colloquiale, lingua
L’espressione lingua colloquiale indica il complesso di usi linguistici che si manifestano primariamente, ma non esclusivamente, quando si parla in situazioni naturali e spontanee e in contesti informali; tipicamente, nella conversazione. La lingua colloquiale è solo uno dei possibili registri della lingua parlata (➔ lingua parlata; ➔ registro), anche se spesso il termine colloquiale è usato per indicare gli usi parlati nel loro complesso o, in modo ancor più generale, tutti gli usi non colti, ricercati o tecnici. In quest’ultima accezione colloquiale equivale a «comune», «corrente» e simili.
Qualsiasi registro si definisce primariamente in base alla relazione che s’instaura tra gli interlocutori, che definisce, di norma, il grado di formalità / informalità della situazione comunicativa. Il registro colloquiale identifica soprattutto un tipo di comunicazione in cui tra parlante e ascoltatore esiste un rapporto paritario che, a sua volta, consente di prendere liberamente la parola durante la comunicazione senza bisogno di una pianificazione precedente, e non richiede un alto grado di attenzione selettiva da parte dell’ascoltatore. In generale il registro colloquiale è usato in contesti che presuppongono un’alta vicinanza comunicativa tra interlocutori. Di conseguenza esso caratterizza anzitutto la lingua della conversazione quotidiana. In tale contesto, più che in altre circostanze, i parlanti fanno appello a ciò che per loro e i loro interlocutori è più immediato e di facile accesso, scegliendo le soluzioni linguistiche più note e meno ricercate, che comportano il minimo dispendio per la pianificazione e l’interpretazione.
A ciò si deve il fatto che nel registro colloquiale si manifestino in modo esemplare e in alto grado talune delle caratteristiche più tipiche della comunicazione parlata dialogica, quali la massima interrelazione tra elementi contestuali e verbali e l’ampio uso di lessico e strutture polisemiche.
La prima strategia permette di risparmiare parole facendo diretto riferimento a elementi presenti nel ➔ contesto (materiale e enunciativo), riferendosi non solo al già detto, ma anche al già noto e implicito nell’atto comunicativo. A ciò si deve l’alta frequenza di deittici (questo, quello, qui, lì, ecc.; ➔ deittici) e la possibilità di ricorrere all’ellissi contestuale (➔ ellittici, enunciati), come nell’enunciato seguente, in cui un parlante che ha in mano un’insalata si rivolge al padrone di casa chiedendo: per condire sarà là?
La seconda strategia permette di risparmiare parole utilizzando strutture che, avendo molteplici sensi, possono essere usate in molti contesti diversi (cfr. § 3.2).
A queste caratteristiche se ne aggiunge un’altra che connota il registro colloquiale in particolare rispetto ad altri registri di parlato: la presenza partecipativa degli interlocutori, che tendono ad esprimere le proprie emozioni e valutazioni senza filtri, contrariamente a quel che avviene nei registri più formali.
L’espressività del registro colloquiale si manifesta variamente a livello linguistico (cfr. § 3.2). Alcuni tratti sono ricorrenti, quali il continuo ricorso a segnali fatici (scusa, senti, capito?) allo scopo di mantenere alti il coinvolgimento e l’attenzione dell’ascoltatore (➔ segnali discorsivi) e la costruzione del testo tramite drammatizzazione dialogica, come nell’es. seguente in cui un parlante riferisce di aver visto un amico in televisione:
(1) però vederlo in televisione cioè è come se io vedessi te in televisione capito cioè ti conosco da tempo e ti vedo lì cioè un giorno appiccio la televisione e mi vedo lì quello lì mi son collassato
Nella situazione linguistica italiana gli usi linguistici familiari e informali fanno emergere tratti connotati regionalmente, soprattutto a livello fonologico e lessicale (si veda l’uso di appiccio per accendo in 2).
Nel registro colloquiale l’uso di espressioni marcate a livello diatopico sembra derivare da esigenze di espressività e informalità: l’inserzione di elementi locali (dialettali, regionali) è frequente nel registro colloquiale anche in parlanti colti e non dialettofoni per marcare proprio la rilassatezza e l’assenza di disparità di ruolo tra gli interlocutori. Tuttavia non è sempre possibile tracciare un confine netto tra usi espressivi di parole dialettali o varianti regionali e fenomeni inconsapevoli di cambiamento o ➔ mistilinguismo (italiano / dialetto). Il ricorso a questi elementi connota di conseguenza l’italiano colloquiale come un registro di livello più basso rispetto agli usi standard.
Il registro colloquiale è senza dubbio quello più frequentemente usato nel parlare, e, dato che in genere si parla molto più di quanto si scriva, la maggior parte dei parlanti finisce per avere contatto specialmente con esso. Ciò vale in particolare per quanti, per condizione sociale e livello di istruzione, non praticano regolarmente la scrittura: mentre nei parlanti più colti il registro colloquiale è per lo più limitato alle conversazioni private, in quelli di basso livello di istruzione diventa lingua corrente. Benché quindi gli usi parlati dialogici rappresentino l’ambito originario del registro colloquiale, esso non si identifica esclusivamente con la lingua parlata, ma soprattutto con una lingua che attinge a usi familiari. In tal modo colloquiale è la lingua legata alla quotidianità privata. Alcuni tratti colloquiali si sono infatti diffusi ben al di là degli usi parlati e sono rintracciabili anche in altre modalità di trasmissione (scrittura tradizionale e scrittura mediata dal computer) in testi informali: lettere private, annunci, avvisi, messaggi, ecc.
Il registro colloquiale è presente anche nella stampa giornalistica (titolo di articolo di giornale: La fiducia: un cazzotto al parlamento) e nei testi letterari, nelle parti dialogiche che tendono a riprodurre la struttura delle conversazioni (Spitzer 2007; Rombi, Policarpi & Voghera 2009). Una certa disponibilità ad accogliere usi vicini al registro colloquiale si può riconoscere inoltre nella narrativa italiana contemporanea, non tanto nelle scelte lessicali quanto in un periodare fatto di frasi relativamente brevi e spesso senza verbo (De Mauro 2007).
Il registro colloquiale è caratterizzato da tratti morfosintattici e lessicali, condivisi, sebbene in misura diversa, anche dagli usi scritti informali (per le caratteristiche più strettamente dipendenti dal mezzo, ➔ variazione diamesica; ➔ lingua parlata).
La generale preferenza per strutture polisemiche nel registro colloquiale si riflette nell’uso dei modi e tempi verbali. Due sono i tratti più evidenti: l’espansione degli usi modali dell’indicativo (in sostituzione sia del congiuntivo sia del condizionale) e quella dei valori temporali dell’indicativo presente (Bertinetto 1986; Berretta 1994; ➔ lingue romanze e italiano). Queste tendenze, già registrate nell’italiano dei secoli passati (D’Achille 1990, 2003) e ormai frequenti anche nell’italiano scritto non colto, nell’italiano colloquiale diventano la norma. L’allargamento dei valori modali dell’indicativo determina la sua maggiore frequenza (Voghera 1992):
(a) in dipendenza da nessi subordinanti che nello scritto standard richierebbero il congiuntivo: credo che viene invece di credo che venga;
(b) nel periodo ipotetico in sostituzione sia del congiuntivo che del condizionale: se potevo venivo invece di se avessi potuto sarei venuto;
(c) nelle richieste cortesi: volevo un etto di prosciutto invece di vorrei un etto di prosciutto.
Accanto all’espansione degli usi modali, si registra anche un ampliamento dei valori temporali di alcuni tempi dell’indicativo. L’indicativo presente è spesso usato in frasi che esprimono eventi futuri (domani parto; a giugno sono / fanno dieci anni che vivo in questa casa) o nel riferire eventi passati (Ma sai ieri chi ti vedo? L’amico di Giovanni; A: Aspettavo una tua chiamata ieri. B: Beh, ma io ieri non ti chiamo perché avevi da fare). L’indicativo imperfetto è usato anche in frasi che, pur non riferendosi ad eventi passati, richiamano eventi o conoscenze già noti agli interlocutori o precedentemente pianificati (A che ora era la riunione domani?; A: Ci vediamo domani? B: Veramente domani andavo da mio padre).
Un tratto molto frequente nel registro colloquiale, e ormai diffuso anche nello scritto (non solo informale), è la concordanza a senso tra soggetto e verbo nel caso di nomi collettivi (la maggioranza non erano d’accordo) o con nomi al singolare modificati da sintagmi preposizionali plurali (il 3% degli italiani sono d’accordo; ➔ accordo; ➔ collettivi, nomi). Meno frequente e forse più marcato come registro di livello più basso (Berretta 1994) è l’accordo tra soggetto e verbo in base al soggetto logico della frase e non a quello grammaticale: io sono una persona che vivo con poco.
Un tratto stabilmente associato al registro colloquiale sia nel parlato sia nello scritto è l’uso di gli come forma atona maschile e femminile del pronome obliquo di terza persona: ho incontrato Giovanni / Caterina e gli ho dato il libro. Diffusi sono anche gli usi della forma obliqua del pronome di seconda persona te come soggetto (diglielo te), specialmente in alcune parti d’Italia, e la ripetizione di pronomi clitici: non lo volevo prenderglielo, ce ne ho due da portargliene (➔ clitici).
Dal punto di vista sintattico il registro colloquiale dà luogo a testi fortemente discontinui. Ciò si manifesta attraverso la preferenza per una sintassi additiva, l’uso di connettivi caratterizzati dalla possibilità di svolgere funzioni sintattiche e discorsive diverse e l’uso di strutture segmentate (Sornicola 1981; Berruto 1987; Voghera 1992; Berretta 1994; D’Achille 2003).
La sintassi additiva consiste sostanzialmente in un uso frequente della coordinazione e della giustapposizione di costituenti, la cui connessione è affidata a segnali discorsivi e/o congiunzioni coordinanti e a marche prosodiche (Voghera 2008). I connettivi più usati (Voghera 1992) sono caratterizzati dall’ampiezza (o vaghezza) dei valori semantici e dalla possibilità di funzionare sia come snodi sintattici (in funzione coordinante o subordinante) sia come marcatori del discorso. Si veda la sequenza così però magari nell’esempio (2), e l’uso di cioè in (1) (cfr. § 2):
(2) F: ahah cioè quelli meno importanti io volevo appunto metterli in soffitta così però magari pensavo che sarebbe stato utile catalogarli
Alle esigenze di una programmazione e ricezione veloci e dirette, che non richiedano un’attività di revisione, è dovuta anche l’alta frequenza della forma che in luogo delle forme del pronome relativo obliquo (con o senza ripresa pronominale): tutte le persone che ho parlato; tutte le persone che gli ho dato il biglietto (➔ che polivalente).
La sintassi segmentata è invece un insieme di costruzioni in cui sia l’ordine lineare sia la struttura sono fortemente governati da esigenze di tipo informativo. Queste strutture si distinguono a seconda che mettano in risalto il tema (ciò di cui si parla) o il rema (ciò che vien detto) (➔ tematica, struttura). Sono strutture che isolano il tema al primo posto: i tradizionali anacoluti o temi sospesi (3) e le ➔ dislocazioni a sinistra (4):
(3) la riunione, io arrivo più tardi
(4) il brodo freddo non lo sopporto
In questo tipo di costruzioni è frequente anche l’uso dell’➔accusativo preposizionale, non solo nel Centro-Sud (dove esso è tipicamente localizzato), ma anche al Nord. In questo caso l’oggetto dislocato, purché possieda il tratto [+animato], può essere preceduto dalla preposizione a, in particolare se costituito da un pronome: a lui non l’ho incontrato. Tale costruzione è del resto la norma nelle dislocazioni a sinistra con alcuni verbi, soprattutto psicologici (convincere, invitare, preoccupare, spaventare, ecc.; Berretta 1990; ➔ psicologici, verbi):
(5) a mio padre il ragionamento non l’ha convinto
(6) a noi ci preoccupa la mancanza di lavoro
Le strutture più frequenti in cui è invece il rema ad essere in prima posizione sono la dislocazione a destra (7; ➔ dislocazioni), la frase scissa (8; ➔ scisse, frasi) e il c’è presentativo (9; ➔ focalizzazioni; ➔ sintassi).
(7) l’ho comprato stamattina il latte
(8) è domani che parto
(9) c’è Giovanni che è ammalato.
Nel lessico, il livello che caratterizza di più il registro colloquiale, due tendenze opposte tendono a bilanciarsi. Da un lato, come in tutta la lingua parlata, è prevalente l’uso di parole dal significato generico; dall’altro, sono frequenti parole o modi di dire di forte espressività, spesso legate a usi dialettali o locali. La prima tendenza è connessa alla necessità di usare parole altamente disponibili, che facilitino il processo sia produttivo sia ricettivo; la seconda deriva dalla forte presenza partecipativa dei parlanti.
La vaghezza semantica si manifesta nell’uso di nomi, verbi e aggettivi che si prestano a esser impiegati in molteplici contesti. Tra i nomi più frequenti nelle conversazioni del corpus LIP troviamo: cosa, parte, problema, esempio, persona, modo, fatto, tipo, punto, caso, senso, gente, discorso; tra i verbi (esclusi gli usi ausiliari): essere, fare, dire, andare, avere, sapere, vedere, stare, dare, mettere, capire, venire, sentire; tra gli aggettivi: questo, quello, altro, tutto, bello, nuovo, diverso, certo, stesso, vero, grande.
La vaghezza semantica è evidente non solo nell’uso dei nomi e dei verbi, ma anche nell’uso di modificatori; si noti ad es. l’uso di tipo in (10):
(10) questo non sarà un gran jazz ma non c’è mica Luis Armstrong tipo Every time every word e roba del genere
Molti dei verbi più ricorrenti devono la loro frequenza anche al fatto che nel registro colloquiale sono usati come ➔ verbi supporto. Le costruzioni con verbo supporto (in cui un verbo semanticamente leggero regge un sintagma nominale: fare benzina, fare un sonnellino, dare un passaggio, ecc.) sostituiscono verbi pieni dal significato corrispondente: fare un viaggio invece di viaggiare, fare una passeggiata invece di passeggiare, dare la vernice invece di verniciare, dare una guardata invece di guardare. In questo tipo di costruzioni troviamo spesso nomi con il suffisso -ata, molto presenti nell’italiano colloquiale anche in altri contesti: videata, stupidata, cavolata (Berretta 1994; ➔ lingue romanze e italiano).
Altra proprietà dei verbi più frequenti sta nel fatto che sono usati per la formazione di polirematiche verbali (➔ polirematiche, parole), cioè parole formate da più parole, il cui significato non è ricavabile dalla somma dei significati dei componenti (Voghera 2004): fare il punto, passare la parola, perdere tempo, tendere una mano, tirare il collo, andare in onda, andare in scena, prendere con le molle, stare in guardia. Tra le polirematiche verbali è da segnalare l’alta frequenza d’uso dei verbi sintagmaparatetici, costruzioni verbali formate da un verbo (più spesso di moto) seguito da un avverbio con significato locativo-direzionale (Simone 1997; Iacobini & Masini 2009): mettere su il caffè, mettere su famiglia, stare su («non deprimersi / non cadere»).
L’uso di lessemi generici e vaghi, come s’è detto, è bilanciato dall’alta frequenza nel registro colloquiale di elementi espressivi. L’espressività si manifesta in forme molteplici. In primo luogo, è frequente l’uso dei pronomi personali e di forme pronominali del verbo: mi faccio una passeggiata invece di faccio una passeggiata, mi bevo una birra invece di bevo una birra, me ne vado invece di vado (➔ clitici; ➔ dativo etico). In secondo luogo, è frequente l’uso di alterati: macchinona/e, casona, seratina, regalone, cosetta, cosina, cosettina, oretta, momentino, robetta, robina, viaggetto, regalino, maluccio, caruccio, frecciatina, insalatina, negozietto, momentaccio, nottataccia, levataccia. L’uso degli alterati (➔ alterazione) rientra nelle più generali strategie di attenuazione / intensificazione, molto evidenti nel registro colloquiale (Bazzanella & Gili Fivela 2009). Tra gli espedienti lessicali più usati a tal fine si segnala l’uso di quantificatori attenuativi o ➔ intensificatori iperbolici, come in (11) e (12):
(11) già che c’ero volevo catalogarli un minimo cioè non lo so sono ancora in una fase iniziale?
(12) A: ma infatti ahah la Luciana sai che la Luciana non la sento da anni luce?
B: e io anche sono incasinata cioè eh ’sta storia delle lezioni ti ti incasina un casino un sacco
Frequenti sono anche gli usi dei piccoli o dei grandi numeri per attenuare o intensificare: due minuti e vengo; faccio due cosette e arrivo; non lo vedo da mille anni. Al fine di intensificare e enfatizzare è frequente anche l’uso di esclamazioni (➔ interiezione); ovviamente più spesso nella comunicazione dialogica parlata o scritta mediata dal computer: accidenti che prezzo!; non ha visto lo scalino e patatràc è cascato; toc toc posso entrare?
Altrettanto frequenti sono anche disfemismi ed epiteti ingiuriosi, che funzionano spesso da modificatori aggettivali o avverbiali anche in formazioni polirematiche. In quest’ambito vi è tra l’altro una certa disponibilità d’uso di parole legate al lessico giovanile (➔ giovanile, linguaggio) che si diffondono nel parlato anche di adulti: ho visto un film turco un po’ ’na palla; questo lavoro è fatto alla porco cane; non vale un cazzo.
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