lingue inventate
Per lingua inventata si intende una lingua artificiale, provvista di proprie regole sintattiche (descritte o meno) e proprio lessico (inventariato o meno). Sono state inventate lingue artificiali per motivi filosofici, letterari, scientifici, linguistici, religiosi, di gioco.
Il fenomeno dell’invenzione di lingue artificiali non è unitario ma si può presentare, a seconda dei casi, con caratteristiche, motivazioni e risultati anche molto differenti. Perché sia pienamente e sicuramente distinguibile dai fenomeni di invenzione in una lingua data (neologismo, poesia d’avanguardia, storpiatura gergale) occorre che sia presente almeno una delle seguenti condizioni: la formalizzazione esplicita delle regole di sintassi e la denominazione della lingua medesima. La formalizzazione è una condizione sufficiente, ma non necessaria; la denominazione è una condizione necessaria, ma non sufficiente, se non è accompagnata dalla spiegazione della sintassi o da almeno un esempio della lingua medesima. Molti repertori, però, tengono in considerazione anche lingue di cui venga menzionato solo il nome (per es., in un’opera letteraria).
Un esempio di lingua inventata, denominata (sia pur in modo ingannevole) ed esemplificata ma priva di formalizzazione esplicita, è il «persiano antico» di cui Tommaso Landolfi (1908-1979) dà campionature nel racconto Dialogo dei massimi sistemi (forse la più nota lingua inventata letteraria, per l’Italia):
Aga magéra difúra natun gua mesciún
Sánit guggérnis soe-wáli trussan garigúr
Nella finzione letteraria, la lingua ha sintassi e semantica: il protagonista del racconto l’ha infatti imparata come «persiano antico» da un altro personaggio, per poi accorgersi che si tratta di una lingua di invenzione, ed è anche in grado di tradurla sommariamente («Anche piangeva della felicità la faccia stanca / mentre la donna mi raccontava della sua vita ...»).
Landolfi ha invece descritto altrove, senza darne esempi, la complicata sintassi di una lingua in tre varianti rispettivamente denominate «L. I», «L. II» e «L. III».
Il ➔ grammelot teatrale, invece, è un esempio di lingua fornita di denominazione ma priva di formalizzazione, tanto esplicita quanto implicita, poiché risponde a una regola mimetico-intonativa e non a una sintassi.
I criteri più frequenti per la classificazione delle lingue inventate derivano dalla motivazione dell’invenzione e dalla funzione della lingua medesima. Il più vasto repertorio italiano di lingue inventate (Albani & Buonarroti 1994) distingue preliminarmente fra lingue sacre (strutturate o non strutturate, come le glossolalie, le lingue iniziatiche o i linguaggi dell’estasi mistica) e non sacre. Fra queste ultime si distinguono lingue di gioco (come l’alfabeto farfallino infantile: v. oltre) o artistiche (come lo scat jazzistico o il Newspeak di George Orwell) e lingue di comunicazione, fra cui le lingue ausiliarie internazionali (come l’esperanto), i sistemi di crittografia militare, i linguaggi logico-matematici e di programmazione.
Altri criteri di classificazione riguardano:
(a) la possibilità che l’invenzione investa uno o più aspetti di una lingua esistente (morfologia, sintassi, semantica), lasciandone inalterati altri (come spesso succede con la fonetica), o che al contrario trascenda completamente ogni lingua esistente; in genere i due casi sono denominati rispettivamente lingua inventata a posteriori e lingua inventata a priori;
(b) la circostanza per cui di una lingua inventata si faccia solo menzione, se ne dia un campione o se ne fornisca una descrizione di minore o maggiore completezza (fino a consentire al lettore di comprenderla e impiegarla effettivamente);
(c) la posizione di una data lingua inventata su un’ideale scala che riporti la gradazione dalle lingue a massima connotazione espressiva su un estremo (il grammelot) e a massima connotazione formale sull’altro estremo (linguaggi logici e di programmazione).
Una tipologia di tipo invece storico è stata avanzata da Marrone (20042), che elenca: lingue filosofiche a priori del Settecento (da cui derivano i linguaggi artificiali dei moderni computer); linguaggi segreti di sette mistiche o laiche; lingue universali e sistemi interlinguistici dell’Ottocento; lingue di verbigerazione letteraria (si fanno i nomi, tra gli altri, di François Rabelais, Jonathan Swift, Lewis Carroll, Howard Phillips Lovecraft, Filippo Marinetti, Jorge Luis Borges, Fosco Maraini, Raymond Queneau, James Joyce, Dario Fo, Umberto Eco, John Ronald Reuel Tolkien). Da questo insieme composito la studiosa isola il gruppo di «lingue utopiche», quelle descritte in opere che delineano mondi o universi utopici. L’aspetto utopico è comunque presente in molti altri tipi di linguaggi inventati, poiché uno dei procedimenti più tipici dell’invenzione linguistica corrisponde a una semplificazione di una o più lingue naturali, negli elementi in cui si possono riscontrare irregolarità e assenza di simmetria. Tipico delle utopie è infatti il vagheggiamento di un idioma comprensibile a ogni uomo.
L’idea di una lingua universale e perfetta ricorre già dall’antichità (per es., in rapporto al mito di Babele), ma il primo pensatore a porsi l’obiettivo di elaborare effettivamente un linguaggio capace di un rapporto diretto con i concetti, e comprensibile anche al di là delle differenze linguistiche fra gli uomini, fu Francis Bacon (1561-1626). Bacon cercava i «caratteri reali»: elementi universali, che si distinguono dai «caratteri vocali» per il loro riferimento diretto (non mediato linguisticamente) a concetti precisi e univocamente determinati. L’allargamento delle conoscenze antropologiche dovuto alle esplorazioni e la relativa decadenza del latino come lingua veicolare dell’Europa colta stimolarono allora quella «ricerca della lingua perfetta» a cui Eco (19932) ha dedicato una rassegna storica, e che impegnò le riflessioni di autori come Comenio (1592-1670), René Descartes (1596-1650), John Wilkins (1614-1672) e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716).
Nelle alterne vicende di questa ricerca plurisecolare ricorrono due esigenze fondamentali: la comprensibilità universale della lingua e la sua capacità di descrivere e anzi definire il mondo (il più delle volte attraverso la combinazione di caratteri fondamentali detti primitivi). Una lingua del genere era destinata a diventare uno strumento di calcolo, ancora più che di espressione, ed era nettamente caratterizzata come lingua a priori, del tutto indipendente da ogni lingua naturale. La sua elaborazione era spesso ispirata alla combinatoria lulliana per la sintassi e all’analisi di geroglifici e ideogrammi per la notazione (come nelle opere di Athanasius Kircher, 1602-1680). Su questi principi la ricerca proseguì per tutto il Settecento, con numerosi progetti di pasigrafia (lingua universale scritta), pasilalia (pasigrafia fornita di regole di pronuncia), poligrafia (sistema di scrittura convenzionale, in genere di tipo numerico, per esprimere contenuti comprensibili a persone di madrelingua differente).
Nell’Ottocento vi fu una ripresa della ricerca della lingua perfetta, sotto le insegne della grammatica universale propugnata dalla comunità di Port-Royal. Ma il XIX secolo si caratterizza piuttosto per l’inversione della direzione, che non ha più puntato verso una lingua a priori quanto, più pragmaticamente, verso una lingua a posteriori, in grado di semplificare e sintetizzare le lingue esistenti ed essere perciò facilmente appresa e compresa da una vastità di individui. L’aspirazione non era più rivolta a una ‘lingua perfetta’, che funziona poiché è strutturata a immagine del mondo e in coerenza con le regole del pensiero, ma a una lingua ‘meno imperfetta’ di ogni lingua naturale, utile per permettere agli uomini di comprendersi tramite la sintesi degli elementi già comuni alla maggior parte delle lingue (come, per es., le radici dei lessemi).
Il primo tentativo di un certo successo fu il Volapük di Johann Martin Schleyer (1831-1912), che in realtà consisteva in un sistema misto: a posteriori in quanto basato su una lingua esistente (l’inglese parlato), soprattutto per quanto riguarda i radicali; a priori in quanto sviluppato su un sistema convenzionale di desinenze e derivazioni (tutti gli aggettivi escono in -ik, tutti i comparativi in -um, ecc.).
La lingua ausiliaria di maggior successo è però indubbiamente l’esperanto di Ludwig Lazarus Zamenhof (1859-1917), caratterizzato dalla corrispondenza biunivoca tra il sistema alfabetico e il sistema fonologico (ventotto caratteri per ventotto suoni), la posizione sempre piana dell’accento tonico, l’invariabilità del rapporto tra prefissi o suffissi e i loro rispettivi significati, l’estrema semplificazione delle forme verbali.
Fra le altre forme di lingue ausiliarie ebbe una certa importanza il latino sine flexione del matematico Giuseppe Peano (1858-1932), fondato esclusivamente su regole di semplificazione del latino e volto a scopi di comunicazione internazionale in campo scientifico.
Almeno curioso è infine il caso dell’Europanto. Inventato dal traduttore e scrittore Diego Marani (nato nel 1959) come linguaggio da gioco, l’Europanto non ha regole proprie. Ogni frase deve mutuare la struttura sintattica dal francese o dall’inglese e impiegare parole provenienti da almeno tre diverse lingue della Comunità europea. Impiegato inizialmente nella comunità dei traduttori del Consiglio europeo di Bruxelles, l’Europanto si è dimostrato in grado di funzionare anche nei confronti di un pubblico generico: articoli e libri scritti in Europanto sono risultati effettivamente comprensibili a individui di diverse nazionalità.
Per altri versi, i tentativi di costruzione di una lingua universale hanno prodotto lingue logico-filosofiche che sono alla base sia dei tentativi di formalizzazione del discorso delle scienze umane all’epoca dello strutturalismo (per es., nell’opera di Louis Hjelmslev, 1899-1965) sia dei linguaggi di programmazione tramite i quali vengono istruiti i computer.
Dall’opera di Rabelais a quella di Swift, sino agli esiti novecenteschi di Joyce e Borges, l’invenzione di idiomi in linea di fatto inesistenti è un’importante tecnica plurilinguistica, che arricchisce la stratificazione testuale e il più delle volte assume anche una portata metalinguistica, come riflessione sui limiti del linguaggio umano. Frequentemente introduce anche un elemento criptico nella comunicazione letteraria: così, per esempio, succede con i versi danteschi «Pape Satan, Pape Satan Aleppe» (Inf. VII, 1) e «Raphel maì amècche zabì almi» (Inf. XXXI, 67).
Nella narrativa, i fenomeni di lingua inventata possono andare dalla semplice interpolazione di espressioni incomprensibili, come il dialetto pseudobergamasco dei carbonai nel Barone rampante di Italo Calvino («Hanfa la Hapa Hota ’l Hoc!», «Hegn Hobet Ho de Hot!»), anche per via onomatopeica (i versi degli uccelli nella poesia di ➔ Giovanni Pascoli), a vere e proprie lingue descritte in una narrazione, o nei suoi apparati peritestuali (come il Newspeak orwelliano). L’ultimo caso è divenuto particolarmente frequente nella letteratura fantascientifica e fantasy, dove la popolarità di opere che descrivono le lingue parlate da comunità immaginarie (come quelle degli elfi e di altre creature nel Signore degli Anelli di Tolkien o il Klingon nell’universo multimediale di Star Trek) ha fatto sorgere un’abbondante letteratura secondaria a proposito di tali lingue. Il fenomeno si è recentemente avvantaggiato delle possibilità offerte dalla rete di Internet, dove gli appassionati hanno fondato siti in cui si comunica in tali lingue e in cui se ne codificano lessico e sintassi. Molte opere fantascientifiche e fantasy, soprattutto cinematografiche, si avvalgono della consulenza di veri e propri inventori linguistici specializzati.
In poesia, l’invenzione linguistica è una pratica spesso intesa a recuperare quei valori espressivi fonosimbolici che normalmente risultano inavvertibili a causa della preminenza della funzione comunicativa del linguaggio. Con maggiore radicalità, movimenti come il lettrismo di Isidore Isou o il trans-mentalismo di Velimir V. Chlebnikov si riferiscono all’utopia di una lingua pre-semantica, primitiva o futura, la cui base espressiva è minore della parola: il suono del fonema o l’evocazione grafica della lettera. Tali ricerche hanno nutrito le poetiche dell’avanguardia del secondo Novecento, che si sono poste il problema dell’elaborazione artistica del linguaggio frammentato della contemporaneità, la cui rappresentazione non può che prescindere dalle norme di coerenza e consistenza testuale in una lingua data.
In altri casi, la lingua inventata deriva da un gioco con una lingua di partenza, di cui si riprendono fonetica, morfologia e a tratti anche lessico, ma con esiti semantici del tutto inediti. È il caso dell’italiano-sosia impiegato da Julio Cortázar in alcuni sonetti:
Simonetta, la fosca malintesa
chiude le rami inaltri fino al lardo.
Magari i tuoi allunghi di leopardo
montano al valle, dove sta la chiesa.
O forse no, forse stai muta e resa
da fronte al mar, piggiotando il dardo
o da Fosco Maraini con il suo italiano ‘metasemantico’:
Ci sono dei giorni smègi e lombisiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plogidan sul mondo infragelluto
Simili procedimenti si pongono ai confini fra l’invenzione linguistica e il nonsenso e, nella letteratura italiana, mescolano le aggregazioni insensate di parole esistenti, tipiche del Burchiello («Nominativi fritti e mappamondi»), e le aggregazioni insensate di parole inesistenti, tipiche del Pataffio di Luigi Malerba («Squasimodeo, introcque e a fusone»).
Nelle arti figurative, il Novecento ha praticato – tramite il collage, l’aforisma, la rappresentazione della nuova visibilità della scrittura – moduli linguistici (spesso inventivi) che in precedenza erano limitati alla funzione didascalica dei cartigli. L’opera Codex Seraphinianus di Luigi Serafini è un’intera enciclopedia che descrive un mondo immaginario tramite tavole illustrate e didascalie composte in una lingua e in una scrittura alfabetica del tutto inventate.
La musica e il teatro hanno infine inventato lingue fonosimboliche come lo scat jazzistico o il grammelot teatrale in cui la mimesi, sul piano dell’espressione, si rivela capace di surrogare l’inesistenza di un piano del contenuto codificato, riportando con efficacia il linguaggio alla sua radice sensoriale e combinatoria.
Per quanto l’impiego letterario delle lingue inventate abbia fini per lo più comici o umoristici, le fonti di tali invenzioni vanno cercate nella glossolalia mistica o ludico-infantile (Bausani 1974) oppure in gerghi criptici e lingue ‘furbesche’, come il francese verlan, che consiste in inversioni sillabiche eseguite alla normale velocità del parlato.
La glossolalia nasce come lingua mistica, da cui l’oracolo o il profeta ‘è parlato’. Non essendo pensabile né che la divinità non parli, né che si esprima in una delle lingue umane, né che la lingua in cui si esprime sia ricostruibile per via speculativa, si è attribuito ad alcuni individui il dono di sapere trasmettere tale linguaggio o il privilegio di comprenderlo. Nella tradizione cristiana la glossolalia si esplica nel dono pentecostale della xenoglossia (gli apostoli erano in grado di predicare in lingue a loro ignote) e nel «parlare in lingue» (usare un linguaggio comprensibile solo a Dio o agli angeli).
Forme di glossolalia sono anche state attribuite all’infanzia, ritenuta l’età in cui le convenzioni del linguaggio ‘naturale’ appreso non hanno ancora del tutto sostituito un istinto linguistico primordiale, comune a tutti gli uomini e quindi vicino al mito della lingua perfetta.
In effetti, e pur senza possibili riferimenti a una lingua perfetta originaria, diverse invenzioni linguistiche sono tipiche dell’infanzia. Anche se non è mai stata del tutto verificata l’ipotesi dell’esistenza di una criptolalia tipica delle coppie di gemelli, è però comune che i bambini stabiliscano forme di storpiamento della propria lingua da impiegare con gli amici o anche soltanto con sé stessi. Lo stesso principio è alla base dell’insorgenza di gerghi, caratteristici di comunità criminali, società segrete o gruppi generazionali cementati anche, quando non soprattutto, dalla comune adesione a codici linguistici propri.
Dossena (2004) ha formalizzato quattro forme di lingua inventata ludica, esemplificate attraverso la trasformazione che rispettivamente producono nell’espressione «parlare così»:
(a) parlara casà (la stessa vocale sostituisce tutte le altre, come nel gioco che si fa cantando Garabalda fa farata al posto di Garibaldi fu ferito);
(b) reparla sicò (la sillaba finale viene portata in posizione italiana, come nel gergo francese del verlan);
(c) parca laca reca coca sica (a ogni sillaba viene aggiunta una consonante fissa e ne viene ripetuta la vocale; la versione in cui si aggiunge la F viene chiamata alfabeto farfallino ed è la più comune; la versione in S è l’alfabeto serpentino, usato da Federico Fellini in Otto e mezzo, con la formula magica «asanisimasa», anima in alfabeto serpentino);
(d) eralrap isoc (ogni parola viene sostituita dalla sua lettura retrograda, lettera per lettera; l’abilità di parlare alla rovescia viene sviluppata da molti parlanti, fra i sette e i dieci anni d’età, come linguaggio criptico individuale).
Lo stesso Dossena ha costruito e studiato il Bacedifo, un linguaggio che procede per progressive trasformazioni di enunciati dati, giungendo a una finale distruzione del linguaggio.
Albani, Paolo & Buonarroti, Berlinghiero (1994), Aga magera difura. Dizionario delle lingue immaginarie, Bologna, Zanichelli.
Bausani, Alessandro (1974), Le lingue inventate. Linguaggi artificiali, linguaggi segreti, linguaggi universali, Roma, Ubaldini.
Dossena, Giampaolo (1991), Garibaldi fu ferito, Bologna, il Mulino.
Dossena, Giampaolo (2004), Il dado e l’alfabeto. Nuovo dizionario dei giochi con le parole, Bologna, Zanichelli.
Eco, Umberto (19932), La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma - Bari, Laterza (1a ed. Milano, La rivista dei libri, 1992).
Marrone, Caterina (20042), Le lingue utopiche, Roma, Stampa Alternativa & Graffiti (1a ed. Roma, Melusina, 1995).