Lingue minoritarie
Lingue minoritarie e lingue minacciate nel mondo
La problematica delle lingue minoritarie è venuta ad acquistare rilievo e visibilità via via maggiori negli ultimi decenni del secolo scorso, in concomitanza con i (e in buona parte a causa dei) cambiamenti della società, i fenomeni culturali e gli eventi sociali, economici e geopolitici di vasta portata che hanno contrassegnato l’ultima parte del Novecento, e appare all’inizio del nuovo secolo uno dei temi più ‘caldi’ nell’ambito delle questioni che concernono le relazioni fra la lingua, la cultura e la società. La globalizzazione, l’affermarsi delle tematiche dei diritti umani e civili (fra i quali hanno un posto non marginale i diritti linguistici: una Dichiarazione universale sui diritti linguistici è stata diffusa a conclusione di una conferenza internazionale a Barcellona il 9 giugno 1996), la rivalorizzazione delle identità locali, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la formazione e l’allargamento dell’Unione Europea sono solo alcuni dei fenomeni di diversa natura che hanno contribuito a rendere di stretta attualità le questioni connesse allo status delle lingue, ai rapporti e conflitti fra ‘grandi’ lingue e ‘piccole’ lingue, alle rivendicazioni delle minoranze linguistiche e, più in generale, alle condizioni e al destino della diversità linguistica nel presente e nel futuro del nostro pianeta. La problematica delle lingue minoritarie è venuta pertanto anche a sovrapporsi in buona misura con quella delle lingue minacciate, in forza del fatto che molte lingue di minoranza sono da considerarsi anche lingue di fatto minacciate. Un fattore specifico che esalta infine l’attualità e l’interesse del tema delle lingue minoritarie è che in esso si intrecciano due ordini di problemi: da un lato, la questione generale, culturale, politica, giuridica, della tutela e della salvaguardia delle minoranze; dall’altro, il problema del mantenimento della diversità linguistica, per evidente analogia con la questione ecologica della protezione della molteplicità delle specie e della diversità biologica, valore che le minacce all’ambiente così tipiche del mondo in cui attualmente viviamo hanno portato sempre più in primo piano.
Sarà opportuno definire anzitutto i concetti sottesi al nostro discorso. Una lingua minoritaria (o lingua di minoranza) è un sistema linguistico che deve rispondere a tre requisiti: a) che sia utilizzato, in qualche misura e almeno in qualche classe di situazioni e con alcune funzioni, presso una o più comunità o gruppi parlanti all’interno di una determinata entità politico-amministrativa; b) che sia diverso dalla lingua ufficiale e nazionale comune dell’entità politico-amministrativa di cui l’area in questione fa parte; c) che sia parlato da una minoranza della popolazione di questa entità politico-amministrativa. Una componente importante che si aggiunge a questi caratteri oggettivi è poi un fattore soggettivo, quello che tale lingua abbia per la parte della popolazione che vi si riconosce un significato simbolico di identità etnica o culturale. La Carta europea delle lingue regionali o minoritarie (elaborata dal Consiglio d’Europa e approvata nel novembre 1992) definisce (art. 1) il suo oggetto secondo due parametri fondamentali: che si tratti di lingue « praticate tradizionalmente in un territorio di uno Stato da cittadini di questo Stato che costituiscono un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato», e di lingue «differenti dalla(e) lingua(e) ufficiale(i) di questo Stato» (con la specificazione che si escludono i dialetti della lingua ufficiale dello Stato e le lingue dell’immigrazione recente). Il concetto di lingua minoritaria appare dunque in sostanza strettamente connesso con lo Stato-nazione e con l’ideologia del monolinguismo.
Accanto ai due termini contenuti nel titolo della Carta, ha preso piede e si è diffuso internazionalmente anche quello di lingue meno diffuse (langues moins répandues, lesser used languages). Un altro termine utilizzato dai linguisti italiani per designare, da un punto di vista un po’ diverso, il medesimo oggetto, è alloglossie: parlate alloglotte è la locuzione con cui tradizionalmente ci si è riferiti alle lingue minoritarie nel nostro Paese. Locuzione peraltro non del tutto appropriata alla generalità dei casi, in quanto si focalizza sulla diversità del ceppo linguistico di riferimento rispetto alla lingua ‘maggioritaria’, tratto sì rilevante ma non necessariamente né sempre presente nei casi specifici, che possono volentieri ammettere che la lingua minoritaria sia una varietà più o meno strettamente imparentata con la lingua nazionale, appartenente al suo stesso ceppo genealogico. Negli ultimi tempi, ha preso anche piede, in luogo di ‘alloglossie’, il termine eteroglossie.
La popolazione o comunità che parla una lingua minoritaria costituisce ovviamente una minoranza linguistica: ‘minoranza linguistica’ è quindi la controparte sul versante sociale della nozione di lingua minoritaria sul versante linguistico. Solitamente, l’entità politico-amministrativa a cui si fa riferimento parlando di lingue minoritarie è uno Stato; e quindi tipicamente una minoranza linguistica è costituita da parlanti la cui lingua materna è diversa dalla lingua ufficiale dello Stato di cui essi sono cittadini; ma può anche situarsi a scala (molto) minore: un esempio tipico sono le cosiddette eteroglossie interne in Italia, cioè quelle aree isolate nel nostro Paese in cui si parla un dialetto italoromanzo diverso da quello storico tradizionale dell’area circostante (v. oltre Le lingue minoritarie in Italia all’inizio del 21° secolo). Una questione che continua a essere per alcuni versi molto spinosa è la distinzione fra lingue minoritarie (specialmente se le chiamiamo lingue regionali) e dialetti; e in particolare la questione se i dialetti si possano (o debbano) considerare o no lingue minoritarie. Dato che la distanza linguistica fra i sistemi, che dovrebbe essere un criterio dirimente, non sempre è decisiva in merito, assumono particolare rilievo qui la posizione e i rapporti dei sistemi linguistici nel repertorio della comunità, gli atteggiamenti identitari e il sentimento dei parlanti, e anche considerazioni latamente ideologiche.
In questi ultimi anni si è dibattuta la questione, a cui sempre più spesso viene data una risposta positiva, se vadano comprese nelle lingue minoritarie (e quindi i loro parlanti costituiscano una minoranza linguistica) le lingue delle recenti immigrazioni: se non le lingue dei migranti in generale, almeno (accogliendo una distinzione proposta da Massimo Vedovelli: si veda da ultimo Monica Barni, Carla Bagna e Vedovelli in Minoranze linguistiche, 2007, pp. 270-90) le ‘lingue immigrate’, vale a dire quelle praticate da gruppi immigrati di una certa consistenza, stabili e socialmente radicati nella comunità d’arrivo. Per es., Guus Extra e Durk Gorter (in Handbook of language and communication, 2007, pp. 16-52) trattano congiuntamente Regional and immigrant minority languages in Europe. Anche se molte delle questioni che si pongono per queste nuove minoranze sono assimilabili alle questioni poste dalle minoranze linguistiche storiche, e in particolare la situazione è molto simile per quelle lingue che siano ‘lingue etniche’ in un Paese di cui gli immigrati hanno la cittadinanza (come, per es., l’italiano in Australia), data la diversità, almeno in Italia, del retroterra sociolinguistico e giuridico (si configura infatti con i nativi una comunicazione propriamente interetnica, come non si dà nel caso delle minoranze storiche; e queste lingue generalmente non sono parlate da cittadini italiani), in questa sede escluderemo tuttavia dalla trattazione la questione delle lingue immigrate.
Lingue minacciate (endangered languages), lingue in (via di) estinzione, lingue in decadenza o decadimento, lingue in regressione, e altri ancora, sono invece termini che designano quelle lingue che perdendo parlanti e domini d’impiego riducono progressivamente la loro vitalità e il loro raggio d’impiego, fino a correre il rischio di scomparire. L’esito finale del processo di regressione di una lingua (definito anche obsolescenza linguistica) è la morte della lingua. Poiché per la maggior parte le lingue di minoranza soffrono gli svantaggi di questa loro condizione minoritaria, sono soggette in vario modo alle pressioni della cultura e della/e lingua/e ufficiale/i dominante/i nel Paese, ed essendo sentite come socioculturalmente svantaggiate, retaggio del passato e marginali nel mondo moderno sono usate sempre meno dai loro stessi parlanti, viene facilmente a crearsi una consistente area di sovrapposizione fra l’insieme delle lingue minoritarie e l’insieme delle lingue minacciate. Anche se è vero che le lingue minacciate per lo più, se non sempre, sono lingue minoritarie, vi sono però lingue minoritarie che non sono affatto minacciate (per esempi vicini a noi: l’italiano nella Confederazione Elvetica, il tedesco in Alto Adige/Südtirol; e, in genere, sono solide un buon numero delle numerose lingue minoritarie parlate in Paesi multietnici e spiccatamente multilingui, come tipicamente l’India o, in Africa, la Nigeria e il Camerun); e vi sono per converso lingue minacciate che sono lingue, anche ufficiali, di un’intera popolazione, com’è, per esempio, il caso dell’inuit, lingua eschimo-aleutina della popolazione Inuit, che, nella varietà inuktitut, è lingua ufficiale nello Stato canadese dei Territori del Nord-Ovest e, nella varietà groenlandese (localmente, kalaallisut), è una delle lingue ufficiali della Groenlandia. Le due nozioni di lingue minoritarie e lingue minacciate vanno inoltre necessariamente tenute separate anche in linea di principio perché fanno riferimento a categorie definitorie e interpretative diverse.
Sta di fatto comunque che le lingue minoritarie sono per la loro natura particolarmente esposte a diventare lingue minacciate. Condizione normale delle comunità minoritarie è infatti di essere comunità bilingui, presso cui sono impiegate sia la lingua minoritaria sia la lingua maggioritaria ufficiale del Paese; e dato che la lingua ufficiale rappresenta un modello di prestigio e ha ipso facto uno status superiore, in quanto lingua unica o preferenziale delle istituzioni, della scuola, dell’economia e del commercio, della scienza e tecnica, dei media, a quello della lingua minoritaria, è inevitabile che l’una eserciti una pressione sull’altra anche in quei domini in cui viene tipicamente usata la lingua minoritaria. Alla pressione sociale si aggiunge la pressione culturale rappresentata dal conflitto fra la cultura maggioritaria, moderna, veicolata dalla lingua ufficiale e nazionale, e la cultura ‘locale’, legata alle consuetudini del passato, rappresentata dalla lingua minoritaria. Si crea quindi una situazione di conflitto fra lingue. Il risultato di queste pressioni e di questo conflitto è che i parlanti della lingua minoritaria possono sentire sempre più come uno svantaggio sociale il parlare la lingua minoritaria e percepirne sempre meno l’utilità e il valore come strumento di identità culturale. Un ruolo decisivo nell’avviare e accompagnare questa dinamica ha infatti il tramonto delle identità culturali tradizionali. Si aggiungano, dato che nessuna comunità praticamente oggi si può considerare chiusa e che l’incremento a volte esponenziale delle interazioni comunicative è un carattere essenziale della moderna globalizzazione, le infittite necessità di comunicazione con coloro che non conoscono la lingua minoritaria, che portano ad adottare la lingua maggioritaria in una serie sempre crescente di situazioni. Si può quindi innescare un processo in cui i parlanti non hanno più effettiva motivazione nell’usare la lingua minoritaria (che quindi perde domini comunicativi) né volontà di trasmetterla alle nuove generazioni (e quindi la lingua perde parlanti). Quando questo avviene, si è avviato un processo di regressione linguistica, che può sfociare nell’estinzione di quella lingua presso quella comunità parlante, processo noto in linguistica come ‘morte di lingua’ (language death). La lingua che ha imboccato questa strada è una lingua minacciata. E il fattore cruciale nel processo sopra sommariamente delineato è la trasmissione intergenerazionale: quando molti (o nel caso estremo tutti i) parlanti della lingua minoritaria non la parlano più con i figli nella socializzazione primaria, e quindi la trasmissione intergenerazionale diminuisce o si interrompe, le prognosi di un mantenimento della lingua diventano molto infauste.
Il processo può essere contrastato da una forte ‘lealtà linguistica’, vale a dire da un forte sentimento di attaccamento alla lingua in regressione quale simbolo e garante di identità culturale e sociale; ma quando è avviato, è molto difficile da contrastare, perché appunto le ragioni ne sono profonde, per così dire oggettive e tutt’altro che facilmente rimovibili, nemmeno attraverso opportuni provvedimenti di politica e pianificazione linguistica. I tentativi di rivitalizzazione linguistica (o di Reversing language shift, come suona il titolo di un volume dell’inizio degli anni Novanta di Joshua A. Fishman dedicato a discutere tale problematica, ripresa più di recente dallo stesso autore in Can threatened languages be saved?, 2001), vale a dire le azioni sistematiche intraprese in una serie di casi dalle autorità politiche e dalle istituzioni per arrestare il processo di obsolescenza e per ridiffondere la conoscenza e l’uso della lingua in via di estinzione, hanno portato a risultati di interpretazione piuttosto controversi. In Irlanda la lingua autoctona, il gaelico irlandese, è da decenni lingua nazionale e ufficiale, accanto all’inglese, è insegnato a scuola e adottato negli usi pubblici; ma i numerosi sforzi (anche recenti: nel 2003 il parlamento irlandese ha approvato un Official languages act che parifica compiutamente l’uso delle due lingue ufficiali) del governo per la promozione della lingua minoritaria hanno avuto effetti tutto sommato scarsi sulla diffusione del gaelico come lingua parlata dalla popolazione nella conversazione ordinaria; solo nella nicchia tradizionale di celtofonia, il Gaeltacht (20.000 abitanti), il gaelico irlandese può essere a tutt’oggi considerato lingua effettivamente usata dalla comunità parlante nella vita quotidiana. In Nuova Zelanda, interessanti esperimenti di insegnamento del maori, lingua indigena minoritaria minacciata, con immersione totale in età prescolare, e quindi miranti ad agire sul punto cruciale del processo di estinzione di una lingua, la trasmissione intergenerazionale, avviati negli anni Ottanta, non hanno portato a un incremento rilevabile del numero dei parlanti, che sono stati censiti in circa 70.000 negli anni Settanta (nella grande maggioranza si tratta di ultracinquantenni: Grenoble, Whaley 2006, p. 54) e sono rimasti tali trent’anni dopo (Lewis 2005).
L’unico successo evidente e indiscutibile, basato su fortissime motivazioni politiche e culturali e su una marcata coscienza e volontà identitaria, e sostenuto in maniera particolare dal nuovo Stato, è quello della rinascita e reintroduzione dell’ebraico (sotto la forma moderna di ivrit), prima come lingua ufficiale della Palestina sotto mandato britannico e poi come lingua dello Stato di Israele e di tutta la popolazione ebraica di multiforme provenienza: nel giro di alcune generazioni l’ebraico da lingua della liturgia generalmente ignota all’uso quotidiano è diventato lingua prima o comunque lingua parlata da più di cinque milioni di persone. Il caso dell’ebraico, con la sua eccezionalità, è anche una conferma del fatto che, perché possa veramente avvenire la piena rivitalizzazione di una lingua, è necessario che ci sia una motivazione speciale e, soprattutto, che cambino profondamente le condizioni per così dire esterne dell’ambiente politico, sociale e culturale che circonda la lingua: cosa che con le convergenti macrotendenze alla standardizzazione e al predominio mondiale e locale di poche grandi lingue (in primis l’inglese) insite nel mondo contemporaneo appare ben lontana dall’avverarsi se non in alcuni casi del tutto straordinari.
Sarà apparso chiaro da quanto sopra illustrato che il caso normale nella vita sociale dei sistemi linguistici è che questi non vivano affatto in isolamento, e che fra le lingue vi sia competizione: «Le lingue sono in continua competizione tra loro per conquistare nuove funzioni e nuovi parlanti» (Nettle, Romaine 2000; trad. it. 2001, p. 47) e, aggiungiamo noi, per non perderli. Le lingue si pongono in una gerarchia sociale; e in questa gerarchia la consistenza demografica, cioè lo stesso fattore che è alla base della nozione di lingua minoritaria, è, se non il principale caposaldo della forza di una lingua, un fattore ovviamente molto rilevante. Si possono contrapporre lungo questa dimensione le ‘grandi lingue’, quelle che hanno molti milioni di parlanti (che non sono moltissime: Alberto M. Mioni, in uno studio del 2005, annovera 64 lingue con più di 10 milioni di parlanti sulle circa 6800 censite nel 2000 dal più informato repertorio delle lingue nel mondo, il sito www.ethnologue.com), alle ‘piccole lingue’, quelle che ne hanno poche migliaia o addirittura poche centinaia (e che sono a loro volta dell’ordine delle migliaia). Su quale sia la soglia che separi, dal punto di vista della dimensione demografica, le lingue considerate ‘solide’ da quelle in pericolo non è semplice pronunciarsi: Michael Krauss, in un breve articolo spesso citato a questo proposito, The world’s languages in crisis («Language», 1992, 68, 1, pp. 4-10), individua in 100.000 parlanti la soglia oltre la quale una lingua va considerata al sicuro, e in 10.000 la cifra sotto cui una lingua è presumibilmente a rischio. Daniel Nettle e Suzanne Romaine (2000; trad. it. 2001, p. 59) osservavano su questa base che il 60% delle circa 6000 lingue che si stimava esistessero al mondo sembrava a rischio. Mentre secondo lo stesso Krauss (in Language diversity endangered, 2007, p. 3) ben il 95% delle lingue sarebbero minacciate. E una volta che sia avviato il processo di obsolescenza, le piccole lingue scompaiono in ogni caso più in fretta.
I fattori che intervengono nel diagnosticare la maggiore o minore vitalità e solidità di una lingua sono però molteplici e non si possono ricondurre alla sola consistenza demografica. All’inizio del nuovo secolo l’UNESCO ha incaricato un gruppo di studio di elaborare una criteriologia per valutare il grado di vitalità o di pericolo (endangerment) delle lingue minacciate. Ne sono risultati i nove parametri seguenti (presentati da Matthias Brenzinger, Akira Yamamoto, Noriko Aikawa e altri nel documento Language vitality and endangerment, approvato nel marzo 2003 dai partecipanti all’International export meeting of the UNESCO programme Safeguarding of endangered languages): a) trasmissione intergenerazionale della lingua, b) numero assoluto di parlanti, c) proporzione di parlanti la lingua in relazione alla popolazione totale della comunità, d) tendenze nei domini linguistici esistenti, e) risposta a nuovi domini e media, f) materiali per l’alfabetizzazione e l’educazione linguistica, g) atteggiamenti e politiche linguistiche del governo e delle istituzioni, inclusi status ufficiale e uso, h) atteggiamenti dei membri della comunità verso la propria lingua, i) ammontare e qualità della documentazione sulla lingua. La griglia di nove fattori dovrebbe permettere anche una valutazione numerica del grado di vitalità mediante l’attribuzione di valori fra 1 e 5 a ciascuno dei fattori, valori basati su una scala definita il più possibile oggettivamente (zero essendo il valore di una lingua ormai estinta, e 5 quello di una lingua invece pienamente vitale).
Proteggere le lingue di minoranza assestandole negli usi e salvare le lingue minacciate è senza dubbio una delle grandi sfide che il 21° sec. da poco iniziato dovrà affrontare, nel quadro più ampio degli enormi problemi sollevati dal nuovo ordine linguistico globale i cui lineamenti si vanno profilando secondo direzioni solo in parte convergenti (Maurais 2003).
Distribuzione delle lingue minoritarie e tipi di minoranze linguistiche
Non è agevole, e forse è anche vano, data la mutevolezza intrinseca delle situazioni e dei criteri di definizione, cercar di stabilire quante lingue o varietà di lingue minoritarie vi siano al mondo. Inoltre, le entità da prendere in considerazione sarebbero piuttosto le minoranze linguistiche, individuabili per ciascun Paese, anziché le lingue di minoranza, una determinata lingua potendo ovviamente essere lingua minoritaria in più Paesi. Neppure i vari siti Internet dedicati alle minoranze linguistiche aiutano molto, sia perché in nessuno di essi si trovano censimenti complessivi a livello planetario, sia perché i criteri impiegati per identificare le lingue minoritarie a volte sono diversi, sia perché la tendenza generale è a sovrastimare il numero delle lingue minoritarie (calcolando come tali anche molti dialetti). Le lingue minoritarie, divenute per lo più tali con il formarsi e il diffondersi dell’ideologia, in particolare nell’Ottocento, degli Stati nazionali e poi, nella seconda metà del Novecento, con l’acquisto dell’indipendenza dei Paesi coloniali, sono comunque ampiamente distribuite nei cinque continenti, come mostra una semplice scorsa all’Atlas of the world’s languages in danger of disappearing elaborato da Stephen A. Wurm per l’UNESCO nel 2001 (una rassegna mondiale dettagliata delle lingue minacciate è fornita da Language diversity endangered, 2007).
Il sito European minority languages (http:// www.smo.uhi.ac.uk, 18 maggio 2009) dell’istituto gaelico Sabhal Mòr Ostaig a inizio 2008 censisce in Europa 148 lingue minoritarie; mentre Tapani Salminen (in Language diversity endangered, 2007, pp. 205-32) calcola in 103 le lingue minacciate dell’Europa. Ma il crivello adottato è molto largo: è assai dubbio, infatti, che dialetti italoromanzi come il calabrese, il ligure, il lombardo, il napoletano, il piemontese, il siciliano, il veneto, o dialetti tedeschi come il bavarese, il plattdeutsch, lo schwyzertüütsch, riportati nella lista delle lingue minoritarie, possano essere considerati tali. Anche sfrondando l’elenco, appare comunque evidente che la presenza di minoranze linguistiche di antico insediamento non è certo un’eccezione nel vecchio continente (un’utile rassegna è in Toso 2006).
Le situazioni minoritarie possono differire notevolmente fra loro. A definire tipi diversi di situazione minoritaria, in un continuum pluridimensionale, concorrono molti fattori. Una tipologia territoriale delle comunità di lingua minoritaria elaborata indipendentemente agli inizi degli anni Novanta da Paul White e da John Edwards, e recentemente ripresa da Edwards stesso (in Handbook of language and communication, 2007, p. 263), utilizza tre criteri. Il primo è l’essere una minoranza in senso assoluto oppure no; e assume tre valori: 1) «unica» (unique), nella terminologia di Edwards, o assoluta, quando la lingua di minoranza è presente unicamente nello Stato in cui è lingua minoritaria; 2) «non unica», quando è presente anche in altri Stati sempre come lingua di minoranza; 3) «solo locale» (local-only), quando una lingua è minoritaria solo in uno o più Stati o Paesi, mentre in altri Stati o Paesi è lingua nazionale e maggioritaria. Il secondo criterio entra in gioco se la minoranza non è unica e riguarda la collocazione della comunità minoritaria rispetto alle comunità della stessa lingua in altri Stati o Paesi: Edwards chiama adiacente (adjoining) la minoranza la cui dislocazione geografica è contigua, confinante con la dislocazione di comunità della stessa lingua in altri Paesi. Il terzo criterio definisce la struttura territoriale interna delle comunità minoritarie, che è detta coesa (cohesive) quando è geograficamente compatta e i parlanti sono concentrati in una stessa area, e «non coesa», ‘diffusa’, quando i nuclei parlanti sono sparsi in più aree fra loro non adiacenti.
Dalla combinazione dei tre criteri derivano dieci possibili tipi di situazioni minoritarie: 1) minoranza unica e coesa, 2) minoranza unica e non coesa, 3) minoranza non unica, coesa e adiacente, 4) minoranza non unica, coesa e non adiacente, 5) minoranza non unica, non coesa e adiacente, 6) minoranza non unica, non coesa e non adiacente, 7) minoranza solo locale, coesa e adiacente, 8) minoranza solo locale, coesa e non adiacente, 9) minoranza solo locale, non coesa e adiacente, 10) minoranza solo locale, non coesa e non adiacente. Distinzioni analoghe sono sottese ad altre classificazioni correnti in tema di lingue minoritarie (v., in generale, Orioles 2003), come quella fra ‘isole’ e ‘penisole’ minoritarie (queste ultime, dove è in gioco la contiguità geografica con aree della stessa lingua in altri Paesi, corrispondenti al tipo 4 o al tipo 7 della tassonomia sopra esposta). Le lingue delle isole minoritarie, vale a dire le piccole lingue circondate da lingue totalmente differenti, sono anche chiamate nella letteratura enclave languages.
Particolarmente rilevante sembra qui l’esistenza o meno di una lingua che chiameremo di appoggio (dovendosi a rigore riservare la nozione di ‘lingua tetto’, che spesso viene invocata a questo proposito, a situazioni di altro genere, Berruto 2001), appunto la presenza fuori dai confini dello Stato o dell’entità amministrativa in cui si trova la lingua o parlata di minoranza, della stessa lingua o varietà della stessa lingua (meglio se standard e ufficiale): una varietà sorella insomma in un altro Paese a cui appoggiarsi. La presenza di una lingua di appoggio al di fuori dell’area minoritaria e lo status di tale lingua sono in effetti fattori che influenzano anche sensibilmente la condizione di una lingua minoritaria; tale considerazione consente inoltre di porre una distinzione essenziale, quando si tratti di lingue in regressione e decadenza, fra lingue in via di estinzione in assoluto (caso che si può dare solo con le minoranze uniche) e lingue in via di estinzione in una comunità (o comunità linguistiche in estinzione). Ai criteri elaborati da White ed Edwards si potrebbe utilmente aggiungere, sulla stessa falsariga, anche il carattere unitario o non della comunità parlante, se cioè la comunità parlante è costituita, tutta o quasi integralmente, da persone che parlano o conoscono la lingua minoritaria; o è formata anche da (gruppi consistenti di) persone che non la parlano, e quindi è mista, composita, comprendendo sia parlanti la lingua minoritaria sia non-parlanti (nativi) della lingua minoritaria (spesso, immigrati interni). L’omogeneità e unitarietà interna della comunità di lingua minoritaria pare infatti un criterio rilevante, specie laddove le dinamiche sociali e demografiche abbiano portato a un consistente rimescolamento della popolazione residente nell’area minoritaria.
Un altro punto di vista assai rilevante da cui guardare alle minoranze linguistiche è quello della composizione e struttura del repertorio linguistico della comunità che parla la lingua minoritaria. Si tratta di repertori bilingui o multilingui in cui i sistemi linguistici coinvolti sono spesso disposti, andando dagli usi ufficiali e pubblici a quelli più informali e familiari, su due (o anche più) gradini funzionali; nella tradizione sociolinguistica ormai instauratasi, il gradino alto, quello degli usi più prestigiosi e formali, tipicamente scritti, è occupato dalla varietà di lingua detta appunto alta (high), mentre il gradino basso, quello degli usi più colloquiali e interni al gruppo locale, tipicamente orali, è occupato dalla varietà di lingua bassa (low). Un eventuale gradino intermedio è occupato dalla varietà media (middle).
In Italia, caso comune per gli idiomi minoritari è di essere coinvolti in repertori comprendenti tre sistemi linguistici. Oltre all’italiano, lingua nazionale, e alla parlata minoritaria locale, è presente infatti in molti casi in maniera più o meno marginale negli usi della comunità minoritaria anche il dialetto italoromanzo dell’area confinante con il territorio della minoranza, che viene a occupare nel repertorio un gradino intermedio, quando è utilizzato per lo più nei contatti comunicativi (specie come lingua del commercio) con le località circostanti, o contende all’idioma minoritario il gradino basso, quando la forza di irradiazione del dialetto regionale o fattori socioantropologici (come il diffondersi di matrimoni misti) lo hanno fatto penetrare negli usi quotidiani dei nativi (costituendo in questo caso un concorrente ‘pericoloso’ della parlata minoritaria proprio in quello che dovrebbe essere il suo bastione di resistenza, vale a dire gli usi nell’ambito familiare e del piccolo gruppo locale). Nel variegato panorama italiano sono tuttavia presenti casi con un numero più elevato di varietà linguistiche in gioco e con strutture del repertorio più complesse (in tal caso, si parla di repertorio sovraccarico). Per es., nella minoranza germanofona walser dell’alta valle del Lys in Valle d’Aosta, dato che si tratta di una minoranza all’interno di un’altra minoranza, possiamo avere un repertorio con ben sei varietà di lingua in gioco distribuite su due gradini: 1) italiano / francese / (tedesco); 2) titsch / piemontese / patois francoprovenzale.
Le lingue minoritarie in Italia all’inizio del 21° secolo
Proprio sul finire del 20° sec. la situazione esterna delle lingue minoritarie in Italia ha conosciuto un mutamento sostanziale con l’approvazione da parte del Parlamento nazionale della l. 15 dic. 1999 n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. Dopo un secolo e mezzo di politica linguistica verso le minoranze caratterizzata da trascuratezza, indifferenza, omissioni, quando non da atti di esplicita avversione e repressione (come, per es., durante il fascismo; e anche prima, nei confronti del francese in Valle d’Aosta), per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana sono stati definiti e regolati legislativamente il riconoscimento e la tutela delle lingue minoritarie, prevista esplicitamente dall’art. 6 della Costituzione («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»), cui per un cinquantennio non era stata data attuazione.
Fino a quel momento le sole lingue minoritarie riconosciute, giuridicamente e istituzionalmente protette nel nostro Paese erano quelle la cui esistenza era ancorata ai trattati internazionali seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale (le cosiddette minoranze di confine): la minoranza di lingua tedesca in Alto Adige/Südtirol (a cui è agganciata la sorte della minoranza di lingua ladina delle valli sul versante nord del Gruppo del Sella, facenti parte della provincia autonoma di Bolzano), quella di lingua francese nella regione autonoma della Valle d’Aosta, e quella di lingua slovena nelle province di Trieste e di Gorizia. Tutte le altre minoranze linguistiche variamente dislocate sul territorio nazionale erano prive di qualunque riconoscimento giuridico e istituzionale e godevano al massimo di sostegni da parte delle regioni interessate (le cui proposte legislative in merito sono però spesso state osteggiate dallo Stato: si veda una rassegna della questione in M. Tani, La legislazione regionale in Italia in materia di tutela linguistica dal 1975 a oggi, «LIDI. Lingue e idiomi d’Italia», 2006, 1, 1, pp. 115-58). Si davano quindi situazioni paradossali, come quella dell’appena citata minoranza ladinofona delle Dolomiti, insediata attorno al Gruppo del Sella, che, trovandosi amministrativamente in tre province diverse, godeva di tre statuti e relativi trattamenti differenti: legislativamente protetta, come già detto sopra, in Alto Adige/Südtirol, con alcune tutele in provincia di Trento (grazie alle condizioni speciali di tale provincia in quanto facente parte della regione autonoma Trentino/Alto Adige), e del tutto misconosciuta nella regione Veneto (provincia di Belluno). Succedeva dunque che la stessa lingua, o lo stesso gruppo linguistico, poteva conoscere sorti totalmente diverse a seconda dell’area territoriale in cui si trovava: il tedesco (il tedesco standard, facente da tetto ai dialetti locali sudtirolesi) era fortemente tutelato in provincia di Bolzano, ma ne era ignorata la presenza nelle vallate del versante meridionale del massiccio del Monte Rosa (insediamenti walser, con dialetti del gruppo alemannico) e nelle numerose isole germanofone (dialetti bavaro-austriaci) sparse nelle vallate alpine del Veneto, del Trentino e del Friuli Venezia Giulia.
Un’altra delle molte incongruenze che hanno sempre segnato le vicende delle lingue minoritarie in Italia sta nella situazione sopra accennata della Valle d’Aosta, dove la lingua legislativamente protetta è il francese, ma in cui la lingua parlata nella vita quotidiana effettivamente diffusa nella popolazione è costituita da dialetti francoprovenzali (patois), facenti parte di un diasistema galloromanzo diverso da quello francese, e solo un’assoluta minoranza della popolazione adotta il francese come lingua della conversazione ordinaria. Questa situazione, assieme al fatto che il francese vada considerato lingua-tetto nel senso di Kloss, cioè «la lingua standard che ha sotto di sé, nello stesso paese in cui è la lingua scritta e dell’istruzione scolastica, i dialetti con essa strettamente imparentati e che a essa si riconducono» (Berruto 2001, pp. 24-25), e anche alla luce delle considerazioni generali che faremo più avanti su che cosa significhi essere ‘parlante di una lingua’, rende praticamente impossibile calcolare approssimativamente con qualche attendibilità la consistenza demografica della minoranza francofona in Italia. In Val d’Aosta essa verrebbe teoricamente a coincidere con la quasi totalità della popolazione della Valle (quindi più di 110.000 parlanti), se si tiene conto che in regione il francese è presente nell’insegnamento scolastico in ogni grado di istruzione, mentre si riduce di fatto a valori quasi inapprezzabili se si considera chi ha il francese come effettiva lingua materna e lo usa nell’impiego quotidiano. Discorso ancora più complicato varrebbe per le valli valdesi della provincia di Torino (dove il francese era tradizionalmente la lingua della minoranza religiosa e lingua di culto) e le alte valli della provincia di Torino e di Cuneo che fecero per secoli parte del Delfinato. Il francese appare pertanto oggidì in Italia una lingua minoritaria di secondo ordine, sovrapposta a un’altra varietà minoritaria che è, a seconda delle zone, il francoprovenzale o il provenzale.
Una delle ragioni di queste incongruenze è anche che in effetti la legislazione italiana precedente mirava a salvaguardare il territorio e la popolazione ivi stanziata, non propriamente la lingua, considerata non più che un epifenomeno di caratterizzazioni di altra natura. Solo nell’avanzato 20° sec. si è fatta strada la consapevolezza che una lingua sia un patrimonio culturale e un fattore di identità comunitaria di primaria importanza, da tutelare e promuovere in quanto tale.
Le lingue minoritarie del nostro Paese, che danno luogo ad almeno una quindicina di minoranze linguistiche e contano nel complesso circa 2.150.000 parlanti, sono presentate nella tab. 1, ove appaiono ordinate in base alla rispettiva consistenza demografica, vale a dire al numero stimato dei parlanti che conoscono la lingua (o perché ne sono parlanti nativi o perché l’hanno comunque appresa nei contatti con i parlanti nativi, vivendo nella comunità) all’interno della popolazione totale dell’area interessata. La nostra stima è, laddove (ed è la quasi totalità dei casi) non vi siano censimenti nazionali di riferimento, ottimistica: è presumibile che in molti casi il numero dei parlanti effettivi sia sovrastimato. Il numero dei parlanti una lingua è in effetti sempre una cifra assai problematica da determinare, non solo ovviamente perché non si fonda su alcun censimento sistematico, ma anche e soprattutto perché è difficile stabilire a che cosa effettivamente i numeri si riferiscano, e d’altra parte certamente si riferiscono a cose diverse in diverse situazioni. Prendiamo quello che parrebbe il criterio fondamentale per calcolare la consistenza demografica, il numero dei parlanti nativi, cioè di coloro che hanno acquisito la lingua nella socializzazione primaria e la parlano come lingua materna: mentre nel caso del tedesco in Alto Adige la cifra corrisponderà (fatte salve dichiarazioni di appartenenza a un gruppo linguistico diverso dal proprio per ragioni di convenienza economica, cosa possibile in una collettività bilingue bicomunitaria come l’Alto Adige dati i vantaggi che l’appartenenza al gruppo linguistico tedesco può garantire) al numero dei parlanti nativi, in altre situazioni le cifre stimate che riportiamo non si possono certo considerare relative ai parlanti nativi, che saranno in numero a volte assai minore, specie là dove la lingua minoritaria è nettamente in regressione ed è da tempo (percepita come) svantaggiata.
Un altro problema di ordine generale è stabilire il grado di competenza e fluenza che permetta di definire una persona come parlante a tutti gli effetti di quella lingua; senza contare che non esistono concezioni complessive e test o misurazioni non meramente settoriali di che cosa voglia dire in sé e come si estrinsechi il ‘sapere una lingua’, mentre d’altra parte è anche empiricamente accertato che ci sono «profonde differenze nella competenza linguistica dei membri di una stessa comunità linguistica» (Ch. Lehmann, Linguistic competence: theory and empiry, «Folia linguistica», 2007, 41, p. 270). Un problema specifico delle lingue minoritarie che siano anche lingue minacciate è poi la presenza dei cosiddetti semiparlanti, vale a dire di parlanti che non hanno appreso la lingua nella socializzazione primaria o vi sono stati poco esposti, ne hanno una competenza poco fluente e la sanno impiegare solo con funzioni ridotte e nelle interazioni con parlanti nativi fluenti; la consistenza numerica dei semiparlanti in una data situazione è particolarmente difficile da stimare. Questo stato di cose, inevitabile data la mancanza di un censimento linguistico nazionale, è particolarmente disturbante dal punto di vista del linguista e dello scienziato sociale, dato che, come abbiamo visto, la consistenza demografica complessiva è da ritenere un fattore molto importante della forza di una lingua.
Sempre quanto alla consistenza demografica, occorrono ancora precisazioni circa il francese, per il quale nella nostra tabella non forniamo ordini di grandezza. La stima massima dovrebbe comprendere la francofonia almeno potenziale della grande maggioranza della popolazione della Valle d’Aosta (dove il francese è lingua scolastica obbligatoria) e di una certa quota della popolazione delle aree provenzali e (in misura molto ridotta) francoprovenzali piemontesi, arrivando quindi a una cifra attorno ai 120.000 parlanti e più. Tuttavia, come si è visto, non soltanto il francese può essere considerato lingua materna solo di una proporzione veramente minima di tale bacino potenziale, ma soprattutto non è praticamente usato come lingua della comunicazione quotidiana, essendo riservato per lo più in Valle d’Aosta agli usi scritti, amministrativi, politici, e in Piemonte a ristretti ambiti di culto o di contatto commerciale; considerazioni che porterebbero dunque a stimare in poche migliaia di unità la relativa consistenza demografica.
Quanto al tipo di situazione minoritaria (secondo la tipologia sopra illustrata), va osservato che il tipo 1 (minoranza unica, coesa) assegnato a friulano e ladino presuppone (cosa su cui non tutti i linguisti si troverebbero d’accordo) di non tenere in considerazione la loro parentela linguistica con il retoromancio, gruppo di varietà minoritarie parlate in Svizzera, nel Canton Grigioni, che presentano un certo numero di caratteristiche strutturali comuni con il ladino dolomitico e con il friulano. Se accettassimo che si tratta di varietà di uno stesso ceppo, dovremmo classificare friulano e ladino come minoranze di tipo 4 (non uniche, coese e non adiacenti). La posizione del retoromancio è d’altronde molto interessante dal punto di vista delle problematiche delle lingue minoritarie. Parlata come lingua materna da circa 35.000 parlanti (e conosciuta e utilizzata per lo più oralmente da altri 25.000), è lingua ufficiale (vale a dire, lingua in cui i cittadini hanno diritto di comunicare con l’amministrazione statale) della Confederazione Elvetica ed è una delle tre lingue (accanto a tedesco e italiano) del Canton Grigioni; diffusa nelle alte valli del Reno e dell’Inn in cinque varietà principali (sursilvano, sutsilvano, surmirano, puter e vallader), ciascuna delle quali con una sua forma scritta usata nell’insegnamento scolastico, è stata dotata negli anni Ottanta di una koinè scritta standardizzata (chiamata rumantsch grischun) studiata a tavolino dal romanista zurighese Heinrich Schmid. Sente fortemente la concorrenza e la pressione del tedesco, in particolare, nella conversazione ordinaria, del dialetto tedesco svizzero, lo schwyzertüütsch, da cui in parte dipende per l’arricchimento del lessico.
Lo sloveno, il francoprovenzale e il provenzale o occitano hanno nella tab. 1 una doppia classificazione. Lo sloveno delle vallate della provincia di Udine come minoranza solo locale, non coesa e adiacente (9), e come minoranza solo locale, non coesa e non adiacente (10), in quanto le comunità slovenofone sparse nella regione sono in parte penisole e in parte isole; il francoprovenzale e il provenzale come minoranza non unica, coesa e adiacente (3), e come minoranza non unica, coesa e non adiacente (4), in quanto a due grandi penisole compatte vanno aggiunte per ciascuna lingua un’isola a grande distanza, i comuni di parlata francoprovenzale di Celle e Faeto in provincia di Foggia e quello di parlata provenzale di Guardia Piemontese in provincia di Cosenza (a rigore, anche le comunità alloglotte di parlata tedesca sparse lungo il versante meridionale dell’arco alpino sono da considerarsi in parte penisole, confinanti con l’area germanofona di oltralpe, in parte isole).
La situazione del sardo e del friulano, che costituiscono i due gruppi minoritari più consistenti demograficamente, è altresì particolare. Dal punto di vista linguistico interno, ci sono buone ragioni per considerare le due lingue o varietà come appartenenti al gruppo linguistico italoromanzo, al pari dell’italiano e dei vari dialetti delle regioni d’Italia; così come appaiono analoghi a quelli dei tradizionali dialetti la collocazione all’interno del repertorio e il rapporto nei domini d’impiego con la lingua standard nazionale. Questo porterebbe a concludere che non vi sia una reale diversità di situazione sociolinguistica fra il sardo e il friulano e i vari dialetti italoromanzi della penisola, e che quindi o non ha fondamento considerare il friulano e il sardo effettive lingue minoritarie, o, se li si considera tali, bisognerebbe trattare come lingue minoritarie anche i dialetti piemontese, lombardo, veneto, napoletano, siciliano e così via. Il riconoscimento dei parlanti sardi (fra l’altro la lingua sarda è suddivisa in più dialetti dotati di significativa identità propria, talché gli sforzi per trovare alfine l’accordo su una limba sarda comuna rappresentano una costante del dibattito isolano su questi temi nell’ultimo quindicennio) e dei parlanti friulani come minoranze linguistiche trova solo giustificazione, da un lato, negli originali caratteri strutturali, molto specifici e spesso conservativi, delle due lingue, che hanno fatto sì che fin dagli albori della linguistica romanza venissero annoverate nel panorama delle lingue neolatine (specie il sardo) come lingue autonome e non come dialetti, e, dall’altro lato, nel forte senso di una propria diversità e identità particolare caratteristica, e di affermazione di autonomia culturale, ben radicato presso le popolazioni sarda e friulana. Ma essendo quest’ultimo un fattore soggettivo e variabile, lo si potrebbe attribuire senza troppa tema di errore anche ad altre situazioni regionali italiane, soprattutto dopo che alcune vicende ideologiche e politiche di fine 20° sec. hanno rinfocolato la manifestazione di spiccati sentimenti di identità territoriali (al limite del nazionalismo locale) contrapposte a un’ideologia nazionale.
Vengono spesso annoverate come un caso a parte di minoranza linguistica in Italia anche le eteroglossie interne, costituite essenzialmente da parlate del gruppo dialettale gallo-italico stanziate nell’Italia meridionale e in Sardegna. In una quindicina di comuni siciliani, a cavallo fra le province di Catania, Enna, Messina e Siracusa, e in una decina di comuni di due aree in Basilicata, in provincia di Potenza, troviamo infatti ancora oggi parlate di ceppo settentrionale, con tratti piemontesi, liguri ed emiliani, portatevi da popolazioni insediatesi nel Medioevo. Il tabarchino, una varietà di dialetto genovese, è invece parlato a Carloforte e Calasetta, sulle isole di San Pietro e Sant’Antioco (provincia di Cagliari).
Nella tab. 2 proponiamo un esempio di applicazione della griglia dell’UNESCO alla situazione di tre varietà minoritarie italiane, il ladino dolomitico, il francoprovenzale valdostano e il francoprovenzale della provincia di Torino.
I punteggi attribuiti sono naturalmente frutto di una stima di chi scrive sulla base delle informazioni e conoscenze disponibili circa le diverse situazioni, e sono ovviamente correggibili qualora in possesso di rilevamenti più dettagliati e approfonditi sui vari punti pertinenti. Sono comunque evidenti dalla tab. 2 sia il buon grado di vitalità del ladino dolomitico, sia la grande differenza fra il francoprovenzale della Valle d’Aosta, da ritenere ancora dotato complessivamente di una discreta vitalità, e quello delle valli alpine in provincia di Torino, che pare seriamente minacciato.
È tuttavia indubbio che la grande maggioranza delle lingue minoritarie in Italia, e specificamente tutte le lingue minoritarie che non fossero riconosciute giuridicamente in base ai trattati internazionali seguiti alla Seconda guerra mondiale, sono da considerare lingue in maggiore o minor misura minacciate. La l. 15 dic. 1999 n. 482 da questo punto di vista ha colmato un’inaccettabile lacuna legislativa nell’applicazione della nostra Costituzione e ha certamente aperto molte nuove prospettive e nuove possibilità, prevedendo fra l’altro l’utilizzazione della lingua minoritaria nelle scuole, nell’amministrazione pubblica e nei procedimenti davanti al giudice di pace e stanziando appositi finanziamenti; ma non pare aver sinora prodotto risultati veramente significativi per la rivitalizzazione delle lingue in pericolo. O per lo meno un decennio di vita della legge è un lasso di tempo troppo breve per poter constatare mutamenti rilevanti. L’impatto della 482 sul panorama delle lingue minoritarie si è infatti manifestato con spinte anche contraddittorie e con iniziative disparate non sempre coerenti con le sue finalità, come fanno puntualmente notare da punti di vista diversi Tullio Telmon e Vincenzo Orioles (in Minoranze linguistiche, 2007, rispettivamente pp. 310-26 e 327-35).
Sebbene sia presto per esprimere una valutazione argomentata dei benefici e delle eventuali ricadute anche non positive della 482, è indubbio che su alcuni punti la sua applicazione ha esaltato aspetti negativi delle formulazioni contenute nel dettato della legge. Un punto di cui è già possibile constatare il carattere critico riguarda la delimitazione dell’ambito territoriale della protezione della lingua minoritaria, il cui riconoscimento è previsto a livello comunale (art. 3 della legge n. 482) e consiste di fatto nell’autodeterminazione. L’individuazione dei comuni facenti parte di una «minoranza linguistica storica» e ammessi alle misure di tutela e salvaguardia è compito del «consiglio provinciale, sentiti i comuni interessati, su richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni». Questo ha lasciato spazio a molti abusi, dando luogo a numerosi casi di comuni completamente estranei all’area territoriale di insediamento dell’idioma minoritario che hanno deliberato l’appartenenza e ottenuto lo statuto di comune facente parte della relativa minoranza linguistica (e all’opposto di comuni all’interno dell’area minoritaria che non hanno deliberato l’appartenenza).
Un esempio emblematico è quello di Castagnole Piemonte, comune di circa 2000 abitanti situato 25km a sud di Torino, in piena area dialettale piemontese, dove non risulta sia stata mai parlata una varietà galloromanza, che tuttavia ha deliberato l’appartenenza alla minoranza francoprovenzale (si noti che non c’è nemmeno contiguità geografica con i comuni di parlata francoprovenzale: le località francoprovenzalofone più vicine, nella Val Sangone, distano infatti una trentina di chilometri).
Nella regione Piemonte, dove recentemente è stata compiuta un’indagine sistematica su questi temi (E. Allasino, C. Ferrier, S. Scamuzzi, T. Telmon, Le lingue del Piemonte, Quaderno IRES, 2007) risulta una palese discrasia fra il numero dei comuni che hanno deliberato l’appartenenza a una delle quattro minoranze linguistiche riconosciute sul territorio regionale e quello dei comuni da ritenere appartenenti, sulla base della situazione linguistica effettiva, a una determinata area minoritaria: di fronte a 81 comuni effettivamente compresi nell’area occitana, ben 103 risultano quelli che hanno deliberato la relativa appartenenza, e di fronte a 5 comuni walser acclarati risulta che 12 hanno deliberato l’appartenenza alla minoranza walser. Per converso, di fronte a 52 comuni da ritenere compresi nell’area francoprovenzalofona, soltanto 42 hanno deliberato l’appartenenza relativa (e si consideri il caso di Castagnole Piemonte sopra esemplificato: numerosi comuni per lo meno francoprovenzaleggianti, per lo più situati nella bassa Val di Susa, hanno rinunciato in questo caso a chiedere l’appartenenza alla minoranza francoprovenzale). Se si considera come corrispondente alla dimensione demografica della minoranza linguistica interessata l’intera popolazione dei comuni che hanno deliberato l’appartenenza, l’applicazione burocratica della 482 farebbe dunque salire considerevolmente le cifre indicative che abbiamo fornito in merito nella tabella 1: la popolazione di lingua occitana salvaguardata nella regione Piemonte sarebbe forte di più di 163.000 persone, e quella francoprovenzale di circa 68.000.
Dinamiche linguistiche nelle lingue minoritarie
Dal punto di vista più strettamente del linguista, le lingue minoritarie, in ragione del contatto lungo, duraturo e intensivo con la lingua maggioritaria, dovuto al più o meno completo bilinguismo dei loro parlanti, rappresentano un campo elettivo e particolarmente significativo di manifestazione dei fenomeni tipici del contatto linguistico. Troviamo infatti nelle lingue minoritarie evidenze consistenti di tutta la gamma di fenomeni strutturali in cui si estrinseca la compresenza continua di due lingue in una comunità e nei parlanti. Si tratta per lo più degli effetti dell’azione della lingua dominante maggioritaria, che, costituendo il modello di prestigio e invadendo i domini d’uso della lingua minoritaria, esercita accanto alla pressione sociale e culturale anche una pressione di tipo strutturale e ne influenza gradualmente anche le modalità d’uso, il lessico, alcune caratteristiche morfosintattiche e così via.
Forniamo qui, a conclusione del nostro discorso sulla situazione delle lingue minoritarie, una cursoria esemplificazione dei fenomeni più significativi. Ampiamente diffuse sono anzitutto la commutazione di codice (code switching) e l’enunciazione mistilingue (code mixing), vale a dire l’alternanza di due sistemi linguistici diversi da parte dello stesso parlante nel medesimo discorso o all’interno di una stessa frase. Ecco esempi di ciascuno dei due fenomeni, (a) e (b), raccolti presso la comunità albanese di S. Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza (discussi da Silvia Dal Negro nell’articolo Il ‘codeswitching’ in contesti minoritari soggetti a regressione linguistica, «Italian journal of linguistics/Rivista di linguistica», 2005, 17, pp. 161-62):
a) njo, pjei këte… Mara, cosa fanno? («ecco, chiedi a lei… Mara, cosa fanno?»),
b) ‘e ma pasten… ng’xirmi tutto ma jo pasten («eh ma la pasta… toglietemi tutto, ma non la pasta»),
dove frasi in arbëresh e italiano vengono accostate nel discorso (a), o le due lingue si frammischiano nella stessa frase (b). Questo secondo esempio contiene anche un prestito adattato morfologicamente (pasten). I prestiti lessicali e i calchi semantici (passaggi di parole e di significati) da una lingua all’altra sono in effetti la forma più vistosa di influenza del sistema linguistico dominante. Tutte le lingue minoritarie in Italia mostrano consistenti innesti di materiale lessicale proveniente dall’italiano e in parte anche dai dialetti italoromanzi delle zone circostanti; e in generale buona parte dell’arricchimento lessicale delle lingue minoritarie avviene sotto l’influsso delle lingue maggioritarie, che forniscono neologismi e modelli di codificazione semantica in misura tanto più abbondante quanto più una lingua è in decadenza (uno dei tipici sintomi strutturali di decadenza linguistica essendo appunto la perdita di procedimenti produttivi di formazione di parole nuove mediante meccanismi interni al sistema indigeno). L’ingresso di prestiti adattati e non adattati, e calchi, dalla lingua dominante peraltro riguarda non solo le esigenze e le lacune lessicali corrispondenti a nuovi referenti prima inesistenti (prestiti cosiddetti culturali), ma pervade anche il lessico fondamentale. Nel pomattertitsch, il dialetto walser di Formazza/Pomatt, sono entrati non solo i termini televisione e macchina, ma anche faschtidi e sedschu «secchio» (Dal Negro 2004, p. 71).
Nel retoromancio dei Grigioni, sottoposto all’influenza del tedesco, troviamo, per es., non solo angurtar «indossare la cintura», dal ted. (sich) angurten, bremsar «frenare» (ted. bremsen), vacuumar «mettere sotto vuoto» (ted. vakuumieren), ma anche malegiar «dipingere» (ted. malen), o inhaftar «arrestare, mettere in prigione» (ted. inhaftieren). Un bel calco semantico-strutturale è dumandativ «problematico», derivato da dumandar «domandare» secondo il modello tedesco di fraglich, aggettivo deverbale da fragen «domandare» (gli esempi sono tratti da C. Solèr, Überwindung der Sprachgrenzen. Zurück zur Realität, in Eurolinguistik. Ein Schritt in die Zukunft, hrsg. N. Reiter, 1999, pp. 289-302).
Passaggi di lessico avvengono anche fra i dialetti italoromanzi confinanti e le parlate minoritarie. Essendo una condizione comune di molte delle minoranze linguistiche italiane avere in realtà repertori linguistici trilingui (e non semplicemente bilingui), costituiti da un gradino ‘alto’ dei domini d’impiego occupato dall’italiano, e da un gradino ‘basso’ in cui trova posto, accanto alla parlata minoritaria locale, anche il dialetto italoromanzo limitrofo, le dinamiche dei fenomeni di contatto interessano i tre sistemi. In questa rete di rapporti, le piccole lingue minoritarie sono i sistemi riceventi, e la direzione dei prestiti e delle interferenze va dall’italiano e dal dialetto italoromanzo alla parlata locale. Così, per es., nelle parlate griche del Salento sono diffuse forme come pulizéo «pulire», o o iusto «la verità», di contro alle forme indigene derivanti da katháiro e alétheia (v. A.A. Sobrero, A. Miglietta, Politica linguistica e presenza del grico in Salento, oggi, in Lingue, istituzioni, territori, a cura di C. Guardiano, E. Calaresu, C. Robustelli, A. Carli, 2005, p. 216).
L’influsso dell’italiano si fa sentire anche nella morfosintassi. Per es., in L’influsso dell’italiano sulla grammatica delle lingue minoritarie. Problemi di morfologia e sintassi (2005), Rosanna Benacchio (pp. 93-110) segnala nelle parlate slovene del Friuli la perdita di categorie grammaticali come il neutro e il duale, la collocazione dei pronomi clitici nella frase secondo un modello italiano, l’estensione agli aggettivi del suffisso diminutivo (in sloveno esclusivamente nominale) –ić (lipić < lipi come bellino < bello); Giuseppina Turano (pp. 23-41) osserva fra l’altro nell’arbëresh di S. Nicola dell’Alto l’instaurarsi di una struttura della negazione sconosciuta all’albanese: ng vjen nulu «non viene nessuno» ma nulu vjen «nessuno viene» (albanese nuk vien askush «non viene nessuno» e askush nuk vjen «nessuno viene», con mantenimento della doppia negazione anche quando il pronome negativo è preverbale); Walter Breu (pp. 111-39) nota nel croato molisano il formarsi di un articolo indefinito (violando il principio apparentemente universale secondo il quale la presenza di un articolo indefinito presupponga quella dell’articolo definito); e via discorrendo.
Tutti questi fenomeni, e in genere i mutamenti linguistici dovuti al contatto, mostrano di solito nelle lingue minoritarie una notevole variabilità, distribuendosi variamente negli usi dei parlanti in relazione ai classici fattori sociodemografici (fra cui particolare rilievo acquista nei contesti minoritari l’età, risultando i parlanti giovani quelli di gran lunga più esposti alle innovazioni, e in generale all’azione dell’italiano), e anche alternando in maniera apparentemente casuale nelle varie situazioni comunicative.
Tale grande variabilità è spesso ritenuta un sintomo di decadenza linguistica, connesso con il grado di vitalità della lingua. In particolare, risulterebbe un indizio di perdita di vitalità, in cui la diminuita presenza della lingua negli usi e presso i parlanti si riverberebbe in una progressiva erosione e per così dire sfarfallamento delle sue strutture, particolarmente evidenti presso i semiparlanti o parlanti imperfetti. Silvia Dal Negro ha studiato approfonditamente, indagando il caso specifico della comunità parlante walser di Formazza, le correlazioni esistenti fra fatti strutturali e dinamica di regressione di una piccola varietà minoritaria, mostrando come nelle lingue minacciate possano coesistere, all’interno di un quadro di spiccata variabilità, fenomeni di perdita di distinzioni e strutture ma anche innovazioni autonome, come, per es., la fissazione di una perifrasi verbale costruita con il verbo tun «fare» (ich tö television lögä «guarderò la televisione», lett. «io faccio vedere (la) televisione», Dal Negro 2004, p. 199).
Si tratta dunque di una mistura non sempre di facile interpretazione, che va a sua volta associata alle dinamiche a volte contraddittorie che contrassegnano la percezione esterna della situazione delle lingue minoritarie in questo inizio di 21° sec., in una dialettica fra velleità di rinascita, tracce di ripresa, tendenze di stabilizzazione e sintomi di avanzata regressione che non consente di tracciare prospettive univoche e tanto meno permette di formulare prognosi attendibili riguardo ai futuri sviluppi.
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