta: il Sol che muore attenta
guarda, e in mar chiude: ove con rauco sente
incessante rumor cadere un'onda,
fermasi, e l'invitato orecchio porge;
o il collo alquanto piega, e il guardo innalza,
e nelle varie colorate nubi
l'estasi pasce che le siede in volto.
Della femmina errante, in cui s'avviene,
la dolorosa storia ascolta, e crede:
ode squillar sul monte il vigli corno
de' cacciatori, e all'inseguita lepre
una lagrima dà. Ma quando splende
in notte estiva la ritonda luna,
dalla finestra, onde mal può staccarsi,
e dell'occhio, e del cor l'argenteo segue
tacito carro, e se medesma oblia.
Possiamo per questa gentilezza, per questo indugiare della sua immaginazione su figure di giovinette, ricordare pure la più antica canzone per una fanciulla inglese, che tanto piacque al Foscolo e che rinnovando modi della canzone petrarchesca (anche questo filone si accoglie nell'opera del Pindemonte) li trasporta essi pure su di un tono minore discorsivo, non troppo diverso da quello delle posteriori Epistole. Ma anche passi come quelli sulle figliole di Elisabetta Mosconi e qualche altro delle Epistole che rampollano dal fonte più schietto del suo sentire, non giungono a svolgersi in un componimento intero, facendo difetto sempre al Pindemonte la robustezza di un discorso coerentemente svolto secondo il dettato di un motivo dominante. Perciò non nelle Epistole, non negli stanchi Sermoni, bensì nella traduzione dell'Odissea è la conclusione del suo amoroso studio della letteratura: soltanto in un testo non suo egli poteva trovare un appoggio, un sostegno e diremmo un conforto al suo lavoro, non, s'intende, in un testo qualsiasi ma in uno consono al suo sentire, in cui con maggiore abbandono e sicurezza gli fosse dato tracciare quadri, scene, figure conformi a quell'idillio patetico verso cui convergevano costantemente le sue fantasie. «Non tradusse per tradurre» bene ha detto il Valgimigli «tradusse perché nella poesia dell' Odissea sentì una sua poesia ... E tradusse appunto per esprimere codesta sua poesia». «Possiamo essere certi» sono ancora parole del Valgimigli «che mai egli avrebbe tradotto l'Iliade-, o con visibile sforzo l'avrebbe tradotta, mal superando dissonanze che sarebbero state gravissime. E invece il Maspero come tradusse l'Odissea avrebbe potuto tradurre anche l'Iliade: restando fuori dell'una come dell'altra allo stesso modo». E già il Pindemonte stesso aveva confessato nell'Epistola Ad Omero come troppo superiore alle sue forze fosse l'Iliade, mentre poteva confidare di rendere nei suoi versi la luce più mite dell' Odissea.
È ver, che quando il sì fatale ai Greci sdegno tu canti del Pelide Achille, sole sei tu, che raggi ardenti e forti scocca in furia dall'alto, e audace troppo, mirando allora in te, fora il mio sguardo. Ma se racconti del ramingo Ulisse il diffìcile ad Itaca ritorno, come sole che piega inver l'occaso, benché grande non men, così ritieni della tua luce i più pungenti dardi, che vagheggiarti io posso, e di te spero con italo pennel trar qualche imago.
Si ricordò certo così scrivendo della nota pagina dell'autore del Sublime, il quale aveva nell'Odissea ravvisato un'opera propria della vecchiaia, in contrasto con l'Iliade, composta nel vigore dell'età e paragonato l'Omero cantore di Ulisse al sole che tramonta. E per vero questa fantasia critica della vecchiaia, del tramonto, degli «affetti miti e soavi», in cui «rallentando si sciolgono gli affetti concitati» degli anni più vigorosi, ben si conviene anche al poeta traduttore, a questa maturità della sua vita, a questo suo non inonorato tramonto. Era nell'Odissea una vena di ricordi e una vena di effusione sentimentale che si confondeva con la sua antica e costante propensione. È di Omero o suo questo verso: «Ambi un vivo desir sentian del pianto»? E tanti altri in cui torna un simile motivo? È da avvertire peraltro che non tutto nell'Odissea è egualmente riuscito: permangono gli sforzi, le lambiccature d'espressione, le false grazie che tante volte gli son state rinfacciate, così che si può desiderare anche qui un'unità di tono, una fluenza continua nel racconto. Tanto meglio si può apprezzare questa poesia quando non per gusto frammentistico ma accompagnando il poeta stesso nel suo lavoro ci si soffermi su zone ben delimitate in cui l'adesione del traduttore all'originale è più piena e che vengono a essere i momenti più veraci e più schietti della poesia pindemontiana. Valga di questa lettura antologica che permette di essere più giusti verso il nostro autore, questo solo saggio:
Ci portammo oltre, e de' Ciclopi altieri che vivon senza leggi, a vista fummo. Questi, lasciando ai Numi ogni pensiero né ramo o seme por, né soglion gleba col vomero spezzar; ma il tutto viene non seminato, non piantato o arato, l'orzo, il frumento e la gioconda vite, che si carca di grosse uve, e cui Giove con pioggia tempestiva educa e cresce. Leggi non han, non radunanze, in cui si consulti tra lor: de' monti eccelsi dimoran per le cime, o in antri cavi; su la moglie ciascun regna e su i figliné l'uno all'altro tanto o quanto guarda. Ai Ciclopi di contro, e né vicino troppo né lunge, un'isoletta siede di foreste ombreggiata, ed abitata da un'infinita nazion di capre silvestri, onde la pace alcun non turba; ché il cacciator, che per burroni e boschi si consuma la vita, ivi non entra, non aratore o mandrian v'alberga. Manca d'umani totalmente, e solo le belanti caprette, inculta, pasce. Però che navi dalle rosse guance tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno cerchi fabbro di nave a saldi banchi, su cui passare i golfi, e le straniere città trovar, qual delle genti è usanza che spesso van l'una dell'altra ai lidi, e all'isola deserta addur coloni. Malvagia non è certo, e in sua stagione tutto darebbe. Molli e irrigui prati spiegansi in riva del canuto mare. Si vestirìan di grappi ognor le viti, e cosi un pingue suolo il vomer curvo riceverla, che altissima troncarvi potrìasi al tempo la bramata messe. Che del porto dirò? Non v'ha di fune né d'ancora mestieri: e chi già entrovvi, tanto vi può indugiar che de' nocchieri le voglie si raccendano, e secondi spirino i venti. Ma del porto in cima s'apre una grotta, sotto cui zampilla l'argentina onda d'una fonte, e a cui fan verdissimi pioppi ombra e corona.
Il lettore potrà per conto suo proseguire nella scelta: ma già nell'aura di solenne e pacato idillio che si leva da tutti questi versi avrà avvertito quale sia nei momenti più alti lo spirito della traduzione pindemontiana. Cosi anche il poeta delle Poesie campestri trovava ricantando nel proprio linguaggio il discorso di poeta di altra lingua l'espressione più compiuta e più varia dell'animo suo e, come il Pagnini nei Bucolici, sublimava il gusto settecentesco dell'idillio trasportandolo nel quadro della poesia antica. Tanto più perspicace di quanto egli non sarà quando ai Sepolcri foscoliani opporrà il grave ed incongruo monito che tutti conoscono, il Foscolo fin dalla lettura dei primi saggi della sua Odissea. aveva riconosciuto in questa traduzione l'opera a lui più congeniale, quella che egli doveva ad ogni costo proseguire e condurre a termine e da cui gli sarebbe venuta la gloria più vera. «Vi dirò» scriveva da Verona all'Albrizzi il 17 giugno 1806 «che ho riveduto il Cavaliere, il quale mi lesse l'Odissea, bellissima tra le sue belle cose, e quella che al mio parere gli farà onore davvero; perché di cose tenui e volanti stampò, se non molto, certo abbastanza; e per la tragedia non è nato, ché eleganza e nerbo, affetto e passione sono cose diverse: onde consigliatelo e comandategli di continuare questa traduzione di cui manca l'Italia».
Fin qui giunge, vorremmo dire, la poesia del Settecento, o più precisamente l'esperienza letteraria designata con quel termine non cronologico ma metaforico, della quale abbiamo tentato di segnare il carattere e i limiti (tralasciando non soltanto la poesia nuova dell'Alfieri ma l'importante esperimento cesarottiano): ma è pur da far cenno di alcuni poeti, la cui opera è intimamente congiunta alla crisi dell'ultimo decennio del secolo, tanto più sensibili, quale che fosse la loro parte, alle vicende del tempo, che non gli ultimi poeti della Venezia, di cui si è parlato, paghi di rinchiudersi di fronte al presente in una passiva fedeltà alla tradizione. Prima fra essi Diodata Saluzzo, la cui apparizione nel mondo delle lettere coincise con l'irrompere della guerra e della rivoluzione in Italia e che festosamente accolta anche dai maggiori e più gravi poeti portò con l'opera sua, nobilissima giovinetta poco più che ventenne, non già accenti originali di poesia nuova (come sembrò a tacer d'altri a un Parini e a un Alfieri) bensì la freschezza e schiettezza del suo animo giovanile, quale si svela nel primo suo libro di Versi, pubblicato nel 1796. A quel momento, a quella presentazione che faceva di se medesima con compiacimento eppure con profonda serietà, di poetessa chiamata ad una missione, consapevole di continuare a un tempo le tradizioni della sua famiglia e quelle della poesia italiana, rimase per sempre legata nell'animo suo e in quello dei suoi lettori, ancora negli anni più tardi designandosi, nel parlare di se stessa in terza persona, come «la Sibilla alpina». E un personaggio, meglio che una personalità poetica essa fu agli occhi propri e agli altrui, un personaggio in cui si congiungevano nobiltà e letteratura, educazione classica e gusti tardo-settecenteschi e a cui come tale sembrava doveroso rendere omaggio, anche se ai più profondi moti ideali da cui ebbe origine il rinnovamento letterario ottocentesco essa rimase sostanzialmente estranea, tenendosi in disparte e coltivando le lettere con grande impegno senza dubbio e pur sempre senza superare, sia detto con reverenza, un fondamentale dilettantismo. Che cosa rappresenta se non una mera curiosità nella storia letteraria dell'Ottocento un poema come l’lpazia, pubblicato nell'anno medesimo dei Promessi sposi ? Di fatto uno svolgimento, quale ci offrono poeti veri, non è dato rilevare nei molti suoi volumi di versi e di prose, e nemmeno un affinamento progressivo dell'espressione: essa è già tutta, se pur scrisse talora qualche componimento migliore, nel primo suo libro, nel polimetro sulla guerra, vibrante di passione patria e familiare:
Dolci compagni dell'ore più liete,
prole dei forti, fratelli, sorgete!
Voi dalle mura turrite ed antiche
sciogliete scudi ed elmi e loriche.
Viene dai monti terribile guerra,
tutta di sangue si copre la terra;
ve' ve' nitriscon frementi destrieri
già già dei monti negli alti sentieri;
gallica schiera sull'Alpi s'affaccia:
ve' ve' la tromba che morte minaccia!
Dolci compagni dell'ore più liete,
prole dei forti, fratelli, sorgete!;
nella chiusa almeno del sonetto All'Italia nel 1796: «I' t'offro i carmi alla stagion del pianto; / ma canta il cigno allor che muor, né fia / chi vieti al cigno moribondo il canto»; nella prevalente intonazione ossianica-cesarottiana. È questo l'ambito del gusto in cui si formò ed entro il quale sempre rimase, anche in quelle storie o leggende medievali, di un medioevo del tutto indeterminato e generico, che ben possono avere come epigrafe o prefazione la sua ode più famosa, Le rovine: un componimento di stampo fantoniano incerto tra un fondo indubbiamente autentico per schiettezza d'impressione e una non meno indubbia maniera, fra alcuni accenti vigorosi e fioriture patetiche o romanzesche, che fan pensare alla fantasiuccia di una collegiale. Lo addusse, è noto, ad esempio di perfetta lirica romantica il di Breme, come «saggio di quella poesia che deriva tutta la sua efficienza dai costumi, dagli effetti e ... dal sapore di quelle moderne età, che han pur tanto in sé di grandioso, di patetico e di risplendente»: dimenticava, e han dimenticato quanti allora e in tempi più recenti han discusso, noiosissima discussione, sul romanticismo o il classicismo della scrittrice, che lungi dal- l'iniziare o precorrere la nuova poesia, con Le rovine e le altre odi o canti pseudo-medievali, anteriori o posteriori alla polemica romantica, la Saluzzo si conformava allo style troubadour, che nell'anno 1816 e tanto meno in quelli successivi non era una novità, ed era piuttosto un riflesso di gusti preromantici, crepuscolo di una vecchia letteratura piuttosto che alba di una nuova.
Certo in quelle e nelle altre sue poesie è dato seguire uno degli ultimi sviluppi del gusto settecentesco, come fa il Binni accentuandone forse più che non si convenga gli aspetti positivi, e rilevare forme e modi del linguaggio poetico del secolo decimottavo, variamente e con nuove intenzioni ripresi e composti dalla poetessa piemontese, sia che perduto ormai il gusto musicale del Settecento, ella tenti di volgere con effetto più che dubbio ad altro fine le cabalette metastasiane («Difendi o tu che 'l puoi, / i fidi servi tuoi, / tu che risplendi ed animi / un innocente cuor») - ma non diremo col Binni che ella per questo si avvii verso la romanza di Verdi, bensì, se mai, verso quelle di un F. M. Piave (che non s'identifica con la musica verdiana) - sia che trovi un più sicuro appoggio nella lezione del Fantoni o in genere del neoclassicismo, che talora le concede di esprimere in forma concettosa qualche suo ben radicato sentimento, qualcuna delle immagini che «pittrice antica di vicende e d'armi» le piace vagheggiare. Valgano come saggio due strofe dell'ode postuma Ad Alessandro Manzoni su argomento che toccava corda tanto sensibile del suo interlocutore e che possono per un altro verso richiamarci al Carducci.
S'assomiglia la gloria a vette gelide, che da lungi vedute al vivo sole, di gemme e d'ostro ricoperte levansi superbe e sole.
Ma vuota nube le incorona e imporpora;
ma la falda ingemmata aspro ha 'l cammino: l'ammira da lontan ma non accostasi il pellegrino.
Ma nella incertezza linguistica e stilistica di tutta l'opera sua (nella quale, pur ammirando, il Croce riteneva non fossero versi di viva bellezza e di schiette immagini non trovandosi in essa cose da notare per questo riguardo) ci soffermano sopra tutto per vigore morale certe confessioni come quelle dell'ode A Teresa Bandettini, storia della sua vocazione poetica e del silenzio angoscioso dopo la rovina dei suoi re, il dolore della sua patria, e in particolare i sonetti, riportati in questo volume, Alla chiesa di Superga, il più noto di tutti, e All'amica afflitta: «Io ben so come doglia immensa e prima ...». Qui e poche volte altrove l'educazione e il lungo esercizio letterario le han concesso di dar voce adeguata a convinzioni ed affetti seriamente vissuti.
Tanto più ristretta la fama di Edoardo Calvo, che non sembra aver oltrepassato i confini del suo Piemonte: né ampia l'opera che si chiude nel giro di pochi anni, ma per le cose migliori, che non sono molte, improntata di un suo non vistoso ma sicuro carattere e condotta fra così agitate vicende con un'intima coerenza. Considereremo il poema volterriano Le follie religiose soltanto come un documento e un puro valore aneddotico attribuiremo ad altre cose sue: non già alla «canzone patriottica» Passapòrt d'ij aristocrat, un inno rivoluzionario, la Marsigliese del Piemonte, scaturito, sentiamo, dall'intimo petto del poeta, certo una delle voci più schiette e più vibrate della rivoluzione italiana, e l'esordio vero della breve stagione poetica del nostro autore. Il quale non aveva dietro di sé tradizioni poetiche dialettali riconosciute e illustri come quelle di altre regioni d'Italia, e nell'intonare il suo inno che doveva infiammare i concittadini si rifaceva al gusto di quei canti, satirici talvolta, ma più spesso e felicemente epici e patetici, in cui risuonano taluni degli accenti migliori della poesia piemontese, quali il notissimo Barone di Leutrum, rievocazione del prode soldato tedesco, per tanti anni al servizio di casa Savoia, fedele al suo re ma non meno alla sua fede luterana, che non rinnega nemmeno in punto di morte, nemmeno per invito del sovrano («Barun Litrun s' a j'à bin dit: Sia ringrassià vostra corunha. / Mi poss mai pi ruvé a tan; o bun barbet, o bun Cristian» [barbet: barbette, valdese, qui protestante; Cristian: qui cattolico]) o quello gentilissimo su Carolina di Savoia, la principessa giovinetta andata sposa al duca di Sassonia e morta poco dopo le nozze e sul suo dolente distacco dalla famiglia e dalla sua Torino (ne trasse la sua più bella novella Guido Gozzano): «Tuchè-me 'n po' la man, me cari sitadin, / per vive che mi viva vedrò mai pi Turin!». Al Passapòrt seguiranno le Favole, con le quali il Calvo, pur non rinnegando gli ideali che eran sempre i suoi, disacerberà la sua amarezza di giacobino deluso con caricature gustose di politici improvvisati, di dominatori prepotenti e fatui, e l'abusato «genere» settecentesco si atteggerà sotto la sua penna con nuove forme, poiché la favola si fa apologo trasparente contro determinati individui e determinate situazioni, eppure non sconfina mai in mero discorso politico, in quanto saporosi particolari realistici precisano e ravvivano il racconto trattenendolo dal diventare una semplice esposizione di fatti o di idee o lo sfogo di un momento: quei tacchini, quelle api, quei mosconi, quei calabroni, quei merli e quegli stornelli sono sì piemontesi e austriaci e francesi ma pur anche uomini-animali con una loro fisionomia, con loro atteggiamenti e linguaggio che non si dimenticano. E la perizia d'arte evidente nelle terzine delle Favole, dal linguaggio abilmente variato, si manifesta nell'ode Su la vita d' campagna, tutta affidata a un accorto gioco metrico, quasi una danza paesana, versione vernacola del tema antico e così caro al Settecento, l'elogio della vita rustica, eppur nel luogo comune non convenzionale per riferimenti precisi a un ambiente particolare, a una particolare condizione, alla campagna piemontese, al medico poeta che legge il suo Seneca sotto un castagno, che va alla ricerca di erbe medicinali, che assiste alle allegre danze sull'aia: non sarebbe dispiaciuta certo al Carducci, che l'avrebbe, se l'avesse conosciuta, citata insieme a una lettera del piemontese Baretti, come esempio di una verità modesta e autentica da opporre al troppo che di generico e manierato era ancora nella prima ode del Parini.
Si pensa per questo idillio arcadico, ravvivato da tocchi realistici e di color locale, a quadretti campagnoli di poeti contemporanei, un Meli o un Lamberti: e per vero può sembrare non privo di significato che questo volume dei lirici del Settecento si apra con la canzone del Guidi «O noi d'Arcadia fortunata gente» e si chiuda con l'ode del Calvo, quasi segnando entro questi limiti non soltanto cronologici, dagli Orti Palatini a una «cascina» piemontese, da un'Arcadia tutta cerimoniale, e cerimoniale solenne, a un'Arcadia senza cerimoniale ma non senza letteratura, il cammino della lirica settecentesca, fedele pur nella varietà di temi a un costante richiamo della sua vocazione idillica. Ma ben altri accenti risuonano in queste stesse ultime pagine coi versi di Ignazio Ciaia, che nei vari moduli elaborati dalla letteratura del secolo immette la sua passione di libertà, riuscendo a superare, come non avevano saputo letterati di maggior nome (basti citare il Fantoni) il diaframma opposto dalla letteratura, una letteratura rimasta fine a se stessa. Non li diremo per questo capolavoro di poesia, anzi nemmeno propriamente belli: mancano nei due componimenti che qui si riportano e negli altri suoi il freno dell'arte, il senso della parola precisa e definitiva, ed essi procedono piuttosto come un libero impetuoso discorso o come una vagante meditazione, prorompenti ex abundantia cordis e che proprio per quell'impeto del cuore, per alcuni accenti sopra tutto in cui più forte si avverte, ci attraggono e ci s'impongono. Sentiamo nell'uno e nell'altro, nell'esortazione all'amico, dalle strofe rapide e incalzanti, nel soliloquio notturno del prigioniero affidato alla più grave saffica la freschezza e il vigore di una fede nuova e rinnovatrice, che più altamente fa sentire e della vita e della morte e vai pure ad informare temi e motivi della letteratura del tempo, in più d'un passo almeno, anche se non riesce ad esprimersi in una poesia intiera e in sé conchiusa. Così è nell'esordio e nella chiusa della saffica, nella quale i motivi notturni del cosidetto preromanticismo acquistano verità e serietà, e in qualcuno degli angosciosi accenti frapposti fra quell'apertura e quella chiusa: così nell'ode A Carlo Lauberg, il capo, il maestro, il futuro vindice, nella quale anche le espressioni approssimative son travolte dall'ansia dell'attesa redenzione ed emergono dall'onda del discorso espressioni ed immagini singolarmente forti, le varie terre d'Italia, testimoni tutte della presente oppressione e dell'attesa libertà, la Francia verso cui si dirige l'amico, la Sacra Montagna vendicatrice dei diritti degli uomini e delle nazioni, l'Italia tutta che il Ciaia già vede risorta. Per questo nell'ode del poeta giacobino, che nel suo ideale di libertà supera i vecchi confini, sentiamo ben più che un preannuncio della poesia del Risorgimento, un preannuncio non soltanto per il grezzo contenuto ma per l'espressione in cui le forme settecentesche si avvivano per nuovo spirito e calore. Parecchi anni dopo, come è noto, sarà proposto a Gabriele Rossetti come intercalare obbligato dell'inno celebrante la concessa costituzione del 1820 il distico metastasiano «Non sogno questa volta / non sogno libertà»: ma dell'incontro di letteratura settecentesca, sempre viva nell'orecchio e negli animi, e degli spiriti e degli ideali del secolo nuovo, è certamente testimonianza più suggestiva e felice l'ode del Ciaia. Composta nel dicembre 1793 o all'inizio dell'anno seguente essa è bene già una poesia del Risorgimento.