VOLONGHI, Lina
VOLONGHI, Lina (Giuseppina Angela Fui). – Nacque a Quarto (Genova), a poca distanza dal molo da dove erano salpati i Mille del Risorgimento, il 4 settembre 1916, da Pasquale, infermiere bresciano, e da Anna Paccini, casalinga. Era l’ultima di sette figli, di cui, oltre a lei, sopravvissero alle gravi epidemie dell’epoca solo i primogeniti Enrichetta e Carlo. Bambina, si trasferì nello storico quartiere di Sturla con la famiglia.
Le condizioni disagiate la tolsero alla scuola, costringendola a cercare lavoro sin da adolescente in negozi di stireria e cucito. L’impegno civile e politico l’avrebbe motivata nel 1982 a farsi eleggere nel Consiglio comunale tra le file del Partito comunista italiano, restandovi due anni. Il suo attaccamento alla città ligure viene attestato pure dal discorso che tenne per l’ottantesimo compleanno della squadra del grifone nel 1973.
Giovanissima, fu più di una promessa nel nuoto italiano, arrivando a sedici anni non ancora compiuti al titolo di vicecampionessa nazionale, attitudine che le assicurò poi sulla ribalta una prorompente carica atletica. E l’odore dell’acqua le restò addosso, mescolando il ricordo delle piscine alla salsedine che impregnava la cucina e le lenzuola di casa. E nondimeno lasciò lo sport per amore del teatro.
A scritturarla, nella stagione 1933-34, fu l’attore genovese Gilberto Govi, dominatore della ribalta vernacolare, che le riservò la piccola parte di servetta in La gelosa di Alexandre Bisson e Adolphe Leclerq. Per due trienni fu così impegnata con la celebre compagnia in ruoli di crescente importanza, tra cui nel canonico I manezzi pe majâ na figgia di Nicolò Bacigalupo, l’anno dopo. In particolare si distinse nella Bocca del lupo, versione dialettale dal romanzo di Remigio Zena (nel 1980 giganteggiò nei panni della protagonista, la madre Bricicca, nella messinscena di Marco Sciaccaluga allo Stabile cittadino), e in Cerco alloggio, adattamento di Govi da L’arca di Noè di Giulio Bucciolini, nel 1938. Dal grande interprete genovese assimilò precisione, semplicità e tempi comici, ovvero l’arte di «contare mentalmente prima di dare una battuta» (Volonghi, 1980, p. 43).
Dopo sei anni di questa palestra si trasferì a Roma, per approdare al teatro delle Arti fondato e diretto da Anton Giulio Bragaglia, incrociandosi tra le altre star anche con Salvo Randone. Tra le più significative partecipazioni, in repertori spesso classici, fu utilizzata in Cintia di Della Porta nel 1940 e in La Celestina di Fernando De Rojas nel 1941. Dopo esperienze nella Compagnia Palmer diretta da Tatiana Pavlova e in quella Nazionale del GUF di Giorgio Venturini, fu reclutata da Sarah Ferrati e Renzo Ricci, con cui fu in La figlia di Jorio diretta da Giulio Pacuvio nel 1945. Quindi venne assunta dalla Ruggeri-Adani, vedendo il suo nome finalmente aggiunto in ditta nel 1948. Seguì una frenetica galoppata in titoli per lo più brillanti, a fianco di colleghi come Ernesto Calindri, Lia Zoppelli, Franco Volpi. Ma non mancarono intrusioni nel genere più serio, vedi nel 1954 il viscontiano Come le foglie di Giuseppe Giacosa, dove sorprese tutti come genitrice distratta e incosciente davanti allo sfacelo della casa. Ottenne grandi consensi pure nella Sensale di matrimoni, di Thornton Wilder, interpretata con Alberto Lionello nel 1955.
In riferimento al proprio apprendistato, era solita dichiarare «Ruggero Ruggeri mi ha insegnato il tono, Tino Buazzelli la forza, Memo Benassi la individualità, Giorgio Strehler la perfezione» (Geron, 2001, p. 17). E molto articolati in effetti risultarono i suoi registri, se apparve a suo agio sia per l’esilarante insensatezza del Tacchino di Georges Feydeau con Buazzelli e Lionello nel 1957, sia per l’asciuttezza esibita nell’Estro del poeta di Eugene O’ Neil con Ricci ed Eva Magni nel 1958. Sempre solidale con le maestranze del palcoscenico, Volonghi sprigionava una naturalezza contagiosa e una capacità insolita di manifestare umanità in ogni creatura impersonata, anche la più oggettivamente odiosa. E soprattutto la caratterizzò un’assenza, per il mondo teatrale del tutto inusuale, di qualsivoglia forma di divismo.
Nel 1964 fu trepida come balia di Giulietta nello spettacolo shakespeariano diretto da Franco Zeffirelli al teatro Romano di Verona. Fu altresì una scatenata, litigiosa Donna Pasqua nelle trionfanti Baruffe chioggiotte strehleriane del 1966, da lei in precedenza interpretata assieme a Cesco Baseggio nella Biennale del 1954. Dietro le insistenze del direttore Ivo Chiesa, approdò al costituendo teatro Stabile ligure, all’inizio chiamato Piccolo Teatro della città di Genova, mostrando disinvoltura nel passaggio dai circuiti privati alla stanzialità degli organismi statali. Le sue prime interpretazioni all’ombra della Lanterna riguardarono nel 1952 La Celestina – ripresa dunque dieci anni dopo – e Piccoli borghesi di Maksim Gor′kij, spettacoli entrambi diretti da Giannino Galloni, nonché Colomba di Jean Anouilh, allestita da Alessandro Fersen nel 1954.
Dotata di una voce calda, dal timbro speciale, gorgogliante e un po’ arrochito, molto intrigante, alla scuola dello stesso Stabile Volonghi tenne corsi di recitazione per giovani attori. Qui, venne decisamente valorizzata da Luigi Squarzina quale pilastro del nuovo organismo cittadino, la prima del resto tra gli attori contattati dal team direttivo a firmare nel 1967 un contratto appunto stanziale. L’anno successivo il regista le chiese di essere Madame Gatteau in Una delle ultime sere di carnovale, poi trasmessa in RAI nel 1970. E l’attrice rispose offrendo un ritratto di vecchia ridicola ma fiera allo stesso tempo nel suo capriccio pretenzioso verso il giovane disegnatore Anzoletto, diretto a Moscovia, poi rassegnata a sposare l’anziano Zamaria al posto del giovane. Questa inclinazione verso anagrafi maschili inadeguate alla sua età, esplicita anche nel personaggio di Raisa Pavlovna, la padrona nella cupa Foresta di Aleksandr Ostrovskij, altra produzione squarziniana nel 1976, lasciava trapelare una pudica allusione alla sua privata liaison con il compagno, Carlo Cataneo (o Cattaneo), di quattordici anni più giovane di lei. E Squarzina ammirò talmente la sua attrice da chiamarla con gratitudine «creatura incredibile» (L. Colombo - F. Mazzocchi, in Luigi Squarzina..., 1996, p. 297). Sempre con il regista romagnolo fece Margarita, seconda sposa, inquieta e insoddisfatta, di Lunardo nei Rusteghi del 1969, approdato in RAI nel 1974. Guidata da lui, fu nel 1970 la brechtiana Madre Coraggio e i suoi figli, già sfiorata al tempo del lavoro con Strehler.
Volonghi vi giunse dopo trent’anni di carriera e si mostrò all’inizio in evidente difficoltà davanti al carico vocale-canoro tanto che nel corso delle repliche venne eliminata la componente musicale. Ma la pipa tenuta in bocca come un vecchio marinaio, le calze pesanti, gli abiti sdruciti e zuppi di sudore, consentirono alla sua animalesca vitalità e alle sue origini popolari di affiorare in termini monumentali. In un’intervista rilasciata al Corriere della sera il 14 maggio 1989, confessò le grandi fatiche nel non farsi risucchiare dal personaggio «al punto da parteggiare per lui». Nondimeno il regista stesso non mancò di definire la sua protagonista, certo molto più carnale che straniante e ben lontana dai parametri strehleriani, quale vertice tra le interpretazioni del drammaturgo tedesco (Squarzina, 2006, p. 199).
Nel Tartufo ovvero vita amori autocensura e morte in scena del signor di Molière nostro contemporaneo, complessa stratificazione nel 1971 tra il mondo di Molière e quello di Michail Afanas′evič Bulgakov, le bastarono poche battute per sagomare con grande vivacità il personaggio acuto e preveggente della serva Dorina. Altra fantesca fu nella goldoniana La casa nova nel 1973, in RAI nel 1976, nella variante di Lucietta, pettegola ma fedele al padroncino Anzoletto, scialacquatore. Qui sembrò felice di immergersi, lei genovese, nell’idioma lagunare, pronunciato in modo scorretto ma armonioso nella cadenza. Nel sodalizio fortunato con Squarzina, nel 1971 era stata una saporosa e debordante Generalessa Ignazia (con il rischio di renderla simpatica) nel pirandelliano Questa sera si recita a soggetto, esaltando il proprio ruolo di caratterista come riporta la didascalia. Ma il legame ultraventennale con il primo teatro della sua città venne mantenuto anche con i successivi registi, come dimostrano le molieriane Femmes savantes (nella traduzione di Cesare Garboli Le intellettuali), diretta da Marco Sciaccaluga nel 1978.
Schiva e riservata, dopo lunga convivenza, nel 1980 Volonghi sposò con rito civile il collega Cataneo (come detto, molto più giovane) al Municipio genovese, celebrante il sindaco Fulvio Cerofolini, tra i testimoni Umberto Agnelli, non alimentando in alcun modo le cronache rosa con notizie riguardanti la sua vita privata. In precedenza c’era stato nel 1945 un matrimonio, durato solo tre anni, con un nobile imprenditore, Peter Arden Bastogi.
Tra il 1982 e il 1983 Volonghi conquistò il pubblico radiofonico, narrando diverse favole della raccolta I racconta storie, registrate su vinile. Tra le ultime uscite in scena, scatenò il suo temperamento diretta da Sciaccaluga in La brocca rotta di Kleist del 1982, smorzandosi in Buonanotte mamma di Marsha Norman allestito da Carlo Battistoni nel 1984 e Bussando alla porta accanto di Françoise Dorin, spettacolo con e diretto da Vittorio Caprioli, con cui nel 1986 dette l’addio al palco per un infarto improvviso che la costrinse al ritiro.
Grande popolarità le venne dal piccolo schermo, grazie agli sceneggiati televisivi a puntate, che ne valorizzarono l’immagine luminosa a livello nazionale, e alle comparsate nei varietà, come Il signore di mezza età nel 1963 con Sandra Mondaini e Marcello Marchesi o Se te lo raccontassi con Johnny Dorelli nel 1967. E non mancarono frequenti incursioni nei Carosello. Fu pure conduttrice per la regione Liguria della trasmissione Gran Premio, abbinata alla Lotteria di Capodanno, nella stagione 1963-64. Nel 1959 fu magistrale in L’idiota di Fëdor Dostoevskij, regia di Giacomo Vaccari; si distinse pure nel 1961 con La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux, regia di Sandro Bolchi, e nella Duchessa di ferro, regia di Claudio Fino nel 1964 con la Biblioteca di Studio Uno - Il conte di Montecristo, diretta da Antonello Falqui, nel Giocatore, sempre da Dostoevskij, regia di Edmo Fenoglio nel 1965, dove fu la nonna che dissipa le sostanze nel vizio delle carte, invecchiandosi con masochistico compiacimento, sua abituale propensione, nel 1968 in Non cantare, spara, regia di Daniele D’Anza, e Processi a porte aperte - Il medico delle vecchie signore, diretta da Lydia C. Ripandelli. Nel 1969 fu autorevole e spigliata mediatrice, Fortunata, in Sior Todero brontolon in lotta con il grande Baseggio, regia di Carlo Lodovici, nel 1971 interpretò Marty regia di Emilio Bruzzo. Sfoggiò ancora nel 1976 estro e ambiguità, divisa tra il risveglio tardivo dei sensi e la vigilanza sulla castità del figlio prete nella romagnola Vedova Fioravanti, da Marino Moretti e diretta da Antonio Calenda. Altre uscite in L’agente segreto, sempre sotto Calenda, del 1978, e in Arabella, regia di Salvatore Nocita, del 1980.
Sul grande schermo, dove lavorò anche in produzioni estere, fu presente invece fin dal 1943 nella Signora in nero di Nunzio Malasomma e nel Paese senza pace o Le baruffe chiozzotte, di Leo Menardi, nel 1949 nella Mano della morta di Carlo Campogalliani, tratto da un feuilleton di Carolina Invernizio, in cui interpretò con gusto una fioraia traffichina e gelosa, nel 1951 in Ha fatto 13 di Carlo Manzoni, nel 1955 nella Bella di Roma di Luigi Comencini e in Io piaccio, regia di Giorgio Bianchi. Nel 1961, ancora, in Una vita difficile di Dino Risi; nel 1964 nelle Tardone, regia di Marino Girolami e Javier Setó (frizzante anche se poco credibile nella pluriadultera Isabella che stipa nell’armadio, da qui il titolo dell’episodio, i propri amanti), e a fianco di Rita Pavone nel musicarello del 1965 Rita, la figlia americana di Piero Vivarelli.
Ulteriori ruoli nel 1974 nel Venditore di palloncini di Mario Gariazzo, mentre nel 1975 con La donna della domenica, dall’omonimo romanzo di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, diretta da Luigi Comencini, Volonghi disegnò il ritratto malizioso di una vedova perbenista e sessuofoba, alla fine scoperta come l’assassina nel crimine indagato. Nel 1977 fu in Cara sposa di Pasquale Festa Campanile, nel 1981 con il medesimo regista in Nessuno è perfetto, e nel 1984 fu la madre di Lino Ventura in La 7ème cible di Claude Pinoteau.
L’8 aprile 1987 venne ricoverata nell’ospedale milanese di Niguarda, colpita da un attacco ischemico miocardico. Due mesi prima era stata sottoposta a un intervento chirurgico per l’asportazione di calcoli alla cistifellea. Si ritirò allora nella sua abitazione milanese, assistita dal devoto marito.
Si spense il 24 febbraio 1991. Poche settimane prima l’assessore allo spettacolo del Comune di Genova, Carlo Repetti, con una mesta cerimonia le aveva consegnato nel suo salotto il premio Govi per la carriera, chiudendo simbolicamente il cerchio del suo lavoro (già nel 1986 aveva ricevuto il premio Una vita per il teatro). Le ceneri vennero tumulate nel Cimitero monumentale di Milano. In suo nome nel 1993 è stato istituito un premio teatrale, attivo sino al 2001.
Fonti e Bibl.: Utile l’intervista rilasciata dall’attrice in L. Volonghi, Da Govi a Squarzina: saper essere attrice anche in un teatro in crisi, in Sipario, 1980, n. 405, pp. 43 s. In generale, almeno: Luigi Squarzina e il suo teatro, a cura di L. Colombo - F. Mazzocchi, Roma 1996; Omaggio a L. V., a cura di T. Viziano, in occasione della mostra allestita da G.D. Ricaldone al Civico Museo Biblioteca dell’attore, Genova 2000; G. Geron, L. V. o dell’antidivismo, in Sipario, 2001, n. 629, pp. 16-18; L. Squarzina, Il romanzo della regia, 2006; F. Nicolosi, Squarzina e Pirandello. Dalla matrice narrativa alla realizzazione scenica, con presentazione di G. Sammartano, Roma 2012.