pedantesca, lingua
La definizione di lingua pedantesca si basa sul fatto che proprio la lingua presiede alla costituzione della figura del Pedante in diverse commedie (e di differente area regionale) del Cinquecento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’): la lingua è un latino solo di facciata, fonte di equivoci, ridotto alle storpiature e agli strafalcioni che caratterizzarono poi il tipo del dottore (Graziano o Balanzone) nella commedia dell’arte. È dunque il linguaggio stesso a diventare personaggio, a partire dalla commedia eponima (Il pedante, 1529) di Francesco Belo – probabile fonte dei Cantici di Fidenzio di Camillo Scrofa – e poi dal Marescalco (1533) di Pietro Aretino fino al Candelaio (1582) di Giordano Bruno.
Contini (1976: 590) ha definito il pedantesco (e soprattutto la sua «iperbole […] ante litteram come ancora quattrocentesca», l’Hypnerotomachia Poliphili) «invertito macaronismo» (➔ latino macaronico), in quanto la posizione linguistica macaronica è rovesciata e «trasposta dal latino al volgare», nel senso che qui sono le parole latine ad assumere una morfologia volgare, con una interferenza speculare quindi rispetto al latino macaronico.
La prima realizzazione di questo tipo di linguaggio di base lessicale latina ma con morfologia nel complesso italiana si può infatti riportare all’Hypnerotomachia Poliphili, «romanzo allegorico» stampato a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio, illustrato da splendide xilografie, per le quali si sono evocati diversi incisori senza certezza attributiva. L’opera è anonima ma, come si ricava dall’acrostico costituito dalle iniziali dei capitoli («Poliam frater Franciscus Columna peramavit»), ne è autore il domenicano veneziano del Convento dei SS. Giovanni e Paolo, Francesco Colonna (cfr. Casella & Pozzi 1959), «frate irrequieto, libertino e indocile» (Contini 1976: 591), morto nel 1527 (probabilmente all’età di 94 anni).
Fin dalla dedica di Leonardo Grassi al duca d’Urbino Guidobaldo da Montefeltro (che era stato discepolo dell’umanista padovano Ludovico Odasi, fratello del Tifi autore della Macaronea) era esplicito l’impasto linguistico del libro, alla cui comprensione sono necessari greco e latino non meno del toscano e del vernacolo (Colonna 1964: IX): «Res una in eo miranda est, quod cum nostrati lingua loquatur, non minus ad eum cognoscendum opus sit greca et romana quam tusca et vernacula».
Alla base lessicale latina si applica una morfologia complessivamente italiana, con pochi elementi che inducono a una localizzazione settentrionale (qualche sfumatura fonetica, come mi «me», angossa, trangusito, rare presenze di metafonesi del tipo sospiritti, hapax fra i diminutivi, capigli; o morfologica come pole; non vistose impronte lessicali genericamente settentrionali: rare, ma non inesistenti, sono le venete, magari con intenti espressionistici, del tipo tatule, bellaza Polia, puta bonazza, folpaceamente basiato). La latinizzazione è generale, sia a livello grafico (fino all’ipercorretto praeseron) che fonetico (il tipo auscultato, opaci) ma soprattutto sintattico (espressioni participiali, al di là degli ablativi assoluti, giustapposizione lineare di elementi nominali) e lessicale (deformazione tramite prefissi, del tipo peramoeno, soprattutto l’abuso ipocoristico con il diminutivo aggettivale -ula: tantula, adulescentula, succidula «umidetta», o sostantivale -ulo: flosculi, nemoruli «boschetti» e -ola: strophiola «strofetta», historiola; suffissi, del tipo in -abondo, -amine, -igero o quello derivativo -eo: cynnamei).
A livello lessicale, il latino è un organismo eclettico che pesca da fonti di livello sincronico diverso, da Apuleio a Plinio il vecchio, da Gellio a Paolo Diacono (e dai più ‘classici’ Catullo, Lucano, con una preferenza per vocaboli creati o usati solo da Ovidio), da Roccabonella al Jacopo Caviceo del De exilio Cupidinis e della Lupa, che, con il Peregrino, e insieme al Delfilo di Marco Antonio Ceresa, è il più vicino all’impianto linguistico di frate Colonna (oltre al cap. III, Lingua e grammatica, di Pozzi in Casella & Pozzi 1959, II, si veda la breve ma precisa Nota al testo in Colonna 1964: 26-35). In questo ordito trovano naturale collocazione i numerosi neologismi del tipo spirituli, aggladiato «trafitto», columbaceamente «al modo dei colombi», ioculante «giocherellante», venustamine «eleganza» e il già citato nemoruli «boschetti» (cfr. Contini 1976: 592-639).
Per il gusto della contaminazione e della deformazione, per certe curiosità teoriche, per alcune presenze dialettali, soprattutto per elementi culturali e figurativi, questo «delirio verbale» (Contini 1976: 591) si inserisce a pieno titolo nel quadro della cultura e letteratura veneta di fine Quattrocento (Casella & Pozzi 1959 richiamavano Antonio Vinciguerra e un «certo strano mondo di umanisti minori») e senza di esse è inconcepibile.
Complessivamente la posizione dl frate Colonna si può allineare a quella della scuola bolognese di Filippo Beroaldo e Giovanni Battista Pio: se non di retroguardia, era però irrimediabilmente perdente, dal momento che la filologia su cui si appoggiava entrò in crisi dopo Ermolao Barbaro e della soluzione di lingua avanzata (nonostante l’impasto boccacciano della sua prosa) fece giustizia ➔ Pietro Bembo. Colonna non riesce a dare forma letteraria separata alla tradizione latina e a quella volgare e «le compone non già sotto il segno del compromesso ma della violenza più sfrenata».
La censura dell’affettazione di quanti «scrivendo e parlando a donne usano parole di Polifilo» espressa da ➔ Baldassarre Castiglione (Cortegiano III, lxx) è testimonianza della larga imitazione cui questa frenesia verbale fu sottoposta e ne spiega anche il fortunato passaggio al teatro.
L’azione scenica innesca la molla comica con il linguaggio ibrido e artificiale del personaggio del Pedante, definito nelle commedie «parlare per lettera», fatto di pseudocitazioni latine o di parole italiane ricercate e rare, incastonate in un linguaggio polifilesco, irto di vocaboli culti e rari, iperlatinismi che convivono con latinismi di uso corrente e scolastico, lessemi italiani superficialmente latinizzati, neologismi ridicoli: il tutto a stridente contrasto con concetti bassi e volgari, ovvi e triti. A livello sintattico restano evidenti i costrutti di tipo latino (proposizioni infinitive, ablativi assoluti). Basti l’entrata di mastro Prudenzio nel Pedante (I, iv; Belo 1977: 17), con la citazione virgiliana (dalle Bucoliche X, 69, prima, dall’Eneide I, 94, poi) «Omnia vincit amor et nos cedamus amori».
Nel corso del Cinquecento, sono almeno quarantasette le commedie in cui va in scena il Pedante, a iniziare dalla Calandra del Bibbiena e dall’Eutichia di Nicola Grasso, dove Polinico e Ocheutico – quasi dei ‘protopedanti’ – hanno sì la sentenziosità e i vizi che avrebbero poi connotato il personaggio ma non ancora il linguaggio ibrido di latino e volgare (Stäuble 1991: 9). Già in quella che è probabilmente la prima macaronea (databile al 1484-1489), la Tosontea di Corado, al facchino che ambisce alla carriera universitaria il medico Mengo «ipsum / un bus in babus docuit parlare per letra».
Fin dal titolo (Il pedante), la commedia di Francesco Belo è tutta incentrata sulla figura del maestro di scuola pederasta e del suo assistente, il Repetitore, che si esprimono in un impasto di latino e italiano, citazioni, sentenze e neologismi latineggianti:
Certamente pare, al giudizio dei periti, che totiens quotiens un uomo esce delli anni adulescentuli, verbi gratia un par nostro, non deceat sibi l’amare queste puellule tenere: benché dicitur che a fele, senio confecto, se lli convenga un mure tenero. Oh terque quaterque infelice Prudenzio! a cui poco le virtù e le lunghe lucubrazioni e i quotidiani studi prosunt. E ciò solo aviene ché li uomini sono inimicissimi delle virtù e delle Muse del castaldo e pegaseo fonte; e come li arieti o li zirconi, con li corii aurati viveno, ché «sine doctrina vita est quasi mortis imago»; ed hanno sì la virtù conculcata che solo alle crapule attendono et incumbunt a rubare, a soppeditare el prossimo con mille versuzie e doli. […] E, se alcuno vole captare benevolenza appresso di loro, bisogna che sia un testis iniquus, un garrulo inquieto, un furcifer, un capestruncolo, un cinedulo calamistrato, un tonditore di monete, un lenone, uno inrumatore, un caupone tabernario inimico del politico vivere … (I).
Riprendendo il tipo teatrale da Belo e intrecciandolo con la raffinatezza dell’Hypnerotomachia, il vicentino Camillo Scroffa rivitalizza il pedantesco nei Cantici di Fidenzio, scritti qualche anno prima del 1562, in cui prevale la satira ad personam del grammatico Pietro Fidenzio Giunteo «Glottochrysius» da Montagnana. L’argomento del canzoniere (e il canone petrarchesco è immediatamente riconoscibile nel sonetto d’esordio: «Vos ch’auribus arrectis auscultate / in lingua etrusca il fremito e il rumore / de’ meii sospiri pieni di stupore») è l’amore pederastico del pedante per l’allievo (individuato nel nobile mantovano Camillo Strozzi). In realtà già dal terzo sonetto («Le tumidule genule» – calco de «le rotunde et tumidule gene» di Hypn. 269, con una replicazione del suffisso diminutivo -ule ad eco rimata –, «i nigerrimi / occhi, il viso peralbo et candidissimo») i Cantici rivelano la reale ed evidente intenzione parodica dell’Hypnerotomachia nella rima camilliphilo: Poliphilo. Anche la struttura dei Cantici (con le ovvie differenze quantitative: al grosso in-folio del prezioso incunabolo aldino comprendente 38 capitoli in prosa si contrappongono 17 sonetti, 2 capitoli, una sestina e una quartina) ricalca quella dell’Hypnerotomachia, chiusi come sono fra il sonetto II dedicatorio (il I è una specie di prefazione dopo il «triennal silentio» cui si accenna nel sonetto XVIII) e l’Epitaphium Fidentii, simmetricamente corrispondenti all’offerta «Poliphilus Poliae S.P.D.» e all’epitaffio «Foelix Polia, quae sepulta vivis» di Colonna.
I travasi lessicali, lemmatici e contestuali, sono sempre troppo preziosi e inusitati per essere casuali o mnemonici e non più intenzionalmente allusivi; ad es.: lanista I, 6 (Hypn. 384), tantillo V, 11 (Hypn. 383), latibuli VII, 14 (Hypn. 6), famulitio IX, 7 (Hypn. 269), petulce XVII, 172 (Hypn. 52, 130, 132 segg.), diverticuli XIX, 10 (Hypn. 5, 57), stapia XIX, 10 (Hypn. 258), diversorio XIX, 57 (Hypn. 422: qui delicioso, lì empio), indignabundo XIX, 73 (Hypn. 131, 145 segg.), linteamini XIX, 109 (Hypn. 71, 402: qui bianchissimi e candidi, lì illoti). Ma è proprio il complesso delle operazioni attuate da Scroffa sulla lingua che rinvia all’Hypnerotomachia: l’uso di ➔ latinismi e ➔ grecismi (per via latina), i procedimenti di latinizzazione, l’abuso parasintetico e suffissale (senza pur giungere alle concrezioni tipiche di Colonna), in particolare diminutivo, del tipo in -usculo (II, 2-7: opusculo, munusculo, pettusculo, duriusculo; XVII, 181-3: corpusculo; puntusculo; XIX, 58-60: blandiusculi, verbusculi) e in -ulo (III, 1 tumidule genule, III, 5 crinuli, IX, 11-4 gutula, mutula, XVII, 181 languidulo, XVII, 182-6 tranquillulo, Camillulo, tantillulo).
Il personaggio di Fidenzio, lingua d’oro, creato da Scroffa divenne presto proverbiale; la fortuna dei Cantici (copiati in sette manoscritti e stampati, dopo la princeps, altre diciassette volte fino al 1614 e non solo da editori vicentini; cfr. Trifone 1981) canonizzò il termine fidenziano per definirne il linguaggio, soppiantando progressivamente quello più neutro, per così dire, e più legato alla ‘maschera’ teatrale, di pedantesco.
Belo, Francesco (1977), Il pedante, in Davico Bonino 1977-1978, vol. 2°, pp. 3-86.
Bruno, Giordano (1978), Candelaio, in Davico Bonino 1977-1978, vol. 3°, pp. 133-292.
Castiglione, Baldesar (19813), Il libro del Cortegiano con una scelta delle Opere minori, a cura di B. Maier, Torino, UTET.
Colonna, Francesco (1964), Hypnerotomachia Poliphili, a cura di G. Pozzi & L.A. Ciapponi, Padova, Antenore, 2 voll.
Colonna, Francesco (20042), Hypnerotomachia Poliphili, a cura di M. Ariani & M. Gabriele, Milano, Adelphi, 2 voll. (1a ed. 1998).
Scroffa, Camillo (1981), I cantici di Fidenzio, a cura di P. Trifone, Roma, Salerno Editrice.
Casella, Maria Teresa & Pozzi, Giovanni (1959), Francesco Colonna. Biografia e opere, Padova, Antenore, 2 voll., vol. 1º (Biografia), vol. 2 º (Opere).
Contini, Gianfranco (1976), Letteratura italiana del Quattrocento, Firenze, Sansoni.
Davico Bonino, Guido (a cura di) (1977-1978), Il teatro italiano, Torino, Einaudi, 5 voll., voll. 2º-3º (La commedia del Cinquecento).
Stäuble, Antonio (1991), «Parlar per lettera». Il pedante nella commedia del Cinquecento e altri saggi sul teatro rinascimentale, Roma, Bulzoni.
Trifone, Pietro (1981), Introduzione e Nota al testo e apparato, in Scroffa 1981, pp. IX-XLIX, 107-159.