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EBRAICA, LINGUA

di J. Alberto Soggin - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)
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EBRAICA, LINGUA

J. Alberto Soggin

(v. ebrei: Lingua, XIII, p. 356)

L'ebraico non è mai stato una lingua totalmente morta. Dopo la catastrofe degli anni 132-34 d. C. restò come lingua della teologia e della cultura in generale, raramente parlata. In ebraico venne scritta parte notevole del Talmûd, dei Commentari rabbinici, delle opere dei grandi grammatici, filosofi e mistici del Medioevo e del Rinascimento. Come valido paragone si può citare il latino ecclesiastico e accademico, anch'esso usato solamente nella liturgia e dai dotti.

Durante l'Illuminismo, nella seconda metà del 18° secolo in Europa occidentale e durante la prima metà del 19° in Europa orientale, si assiste a una rinascita dell'ebraico anche come lingua laica e nuovamente parlata. Si tratta dell'epoca che in ebraico viene chiamata haśkālāh (che significa, letteralmente, appunto "illuminismo"). In qualche caso tale rinascita avvenne anche come reazione allo jiddiš, sentito come lingua incolta del ghetto; ma essa non ebbe carattere generale, essendovi anche chi sosteneva la necessità dell'assimilazione linguistica nei paesi di residenza (per es. J. L. Gordon, 1830-1892). La vera rinascita dell'ebraico come lingua d'uso quotidiano non può essere disgiunta dall'inizio del movimento sionista e ha origine dall'esigenza di una lingua comune per gli immigrati da varie nazioni, che fosse allo stesso tempo radicata nella tradizione. Su ciò non tutti furono d'accordo: lo stesso T. Herzl, considerato il fondatore del sionismo e che non conosceva l'ebraico, metteva in ridicolo questi tentativi ("Chi di noi sarebbe capace di acquistare in ebraico un biglietto ferroviario?"). Ma ciò nonostante l'ebraico finì per imporsi, anche perché era l'unica opzione disponibile.

Nacque così una lingua basata essenzialmente sul linguaggio della mišnāh, integrata da un lato da quella biblica, dall'altro da quella dei filosofi e dei grammatici medievali e da non pochi neologismi. Del linguaggio mišnaico essa mantiene l'eliminazione, nella lingua parlata, dello ''stato costrutto'' e del waw consecutivo; fissa l'uso del participio qal attivo in funzione di presente, un tempo assente dalla grammatica classica. Termini moderni vennero resi mediante l'estensione semantica di termini antichi (per es. ḥašmāl per "elettricità", da un termine attestato in Ezech. 1, 27 tradotto dai Settanta con ἤλεϰτϱον; di qui ḥašmālît per "tramvia", dal tedesco vernacolo die Elektrische), o anche con nuove combinazioni (per es. kaddûr-régel, traduzione letterale dell'inglese football, "[gioco del] calcio"). Come pronuncia venne adottata quella sefardita, in uso anche nelle università europee e americane, invece di quella aškenazita.

Nell'opera di rinascita dell'ebraico primeggia la figura di E. Ben-Jehuda (1857-1922). Seguendo l'esempio delle nazioni dell'Europa orientale nelle quali la rinnovata coscienza nazionale si abbinava alla riscoperta della propria lingua, Ben-Jehuda, dal momento della sua emigrazione in Palestina nel 1881, cambiò il proprio nome Perelman, ebraizzandolo, e cominciò a parlare unicamente ebraico nell'ambito familiare. Nel 1890 venne fondato un ''Comitato per la lingua'' (wá῾ad hallāšôn ha῾ibrît), che nel 1953 divenne Accademia. In un primo momento il tentativo ebbe scarso successo, tanto che all'inizio del 20° secolo si contavano poche famiglie nelle quali si parlava ebraico; ma già nel 1913 esistevano ormai oltre sessanta scuole in cui l'ebraico veniva insegnato come lingua primaria, e vari giornali vennero stampati in lingua ebraica. Nel 1920-22, all'inizio del mandato britannico, all'ebraico venne riconosciuta, insieme all'arabo e all'inglese, la qualifica di lingua nazionale. Di BenJehuda ci resta il monumentale Gesamtwörterbuch der alt- und neuhebräischen Sprache, 1909-59 (16 volumi, più uno di Prolegomena), opera tuttora fondamentale anche se talvolta superata nei dettagli.

Oggi l'ebraico come lingua parlata si è ormai stabilizzato, ed è la prima lingua della massima parte degli Israeliani nati nel paese o giuntivi da bambini; come seconda lingua si fa sempre più strada l'inglese, e come terza l'arabo. In Israele esiste una intera letteratura ebraica moderna, in buona parte tradotta.

Bibl.: H. B. Rosén, A textbook of Israeli Hebrew, Chicago-Londra 1962; A. ᾽Eben-Šōšān, Hamillôn heḥādāš, Gerusalemme 1966 ss.; D. Cohen, H. Zafrani, Grammaire de l'hébreu vivant, Parigi 1968; R. Alcalay, Millôn ῾ibrî šallēm, 3 voll., Ramat-Gan 1969-71; H. Simon, Lehrbuch der modernen hebräischen Sprache, Lipsia 1970; R. Sivan, The revival of the Hebrew language, Gerusalemme 1970; Z. Ben-Ḥayyim, Hebrew grammar, in Encyclopaedia Judaica, 8 (1971), pp. 77-124; J. Fellman, The revival of a classical tongue, L'Aia 1973; J. D. Schmelz, R. Bachi, Hebrew as everyday language of the Jews of Israel, Statistical appraisal, in Festschrift Salo W. Baron, Gerusalemme-New York 1974, ii, pp. 745-85; R. Aronson Bergman, Modern Hebrew structure, Tel Aviv 1978; F. Werner, Modernhebräisch in Palästina und Israel, in Theologische Realenzyklopädie, 14 (1985), p. 514-21.

Vedi anche
Bibbia Il complesso delle Scritture sacre dell’ebraismo e del cristianesimo (dal lat. tardo Biblia, gr. τὰ βιβλία «i libri»). Religione Nelle comunioni e confessioni religiose che riconoscono il carattere sacro della B., suo ‘autore’ è ritenuto Dio stesso che ha parlato agli uomini attraverso scrittori da ... yiddish Lingua degli Ebrei ashkenaziti, nata intorno al 10° sec., quando Ebrei provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrionale si stabilirono in Renania. Il termine deriva dal ted. jiddish, alterazione dell’aggettivo jüdisch «giudeo». Si diffuse in vaste aree dell’Europa centrale e orientale. Prima della ... cultura L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, ... sabato Sesto giorno della settimana (dall’ebr. shabbāt «(giorno di) interruzione, e quindi di riposo»). Nella settimana ebraica, è il settimo giorno, festivo e consacrato a Dio, nel quale si interrompe ogni lavoro e attività che comporti cosciente trasformazione dell’ordine esistente (cucinare, scrivere, usare ...
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    ebràico Lingua semitica appartenente al gruppo nord-occidentale, parlata anticamente in Palestina dal popolo ebreo. L'e. è affine al fenicio e al moabitico: anche l'alfabeto è di tipo fenicio, mentre la cd. scrittura 'quadrata' è molto più tarda. Nell'età postbiblica (dal 2° sec. a.C.), l'e. decadde ...
Vocabolario
ebraicista
ebraicista (o ebraista) s. m. e f. [der. di ebraico] (pl. m. -i). – Conoscitore, studioso della lingua ebraica, o, più genericam., esperto di storia, cultura, tradizioni e costumi ebraici.
ebràico
ebraico ebràico agg. e s. m. [dal lat. tardo hebraĭcus, gr. tardo ἑβραϊκός] (pl. m. -ci). – Degli Ebrei, che appartiene o si riferisce agli Ebrei: la storia, la civiltà, la religione, la letteratura ebraica. Alfabeto e., l’alfabeto adoperato...
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