LIPRANDO (Liprandus, Leoprandus, Liutprandus)
Non si conoscono il luogo e la data di nascita, da collocare verosimilmente verso la metà dell'XI secolo in territorio milanese.
Le fonti contengono infatti notizie e riferimenti riguardanti quasi esclusivamente gli anni della sua partecipazione al movimento patarinico, quando, nella seconda metà dell'XI secolo e nei primi anni del XII, nella diocesi di Milano si fronteggiarono aspramente lo schieramento filoriformatore, antinicolaita e antisimoniaco, e le forze avverse, antipatariniche e antiromane, tendenzialmente filoimperiali, che esprimevano istanze e interessi diversi, non solo religiosi, tra i quali aveva grande rilievo la difesa dell'autonomia della Chiesa ambrosiana sia da Roma sia dalle ingerenze imperiali.
Una notazione del cronista Arnolfo (l. IV, cap. 9) suggerisce un'origine sociale molto modesta di L., addirittura servile: "Liutprandus quidam presbyter nuncupatus, a progenitoribus ecclesiae vernula". L'attendibilità della notizia deve essere valutata con prudenza, tenendo conto dell'avversione di Arnolfo verso i patarini, ma trova parziale conferma in un'altra fonte di opposto orientamento politico e decisamente favorevole al movimento: Landolfo di S. Paolo (Landolfo Iuniore) - nipote e allievo di L., cui si proclama più volte legato da particolare affetto - scrive (cap. 57) che L. doveva la sua fortuna, avendone ricevuto "venditiones et privilegia", ai capitanei "de Bessana et de Porta Horientali atque Lomagna", gruppo parentale di estrazione capitaneale al quale apparteneva il compagno di lotte di L., Erlembaldo (Keller, 1995, p. 179). L'adesione di L. al movimento patarinico e il suo impegno militante in strettissima collaborazione con il dominus Erlembaldo potrebbero dunque aver trovato forti e decisive motivazioni nei legami di dipendenza e fedeltà personale tra L. ed Erlembaldo diventato, dopo l'uccisione di Arialdo (1066), capo del movimento e arbitro della situazione in città. Il cronista Landolfo Seniore (l. III, cap. 18) ricorda invece che L. sarebbe stato consacrato dall'arcivescovo Guido da Velate, contro il quale guidò nel 1057 una delle prime sommosse patarine. La notizia pare non inverosimile, anche se non verificabile, se si ricorda che la famiglia capitaneale cui apparteneva Erlembaldo era da generazioni legata vassallaticamente alla cattedra ambrosiana e suoi esponenti (tra cui il fratello di Erlembaldo, Landolfo) facevano parte del clero ordinario della cattedrale.
L. fu sin dalla prima ora un fervente sostenitore del movimento riformatore, che a Milano prese avvio con la predicazione di Arialdo nei primi mesi del 1057. Subito dopo il sinodo provinciale convocato quell'anno a Fontaneto da Guido da Velate, durante il quale Arialdo e Landolfo Cotta, contumaci, furono scomunicati, i patarini scatenarono in città violenti tumulti ai quali, con una parte del clero, partecipò anche L., che da poco si era unito ai patarini. Fin da queste prime schermaglie L. si dovette distinguere per la sua animosità se Landolfo Seniore lo accusò di essere addirittura l'ispiratore del tumulto (l. III, cap. 18).
L. faceva parte di quel gruppo non numeroso di chierici e sacerdoti milanesi che fornì anzitutto la guida spirituale al movimento, ma che spesso partecipò personalmente ai frequenti e sanguinosi scontri di piazza. Landolfo Seniore descrive i due compagni di lotta nel pieno dei tumulti: Erlembaldo, armato di spada e reggendo con l'altra mano il vexillum sancti Petri consegnatogli dal papa nel 1063 o 1064, con al fianco L. che impugnava come un'arma la croce, intento non a calmare gli animi ma a eccitarli all'attacco contro i nemici, verso i quali si scagliava egli stesso (l. III, cap. 30). La sua fedeltà a Erlembaldo e ai principî riformatori lo coinvolse nel declino del movimento patarinico e nella definitiva rottura con la cittadinanza, soprattutto con i ceti eminenti, insofferenti degli atteggiamenti dispotici di Erlembaldo, timorosi di essere estromessi dal governo della città e diffidenti dell'alleanza tra i patarini e il Papato, rafforzatasi dopo l'elezione di Gregorio VII (1073) e ritenuta potenzialmente esiziale per l'honor Sancti Ambrosii.
La perdita di consenso del movimento cominciò a manifestarsi fin dal 1072, ma i patarini non rinunciarono a compiere gesti clamorosi, destinati a suscitare un'opposizione sempre più aperta. L'evento che scatenò la reazione antipatarina fu la gravissima offesa recata, la vigilia di Pasqua del 1075, al clero ordinario che, accusato per l'ennesima volta di indegnità e allontanato dalla cattedrale, fu costretto a non amministrare secondo la consuetudine i battesimi; a farlo fu L., che usurpò così, secondo Arnolfo (l. IV, cap. 9), l'officium del clero ordinario. Questa "violentia", unita al risentimento antipatarinico provocato dal disastroso incendio che poco tempo prima aveva distrutto buona parte della città - evento che la voce popolare indicava come punizione divina delle empietà patarine - suscitò l'indignazione dei "cives, praecipue milites".
Pochi giorni dopo, nell'aprile 1075, Erlembaldo fu ucciso e i suoi ormai scarsi sostenitori cacciati dalla città. L. fu catturato e gli furono tagliati il naso e le orecchie. La morte di Erlembaldo provocò lo sbandamento del movimento, ma non spezzò il legame che lo univa saldamente a Roma. L. ricevette una lettera di apprezzamento e incoraggiamento da Gregorio VII, nella quale era appellato "martyr Christi", riconfermato, nonostante le mutilazioni, nella pienezza del suo ufficio sacerdotale e posto sotto la diretta giurisdizione papale, con facoltà di appellarsi direttamente a Roma.
Successivamente gli equilibri e gli schieramenti politici ambrosiani si modificarono profondamente. Fra i ceti eminenti prevalse un nuovo orientamento filoriformatore moderato, favorito dal riavvicinamento tra l'episcopato ambrosiano e i papi, sempre più decisi ad assicurarsi l'obbedienza di quella importante diocesi. Parallelamente il movimento patarinico, perdute nel nuovo clima cittadino le residue simpatie di cui ancora godeva, fu emarginato, anche a causa del mutato atteggiamento di Urbano II, pontefice dal 1088, assai più prudente di Gregorio VII nell'appoggio ai movimenti laici e alle loro azioni sovvertitrici dell'ordine. I patarini più intransigenti, e tra questi L., guardavano con crescente sospetto ai frequenti interventi romani in sede locale, richiamandosi, contemporaneamente e paradossalmente, tanto agli antichi ideali riformistici quanto al principio della difesa dell'autonomia della Chiesa ambrosiana insidiata da Roma, un tema particolarmente sentito dall'alta aristocrazia laica ed ecclesiastica milanese con la quale, dunque, i vecchi capi patarini si trovarono sostanzialmente in sintonia.
L. non abbandonò l'iniziativa riformatrice. Proseguendo l'opera, ispirata da Arialdo, di promozione della vita comune del clero, nell'ultimo decennio del secolo fondò, in una sua proprietà chiamata "Pons Guinizeli", una chiesa intitolata alla Trinità con una canonica dove, tra gli altri chierici, andò a vivere anche il nipote e allievo Landolfo di S. Paolo. La fondazione ottenne da Urbano II il privilegio di protezione apostolica. Le ulteriori iniziative dell'ormai anziano prete, così come sono narrate da Landolfo di S. Paolo, ne dimostrano il costante coinvolgimento nelle più importanti vicende cittadine (tra cui soprattutto l'elezione degli arcivescovi), il prestigio di cui ancora godeva presso una parte della cittadinanza grazie al suo passato militante e al "martirio" subito nel 1075, ma anche l'incapacità di accettare il definitivo venir meno del ruolo di mediatore tra Milano e Roma, da lui e dagli altri capi patarini esercitato nei decenni passati.
Il suo ruolo in città tuttavia non appare affatto marginale, anzi tensioni e conflitti che percorrevano in quegli anni la cittadinanza - impegnata nella definizione di nuovi equilibri sociali, politici e istituzionali sia nell'ambito urbano sia nei rapporti con i poteri extraurbani - si coagularono nuovamente intorno a L. in occasione della scelta del nuovo arcivescovo, quando nel 1102, con l'appoggio di Roma, fu eletto Grosolano, vescovo di Savona e vicario dell'arcidiocesi milanese, scelta che una parte dei ceti eminenti interpretò come l'ennesimo attacco romano all'autonomia della Chiesa ambrosiana.
L. fu l'anima dell'opposizione di una parte dei Milanesi - seppure probabilmente minoritaria - al nuovo vescovo. Le voci di "quedam turpia" circa l'elezione di Grosolano furono riferite a L. da alcuni milanesi, laici ed ecclesiastici; la decisione di chiedere al papa il rinvio della conferma del vescovo si formò dietro consiglio di Liprando.
Queste iniziative portarono allo scontro aperto e Grosolano convocò un placito contro L., accusandolo di aver scritto contro di lui al papa e imponendogli la restituzione del subcingulum, un ornamento pontificale riservato al clero cattedrale, che L. era solito portare durante la celebrazione delle messe, probabilmente per particolare concessione pontificia. L. rispose rivendicando la propria autonomia rispetto alla giurisdizione episcopale in forza della protezione pontificia accordatagli da Gregorio VII nel 1075 e negando la legittimità della nomina di Grosolano. Questo primo aspro confronto si chiuse con una formale sottomissione di L. che però non eliminò la tensione.
Lo scontro divampò nuovamente di fronte all'immutato atteggiamento provocatorio di L., deciso a negare in ogni modo l'autorità e la legittimità del presule, il quale in risposta vietò a L. di cantare messa e nel 1103 convocò un sinodo per denunciare e condannare i propri nemici; a Grosolano, che giurava durante il sinodo di non aver mai commesso atti contrari al pudore, L. rispose accusandolo di simonia, "per munus a manu, per munus a lingua, per munus ab obsequio" e dichiarandosi pronto a sostenere le sue accuse con la prova del fuoco.
La sfida lanciata da L. non poteva non suscitare i timori del vescovo; gli echi dell'analogo episodio di cui pochi decenni prima era stato trionfante protagonista Pietro Igneo a Firenze non dovevano essersi ancora spenti. I partigiani di Grosolano riuscirono in un primo momento a impedire che l'ordalia avesse luogo, ma la minacciosa pressione della folla costrinse il vescovo a tornare sulla sua decisione, consentendo lo svolgimento della prova ma facendone ricadere tutta la responsabilità - soprattutto di fronte al papa - sullo sfidante. Nel racconto di Landolfo di S. Paolo il cerimoniale della prova milanese presenta diverse analogie con quello del giudizio fiorentino sostenuto quaranta anni prima da Pietro Igneo contro il vescovo Mezzabarba; ciò non impedisce alla maggior parte degli studiosi (Barni, Miccoli, Rossini) di ritenere che la prova del fuoco abbia realmente avuto luogo, anche perché di essa vi è notizia in un'altra fonte, un calendario milanese risalente all'inizio del XII secolo (Miccoli, 1960, p. 40 n.). Non si può invece escludere che il rituale di accompagnamento dell'ordalia milanese sia stato dal cronista ricalcato su quello fiorentino.
La prova si svolse il 25 marzo 1103 davanti alla chiesa di S. Ambrogio; L., vestito dei paramenti sacerdotali, dopo aver ribadito le accuse al vescovo che cercava di ottenere una ritrattazione, la affrontò uscendone indenne tra l'esultanza della folla che vi assisteva. Nel giro di pochi giorni, però, il partito vescovile e filoromano riprese l'iniziativa, mettendo in dubbio l'esito della prova e provocando nuovi tumulti in città. Pasquale II, che aveva accolto con tutti gli onori Grosolano, allontanatosi da Milano appena saputo l'esito dell'ordalia, intervenne nuovamente per sciogliere l'intricata situazione ambrosiana. Nel marzo 1105 convocò un sinodo a Roma al quale L., ormai vecchio, dovette presentarsi per sostenere ancora una volta le accuse contro l'arcivescovo. Non avendo potuto giurare, come gli era stato richiesto, di essere stato costretto da Grosolano ad affrontare la prova, le accuse al vescovo furono respinte e Grosolano fu pienamente reintegrato nella sua diocesi. La delusione di L. e dei suoi fu cocente, ma non servì a sanare definitivamente le fratture tra i partiti "filoromano" e "ambrosiano"; Grosolano non riuscì neppure a tornare in possesso del palazzo e delle fortificazioni arcivescovili, occupati dal gruppo dirigente del Comune.
L. tornò a officiare presso la sua chiesa di S. Paolo in Compito, ma dovette poco dopo abbandonare Milano e si stabilì in Valtellina, probabilmente in seguito a un nuovo scacco subito dalla fazione ambrosiana, che costrinse anche Landolfo e altri esponenti della stessa parte ad allontanarsi dalla città. L., ammalato, si trasferì nel monastero di S. Pietro al Monte di Civate, dove lo raggiunse il nipote Landolfo di S. Paolo e da dove, insieme, rientrarono a Milano nel 1107. Il loro ritorno avvenne in un clima di diffidenza e di mormorazioni della fazione di Grosolano.
L. continuò a seguire le vicende cittadine dalla sua chiesa di S. Paolo in Compito; nel 1112 approvò la deposizione di Grosolano e, con molte riserve, la nomina del nuovo arcivescovo, Giordano da Clivio, espressione delle autorità cittadine e della loro ormai piena autonomia rispetto al potere politico dell'arcivescovo. Ancora una volta la scelta del nuovo arcivescovo provocò scontri di piazza e fratture cui L. non rimase estraneo.
Sentendosi prossimo alla morte, rimettendosi al giudizio divino per tutto ciò che aveva detto e fatto contro l'arcivescovo (Grosolano anzitutto, ma secondo Rossini anche il suo successore), chiese di essere portato nel monastero di S. Giacomo di Pontida, dove morì nella notte tra il 6 e il 7 genn. 1113.
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