SALVIATI, Lionardo
– Nacque a Firenze il 27 giugno 1539, quartogenito, da Giovambattista di Lionardo e da Ginevra di Carlo d’Antonio Corbinelli.
La famiglia, non ricca, vantava antiche origini toscane e importanti legami con i Medici. Come secondo nome, accanto a Lionardo, gli fu imposto al battesimo Romolo. Nella sua formazione umanistica, che accanto all’italiano e al latino comprendeva anche il greco, si giovò delle lezioni di Piero Vettori, insegnante dal 1538 nello Studio fiorentino, la cui impronta è visibile sin dal suo primo lavoro, dedicato al prozio Alamanno Salviati nell’agosto 1561 e stampato nel 1564 con un titolo (De dialogi d’amicizia Libro primo) che lasciava intravedere un progetto più ambizioso che tuttavia non fu attuato.
Le morti improvvise, a Pisa, del cardinale Giovanni de’ Medici, secondogenito del duca Cosimo, nel novembre 1562, e il mese dopo del fratello Garzia e della madre Eleonora di Toledo, diedero a Lionardo, noto sino ad allora solo negli ambienti di studio (la diffusione manoscritta del dialogo gli aveva guadagnato l’attenzione di Vincenzio Borghini e la frequentazione di Benedetto Varchi, che esercitarono su di lui profonda influenza), l’occasione per acquisire la protezione del sovrano: Salviati compose all’inizio del 1563 tre orazioni «confortatorie» in memoria del quattordicenne Garzia, il più giovane dei tre congiunti, di cui erano celebrate smisuratamente le pretese virtù. La seconda orazione suscitò una serie di annotazioni critiche da parte del ribelle Iacopo Corbinelli; contro di lui ebbero facile gioco, oltre alle invettive di Salviati che gli indirizzò una lettera al vetriolo, i versi di Varchi (venticinque sonetti e due epigrammi latini), di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, di Gherardo Spini, in cui Salviati è celebrato come il cigno attaccato dal corvo. Con il titolo Corbi i versi furono donati manoscritti ad Annibal Caro, preceduti da una lettera di Salviati.
Nel 1563 Salviati si recò per vari mesi a Pisa (non sono note le ragioni), dove fu colpito da problemi di salute tali da metterlo in pericolo di vita. Per iniziativa del console Baccio Valori, che si era avvalso di Vettori quale consigliere per le Lettere, Salviati tenne il 30 aprile 1564 un’orazione sul primato della «fiorentina favella» sia sugli altri volgari, sia sul greco e il latino. Sotto lo stesso consolato, Salviati «parlò [...] in due Lezioni della Poesia, come Peripatetico, avendone innanzi ragionato, come Platonico, Bastiano Antinori» (Salvini, 1717, p. 170). Ci è pervenuta la prima dissertazione, dedicata a Francesco de’ Medici, dal 1° maggio 1564 associato da Cosimo al potere: è un discorso sulla natura della poesia e non una lezione di poetica come il titolo (Della poetica lezion prima) lascerebbe intendere.
I servigi ai Medici non furono compensati dagli sperati favori: nel corso del 1564 Salviati ebbe la delusione di non essere scelto per il canonicato di Prato. Nel 1565, ammesso nell’Accademia fiorentina, fu nominato con Varchi consigliere del console Bastiano Antinori. All’esposizione di un sonetto di Varchi Salviati dedicò una lezione accademica e poco dopo, per i suoi funerali solenni (il letterato spirò il 18 dicembre), un’orazione che fu tra le ragioni che gli permisero nel marzo del 1566 di essere nominato console. Oltre alle attività accademiche di routine e a lavori d’occasione (come la traduzione dal latino dell’orazione di Vettori per Giovanna d’Austria), Salviati si adoperò perché il duca bloccasse il progetto veneziano di un’edizione rivista del Decameron (che era all’Indice fra i testi da riformare), riuscendo a far leva sull’orgoglio municipale. Per il Carnevale del 1567, ancora sotto il proprio consolato, scrisse una commedia in cinque atti di endecasillabi sciolti, Il granchio, recitata nella Sala del papa. È documentata del resto, anche in precedenza, una sua partecipazione all’organizzazione delle ‘mascherate’.
Nella stampa, la commedia è presentata come un dono di Salviati a Tommaso Del Nero, a sua volta autore della dedica a Francesco de’ Medici. La scelta di scrivere in versi, conforme, come il rispetto delle unità, alle indicazioni della Poetica aristotelica, è evocata nel Prologo: l’autore spiega di aver concepito dei versi che, come nella commedia latina, riflettono i «domestici ragionamenti».
Una seconda commedia, La Spina, di epoca incerta, fu stampata postuma a Ferrara nel 1592, con dedica a Giovanni Battista Laderchi, segretario di Alfonso II d’Este. Il testo è stavolta in prosa e, considerata la predilezione di Salviati per le commedie in versi, non si può escludere che la versione a noi nota sia solo un primo abbozzo.
Le commedie di Salviati sono rette dal medesimo principio di molti testi coevi: come nella commedia attica nuova sono prive di allusioni satiriche al presente; la tensione comica è affidata a battute circoscritte, ad allusioni sessuali e al gusto dell’intrigo ingarbugliato. Malgrado l’influsso del Lasca, Salviati ricorre all’abusato meccanismo dell’agnizione che l’amico raccomandava di evitare.
Il consolato, conclusosi con un’orazione di congedo dedicata a Borghini, diede prestigio a Salviati, che non mancò mai di esprimere nei discorsi la devozione sua e dell’Accademia ai Medici. Quest’attaccamento, pur se occasionalmente incrinato da qualche mossa maldestra, gli valse l’onorificenza di cavaliere cappellano di S. Stefano, di cui fu insignito, dopo avere presumibilmente trascorso l’obbligatorio anno di servizio a Pisa presso la sede dell’Ordine, nel giugno 1569. Per la ‘promozione’ del ducato in granducato, promulgata da Pio V nel dicembre, Salviati sfoggiò il titolo di cavaliere – a partire da allora stabilmente sui frontespizi dei suoi libri –, pubblicando nei primi mesi del 1570 un’Orazione intorno alla coronazione di Cosimo.
Dopo la stampa nel 1570 dell’Ercolano di Varchi, iniziò la circolazione manoscritta del Discorso di M. Ridolfo Castravilla nel quale si mostra l’imperfettione della Commedia di Dante. Contro al Dialogo delle Lingue del Varchi, che diede vita a una lunga polemica intorno al poema dantesco (a proposito della lingua e della discussa discordanza rispetto alle norme della Poetica di Aristotele). L’ipotesi che Castravilla fosse uno pseudonimo di Salviati circolò tra i contemporanei e ha trovato consensi anche in epoca moderna (Barbi, 1890; Rossi, 1898), ma è smentita da quel che Salviati sostiene nei suoi interventi sulla lingua, dall’orazione del 1564 sino agli Avvertimenti e al commento alla Poetica, dove le tesi di Castravilla sono puntigliosamente confutate.
Il cavalierato era prestigioso ma poco remunerativo: per questo Salviati, mentre svolgeva, con ripetute permanenze a Pisa, i compiti assegnatigli dall’Ordine, offriva senza esito, nel maggio 1570, i propri servizi ai duchi di Ferrara e di Parma. Per l’Ordine compose anche un’orazione recitata a Pisa «il dì 22 di aprile 1571 al Capitolo Generale», come si legge nella stampa dello stesso anno, con dedica a Francesco de’ Medici. Nel marzo del 1574 fu nominato commissario dell’ordine a Firenze, carica gravosa che mantenne sino alla sua soppressione (luglio 1575); nell’aprile dello stesso anno fu incaricato dell’orazione funebre per Cosimo nella chiesa di S. Stefano dei Cavalieri a Pisa. Alla ricerca di una sistemazione, ritenendosi poco stimato dal nuovo granduca Francesco, Salviati fu tentato di trasferirsi in Francia, al seguito del nunzio Antonmaria Salviati, a cui nel giugno del 1575 dedicò la stampa di Cinque lezzioni accademiche ispirate dal sonetto 99 del Canzoniere. Ma tale ipotesi, insieme al sogno irrealizzabile di divenire ambasciatore a Ferrara, fu scartata per la speranza di divenire cortigiano di Alfonso II, al quale si proponeva, tramite i buoni uffici dell’ambasciatore estense a Firenze, Ercole Cortile (per lui Salviati compose le Regole della toscana favella, inedite sino al 1991), di dedicare il commento alla Poetica. Le trattative, iniziate nel dicembre del 1575, si arenarono per una questione di titoli (Alfonso II pretendeva nella dedicatoria quello di «serenissimo»; ma Salviati sapeva che il granduca non riconosceva tale titolo al ‘rivale’ ferrarese), ma anche perché il lavoro non era terminato.
Al commento Salviati aveva iniziato a lavorare nel 1566 (lo si deduce dalla dedicatoria del Decameron del 1582), ma è possibile che fosse terminato soltanto il primo dei quattro libri previsti, l’unico tuttora conservato alla Nazionale di Firenze (ms. II.II.11), per il quale solo dieci anni dopo veniva chiesto e ottenuto l’imprimatur. Ma un decennio dopo Salviati si diceva ancora al lavoro; le sue carte, inedite, furono lasciate in eredità a Bastiano de’ Rossi perché le rivedesse e le pubblicasse con una dedica ad Alfonso II d’Este. Il manoscritto, per lo più non autografo ma con correzioni d’autore, giunge sino alla «particella» 50 (cap. V, 1449b 9). Pur se incompleto, il commento si dipana in oltre 600 facciate, dove sono affrontate rilevanti questioni interpretative: dal problema dell’imitazione a quello del verisimile, dai generi agli oggetti della poesia, dal fine della poesia alla discussione sulle forme. In un saggio introduttivo si discute della struttura, delle partizioni e del lessico. Il testo greco è seguito da una traduzione letterale, da una parafrasi più libera, dal commento.
Nell’estate del 1576 Orazio Capponi lo mise in contatto con Torquato Tasso, alle prese con la revisione della sua Gerusalemme. Salviati ne lesse due o tre canti esprimendo – in una lettera che il poeta definì «molto cortese» – un giudizio largamente positivo. Salviati compose una o due «scritture» per difenderlo da possibili critiche circa l’«ornamento», offrendosi di farne «onorevolissima menzione» nel commento alla Poetica (T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, Firenze 1852-1855, nn. 82-83). Tanta gentilezza è attribuibile al disegno di passare con gli Este, di cui Tasso era ancora il benvoluto poeta di corte. Caduta questa prospettiva, Salviati entrò al servizio di Giacomo Buoncompagni – generale della Chiesa, figlio del papa regnante Gregorio XIII –, conosciuto nel settembre del 1577 al battesimo di Filippo de’ Medici. Al suo seguito si trasferì a Roma, restandovi, pur se con frequenti ritorni a Firenze, sino al 1582 e divenendo di fatto, con le sue corrispondenze, un fedele osservatore del granduca. A Roma Salviati svolse pure, tra il 1578 e il 1581, le funzioni di «ricevitore» dell’Ordine di S. Stefano. Proseguiva comunque la sua vita di studioso: al di là di prose d’occasione, ottenne l’incarico di una nuova edizione del Decameron, che doveva sostituire quella del 1573, che era stata proibita. Ottenuto, grazie a Buoncompagni, l’assenso dell’Inquisizione, Salviati ricevette il 9 agosto 1580 l’investitura dal granduca.
Già collaboratore dell’edizione del 1573, Salviati era interessato al piano filologico e linguistico; nondimeno si prestò a un’operazione inqualificabile, di gran lunga più invasiva delle circoscritte censure dei «deputati» del 1573, sino a riscrivere i passi ‘sconvenienti’ e a inserire chiose moraleggianti. Salviati stesso, in una lettera al granduca del marzo 1584, ricorda di aver dovuto accettare le pressioni curiali. Va detto che una funzionale segnaletica e una variazione di stili tipografici (non sempre correttamente applicata), congiunta a una tavola in appendice su «Alcune differenze degli altri testi da quel dell’anno 1573 e dal nostro», informava il lettore degli interventi censori. L’edizione vide la luce con dedica a Buoncompagni nel 1582, per i tipi di Giunti, prima a Venezia quindi pochi mesi dopo a Firenze, con numerose correzioni.
Nell’ottobre del 1582 Salviati si unì alla brigata dei crusconi dando impulso alla trasformazione del consesso in Accademia della Crusca. Nel 1584 pubblicò, con il nome di Ormannozzo Rigogoli, il dialogo Il Lasca, una «cruscata» ove si mostra, che non importa, che la Storia sia vera. Ma le sue energie erano assorbite da un lavoro di altro tenore, gli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decameron; nel marzo del 1584 si recò a Roma per donare al dedicatario Buoncompagni, dal cui servizio prese congedo, un esemplare del primo volume, testé stampato a Venezia.
Nel primo libro, Salviati spiega i criteri seguiti per l’edizione 1582, giustificando l’esistenza di due archetipi, risalenti ad altrettante stesure d’autore, classificando i testimoni e spiegando i criteri per gli emendamenti e l’ortografia. Nell’ultimo capitolo si propone un excursus sulle espressioni del Decameron presenti in opere coeve: primo tassello del principio (estensivo rispetto alla teoria di Pietro Bembo) secondo cui tutto il Trecento deve considerarsi un’età aurea (tra l’altro, a differenza di Bembo, Salviati ritiene che la lingua della Commedia sia da anteporre per purezza a quella del Canzoniere). Se ne discute nel libro successivo dedicato alle regole di grammatica, ove si indica in Giovanni Boccaccio e nei toscani del secolo ‘fiorito’ le fonti della lingua corretta, senza escludere, se necessario, il ricorso ad autori precedenti e successivi e all’uso contemporaneo: principi che costituiranno le basi del Vocabolario della Crusca (1612). Il terzo libro propone un’analisi delle questioni di pronunzia e ortografia. Il volume si conclude con il testo di Decameron I, 9, seguito da dodici riscritture in altrettanti volgari italiani, al fine di mostrare la superiorità della lingua di Boccaccio anche rispetto alla versione in fiorentino popolare attribuita a un illetterato: versione non distante dall’originale, come a ribadire il ‘naturale’ primato del fiorentino.
Alla fine del 1584 fu stampato Il Carrafa o vero Della epica poesia di Camillo Pellegrino, in cui si discuteva di chi, tra Ludovico Ariosto e Tasso, avesse conseguito il primato nella poesia epica; vincitrice risultava la Gerusalemme liberata, per il rispetto dell’unità dell’azione, l’equilibrato dosaggio di storia e fantasia e la moralità dei personaggi cristiani; il Furioso invece, privo di unità e di verisimiglianza, era criticato per gli episodi licenziosi, degni piuttosto di un ‘romanzo’. Ariosto era riconosciuto superiore solo in ambito linguistico. Nel febbraio del 1585 apparve la Difesa dell’Orlando Furioso. Contra ’l Dialogo dell’epica poesia, firmata dagli Accademici della Crusca, ma redatta da Salviati con la collaborazione di Bastiano de’ Rossi. Preceduta da una dedica a Orazio Rucellai e da un preambolo ai lettori (scritti da de’ Rossi), la Difesa è in realtà un attacco contro la lingua del poema di Tasso, la cui apertura verso latinismi e forme ‘impure’ è considerata lesiva del nitore e della ‘purezza’ toscana. Su un piano analogo è aspramente criticato l’Amadigi (1560) di Bernardo Tasso, morto da tempo (nel 1569). Rispetto al Furioso la Gerusalemme è inoltre considerata povera di inventiva e schiacciata sulla storia. Dall’Ospedale ferrarese di S. Anna, dov’era recluso, Tasso rispose con un’Apologia del suo poema, stampata nello stesso 1585, in cui dopo aver difeso l’opera del padre, giustificava puntigliosamente le proprie scelte. Mentre altri letterati intervenivano nella polemica, Salviati, l’accademico Infarinato, pubblicava una Risposta all’Apologia, violenta e inurbana, dedicata il 10 settembre 1585 al granduca.
Vi si ribadiva la superiorità dell’«invenzione» sull’«imitazione», della fantasia sulla storia, negando che il compito del poeta fosse di esprimere il vero; nel contempo Salviati reiterava le censure tanto verso l’Amadigi quanto verso la Gerusalemme, esaltando al paragone sia i poemi di Matteo Maria Boiardo e Ariosto sia, per la lingua, il Morgante di Luigi Pulci.
Tasso meditò, senza realizzarla, una controreplica, del cui lavoro di preparazione sono testimonianza le postille su un esemplare della Risposta oggi alla British Library; tornò poi sulla polemica nel Giudicio sovra la Gerusalemme riformata (ed. postuma, 1666). Salviati intervenne ancora con una risposta (1588, dedicata ad Alfonso II d’Este) alla Replica di Pellegrino. Sono inoltre opera sua, come attesta Orazio Lombardelli nei Fonti toscani (Firenze 1598, p. 48), le Considerazioni contro un opuscolo in difesa di Tasso di Giulio Ottonelli, pubblicate con lo pseudonimo Carlo Fioretti (1586).
Nel 1586 Salviati pubblicò a Firenze il secondo volume degli Avvertimenti, in due libri: il primo dedicato al nome, il secondo all’uso della preposizione («vicecaso») e dell’articolo; in appendice figura la tavola dei libri citati «del miglior secolo». Nella dedicatoria a Francesco Panigarola sono menzionati Battista Guarini, Francesco Patrizi e Jacopo Mazzoni, ricordato per la Difesa di Dante contro Castravilla; Panigarola, Patrizi e il «gentilissimo» Guarini – della correzione linguistica del Pastor fido Salviati s’incaricò nei mesi a venire su sua richiesta – svolgevano un ruolo nella Ferrara di Alfonso II: e in effetti Salviati, alle prese con problemi economici, aveva di nuovo rivolto in quella direzione, aiutato dalla mediazione di Cortile, le proprie speranze. Dopo un irto negoziato, conclusosi nel dicembre, Salviati fu preso al servizio di Alfonso II, con il progetto di scrivere una nuova storia dinastica, di cui un saggio è nelle pagine iniziali dell’orazione funebre per il cardinale Luigi d’Este, morto a Roma il 30 dicembre, tempestivamente stampata nel febbraio del 1587. A marzo Salviati si recò nella città estense, in qualità anche di lettore «Moralium Aristotelis» nello Studio, rinunziando alla carica di console dell’Accademia fiorentina cui era stato rieletto. Nell’ultimo biennio di vita, segnato da una salute ormai precaria, si cimentò di nuovo in un’orazione funebre – ora per don Alfonso d’Este, zio del duca, spirato nel novembre 1587 – che lesse pubblicamente, dopo aver tagliato i riferimenti sgraditi ad Alfonso II.
Tornato in Toscana nell’estate del 1588, fu colpito da febbri violente da cui non si riprese più. Gli ultimi mesi di vita trascorsero con il sollievo degli aiuti che riceveva da Alfonso II, al quale lasciò in eredità la sua biblioteca e i propri manoscritti. Condotto nella primavera del 1589 nel monastero di S. Maria Angeli, vi morì nella notte tra l’11 e il 12 luglio.
Edizioni. Opere complete, Milano 1809-1810; Rime, a cura di L. Manzoni, Bologna 1871; Prose inedite, a cura di L. Manzoni, Milano 1873; Lettere edite e inedite, a cura di E. Contin, Padova 1875; Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. Weinberg, Roma-Bari 1970-1974 (contiene nel vol. II, 1972, Della poetica Lezion prima); Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988 (vi è una scelta dal vol. I degli Avvertimenti); Regole della toscana favella, a cura di A. Antonini Renieri, Firenze 1991. Per le edizioni anteriori, si vedano i regesti di S. Parodi, Una lettera inedita del Salviati, in Studi di filologia italiana, XXVII (1969), pp. 147-174; Brown, 1974, pp. 250-259.
Fonti e Bibl.: Strumento indispensabile è P.M. Brown, L. S. A critical biography, Oxford 1974 (alle pp. 263-270 è il catalogo dei mss. di Salviati; alle pp. 270-272 le altre fonti manoscritte). Vedi quindi P.F. Cambi, Orazione funerale, Firenze 1590; S. Salvini, Fasti consolari dell’Accademia Fiorentina, Firenze 1717; G. Campori, Il cav. L. S. e Alfonso II duca di Ferrara, in Atti e memorie delle R.R. Deputazioni di storia patria per le province modenesi e parmensi, VII (1874), pp. 143-164; A. Lorenzoni, Un coro di male lingue, Firenze 1905; V. Santi, L. S. e il suo testamento, in Giornale storico della letteratura italiana, XIX (1892), pp. 22-32; P. Soldati, Jacopo Corbinelli e L. S., in Archivum Romanicum, XIX (1935), pp. 415-423. Sulle teorie linguistiche e gli Avvertimenti: P. Fanfani, Osservazioni sulla traduzione fatta dal S. in lingua del Mercato Vecchio della novella del Re di Cipro, in I parlari italiani in Certaldo, a cura di G. Papanti, Livorno 1875, pp. 18-19; N. Maraschio, Il Lombardelli, il S. e il Vocabolario, in Studi linguistici italiani, 1984, vol. 10, pp. 29-43; Ead., Scrittura e pronuncia nel pensiero di L. S., in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana, Firenze 1985, pp. 81-89; M. Gargiulo, Per una nuova edizione degli “Avvertimenti della lingua”, in Heliotropia, 2009, n. 6, pp. 15-41; G. Stanchina, Nella fabbrica del primo “Vocabolario” della Crusca: S. e il “Quaderno” Riccardiano, in Studi di lessicografia italiana, 2009, n. 26, pp. 157-200; P. Sabbatino, La novella del re di Cipro tradotta «in diversi volgari d’Italia», in Italianistica, XLII (2013), pp. 191-198; F. Finco, La novella ‘in lingua furlana’ negli Avvertimenti, in G. Boccaccio tradizione, interpretazione e fortuna, a cura di A. Ferracin - M. Venier, Udine 2014, pp. 311-339. Sulla «rassettatura»: P.M. Brown, I veri promotori della «rassettatura», in Giornale storico della letteratura italiana, 1957, vol. 134, pp. 314-332; Id., Aims and methods of the second ‘rassettatura’ of the “Decameron”, in Studi secenteschi, 1967, n. 8, pp. 3-41; R. Mordenti, Per un’analisi dei testi censurati: strategia testuale e impianto ecdotico della ‘rassettatura’ di L. S., in Annali dell’Università degli studi di Roma, Facoltà di lettere e filosofia, I (1982), pp. 7-51; G. Chiecchi - L. Troisio, Il “Decameron” sequestrato. Le tre edizioni censurate nel Cinquecento, Milano 1984; T. Carter, Another promoter of the 1582 «rassettatura», in Modern Language Reviews, 1986, n. 81, pp. 893-899; G. Bertoli, Le prime due edizioni della seconda «rassettatura», in Dalla textual bibliography alla filologia dei testi italiani a stampa, a cura di A. Sorella, Pescara 1998, pp. 135-158; M. Bernardi - C. Pulsoni, Primi appunti sulle rassettature del S., in Filologia italiana, 2011, n. 8, pp. 167-200; P.M.G. Maino, L’uso dei testimoni del “Decameron” nella rassettatura di L. S., in Aevum, 2012, n. 86, pp. 1005-1030. Sulla polemica intorno alla Gerusalemme liberata: A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino 1895, pp. 413-468; B.T. Sozzi, Studi sul Tasso, Pisa 1954, pp. 217-256; R. Engler, Tra teoria e pratica: considerazioni su L. S. e la sua polemica tassesca, in Prospettive di storia della linguistica, a cura di L. Formigari - F. Lo Piparo, Roma 1988, pp. 97-112; P. Di Sacco, Un episodio della critica cinquecentesca, in Rivista di letteratura italiana, XV (1997), pp. 83-128; C. Gigante, Tasso, Roma 2007, pp. 215-221, 372-374. Sull’affaire Castravilla: M. Barbi, La fortuna di Dante nel XVI secolo, Pisa 1890; M. Rossi, Il Castravilla smascherato, in Il Giornale Dantesco, V (1898), pp. 1-18. Sul commento alla Poetica: C. Gigante, Esperienze di filologia cinquecentesca, Roma 2003, pp. 9-45. Su altri aspetti: F. Ageno, Le frasi proverbiali di una raccolta manoscritta di L. S., in Studi di filologia italiana, XVII (1959), pp. 239-274; D. Battaglin, L. S. e le “Osservazioni al Pastor fido” del Guarini, in Atti e memorie dell’Accademia Patavina, LXXVII (1964-1965), pp. 249-284; M. Colombo, Un terzo testimone delle “Regole della toscana favella”, in Studi di filologia italiana, LXIII (2005), pp. 281-305; D. D’Eugenio, L. S. and the collection of “Proverbi toscani”, in Forum Italicum, 2014, n. 48, pp. 495-521.