Limiti all'astensione collettiva degli avvocati
All’attenzione della Corte costituzionale è tornata di nuovo la disciplina del diritto di astensione degli avvocati nei procedimenti con imputati sottoposti a misura cautelare. I dubbi sollevati dai giudici di merito sono caduti questa volta sull’art. 2 bis della l. n. 146/1990, per come eterointegrato dall’art. 4, co. 1, lett. b) del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati. Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 180/2018, ha accolto la questione ritenendo che la disposizione censurata, nei procedimenti per i quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, sia in contrasto con la riserva di legge prevista nel comma 5 dell’art. 13 Cost.
La disciplina che regola il diritto dell’avvocato di astenersi dal prestare la propria attività difensiva nel processo è da sempre oggetto di contrasti interpretativi e di tensioni che non sembrano destinati a sopirsi. In questo contesto, a tratti caotico, una costante si può rilevare: il ruolo che le pronunce della Corte costituzionale hanno rivestito, sia nel delineare i tratti identificativi di questo rilevantissimo diritto del difensore sia nell’indicare al legislatore la strada da seguire per regolarlo. Tra queste, la decisione più significativa è certamente la n. 171 del 1996 con la quale il Giudice delle leggi nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1 e 5, l. 12.6.1990, 146 (regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali) ha individuato alcuni principi che hanno influenzato i successivi orientamenti interpretativi, soprattutto di matrice giurisprudenziale, e, allo stesso tempo, hanno accelerato l’intervento del legislatore1. Si deve difatti a quella decisione la qualificazione dell’astensione dei difensori quale diritto di rilievo costituzionale, espressione della libertà di associazione tutelata dall’art. 18 Cost., e la sottolineatura della necessità di contemperare questo diritto con altri sempre di rango costituzionale. La salvaguardia di questo spazio di libertà per il singolo e per i gruppi, secondo la Corte, si deve misurare con i diritti fondamentali dei soggetti destinatari della funzione giurisdizionale ed i principi generali posti a tutela della giurisdizione. D’altra parte è la stessa l. n. 146/1990 a collocare l’amministrazione della giustizia tra i servizi pubblici essenziali (al pari del diritto alla vita, alla salute, alla libertà e sicurezza etc.) «con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione». Con una importante sottolineatura: qualora la libertà degli avvocati si eserciti in contrasto con questi diritti fondamentali «essa non può non arretrare per la forza prevalente di quelli». Dopo aver individuato questa cornice interpretativa la Corte rilevava come la legge n. 146/1990 non contenesse tuttavia una disciplina specifica dell’astensione dei difensori e come tale lacuna non potesse essere sanata in via interpretativa, attraverso un’applicazione analogica di quanto previsto per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, ma con una apposita disciplina. All’invito faceva seguito la l. 11.4.2000, n. 83 che ha apportato sostanziali integrazioni alla l. n. 146/1990, inserendovi tra gli altri l’art. 2 bis. Tale nuova disposizione, oltre a stabilire che le astensioni dei “professionisti” devono essere condotte consentendo le erogazioni delle prestazioni indispensabili a tutela dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, affida alla Commissione di garanzia (istituita dall’art. 12 l. n. 146/1990) il compito di promuovere, presso le associazioni di categoria interessate, l’adozione di codici di autoregolamentazione, ai quali viene riconosciuta la funzione di individuare “le prestazioni indispensabili” da assicurare in ipotesi di astensione affinché non siano lesi i diritti della persona.
Dopo vari tentativi, gli organismi di rappresentanza dell’avvocatura, nell’aprile del 2007, hanno adottato il Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, valutato idoneo dalla Commissione di garanzia con delibera n. 749 del 13 dicembre 2007.
Anche la nuova disciplina non ha mancato di suscitare perplessità interpretative, soprattutto, con riferimento al valore precettivo da riconoscere al codice di autoregolamentazione. Incertezze superate con l’intervento delle Sezioni Unite “Lattanzio” che hanno riconosciuto alle disposizioni in esso contenute la natura di «norme aventi forza e valore di normativa secondaria o regolamentare, vincolanti erga omnes ed alle quali il giudice è soggetto in forza dell’art. 101 Cost.», potendosi attribuire a quest’ultimo solo il compito di «accertare se l’adesione all’astensione sia avvenuta nel rispetto delle regole fissate dalle competenti disposizioni primarie e secondarie, previa la loro corretta interpretazione»2.
In questo complesso quadro normativo ed interpretativo si inserisce la pronuncia del Giudice delle leggi 27.7.2018, n. 180. I dubbi di ortodossia costituzionale hanno riguardato in questo caso l’art. 2 bis della l. 146/1990 e sono stati sollevati, con due distinte ordinanze, dal Tribunale di Reggio Emilia, nell’ambito di un procedimento di criminalità organizzata relativo a numerosi imputati. Ad avviso dell’autorità giudiziaria emiliana la disposizione impugnata appare illegittima in quanto in contrasto con gli artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97, 102, e 111 Cost.
Sostanzialmente secondo il giudice remittente la disciplina positiva che regola l’astensione degli avvocati si pone in contrasto con numerosi valori costituzionali, quali la libertà personale, il diritto di difesa dell’imputato in vincoli, il giusto processo, la garanzia che il processo con detenuti si svolga in tempi compatibili con la presunzione di innocenza,
rilevando soprattutto come nella stessa non vi sarebbe traccia di quel dovuto e giusto contemperamento tra i beni costituzionali appena richiamati ed il diritto di astensione del difensore al quale, invece, finirebbe per essere attribuita una illegittima supremazia.
La Corte costituzionale, come già anticipato, ha accolto la questione di legittimità ritenendo la disciplina positiva in contrasto con la riserva di legge imposta nel comma 5 dell’art. 13 Cost. Tuttavia prima di analizzare le ragioni a sostegno di tale conclusione appare opportuno evidenziare due passaggi della decisione con i quali sono state affrontate e risolte altrettante questione di rito.
Il Giudice delle leggi ha condivisibilmente ritenuto ammissibile l’intervento dell’Unione delle camere penali nel giudizio incidentale di costituzionalità. La Corte, dopo aver valorizzato l’importanza di questa associazione, riconosciuta come la «maggiormente rappresentativa dell’avvocatura penale, che promuove … la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo», e la circostanza che la stessa fosse tra i sottoscrittori del codice di autoregolamentazione, ha riconosciuto che all’Unione potesse essere riconosciuta la qualifica di soggetto terzo, titolare di un interesse qualificato, «immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio»3.
Come si legge nella sentenza: «è innegabile che un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità sul giudizio a quo produrrebbe necessariamente una immediata conseguenza sulla posizione soggettiva dell’UCPI ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati penalisti».
Suscita invece qualche perplessità quanto affermato dalla Corte in relazione all’interpretazione dell’art. 23 l. 11.3.1953, n. 87, che impone al giudice rimettente di sospendere il giudizio in corso quando viene sollevata questione di costituzionalità. La difesa delle parti private aveva eccepito l’inammissibilità delle eccezioni di costituzionalità in quanto, a seguito della proposizione delle istanze, non si era sospeso il giudizio ma solo l’attività processuale in corso4. Per il Giudice delle leggi tale modalità di procedere non si può considerare censurabile se si segue un’interpretazione costituzionalmente «adeguata» del richiamato art. 23. Secondo la Corte, difatti, tale disposizione non esclude che il giudice rimettente «possa limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività processuale non richieda di arrestare l’intero processo».
L’economia del presente lavoro consente solo di osservare come non convinca il richiamo al canone della ragionevole durata del processo, così come operato dalla Corte per sostenere l’interpretazione proposta. Il principio sancito dall’art. 111 Cost., di natura sussidiaria, impone di ritenere illegittime quelle disposizioni che provocano un rallentamento o una stasi del processo non altrimenti “giustificabile” in virtù di altri principi di matrice costituzionale: situazione che non sembrerebbe rilevabile nel caso de quo ove la sospensione dell’attività processuale appare certamente giustificata.
L’apertura alla possibilità di non sospendere il processo, se non per l’attività incisa dall’applicazione della norma censurata, potrebbe poi portare, paradossalmente, a conseguenze che confliggono proprio con le esigenze di economia processuale che si vorrebbero tutelare laddove il singolo segmento processuale dovesse avere un qualche effetto sulle successive attività. Per non considerare poi che in virtù della interpretazione proposta verrebbe affidato al giudice rimettente un potere che, a ben vedere, la disposizione che regola il giudizio di costituzionalità non gli riconosce.
Né per mitigare questo potere riconosciuto al giudice appare legittimo affidare alla stessa Corte, come si legge nella decisione in esame, il sindacato «sull’effettiva possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione»: spetta difatti ad altro organo giurisdizionale sindacare l’operato dei giudici di merito.
La Corte costituzionale, come già anticipato, ha ritenuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 bis per il mancato rispetto della riserva di legge fissata dall’art. 13, co. 5, Cost.5 Ad avviso dei giudici costituzionali il meccanismo normativo ideato per regolare l’astensione dei difensori finisce, difatti, per interferire con la disciplina della libertà personale, ed in particolare con quella che prevede i termini massimi (di fase) della custodia cautelare, sottraendo alla legge ordinaria il compito di regolarli.
Sebbene non si sia censurata la scelta del legislatore del 2003, tradotta nell’art. 2 bis, di affidare ad una fonte sottordinata il compito di dettare una disciplina avente carattere generale ed astratto6, si è eccepito che in questo modo si è finito per affidare al codice di autoregolamentazione, il compito di introdurre «una fattispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento … dei termini di durata massima della custodia cautelare e finisce per toccare proprio la disciplina legale di tali termini».
Nella misura in cui l’art. 4, co. 1, lett. b) del codice di autoregolamentazione prevede che l’astensione dell’avvocato non sia consentita in quei processi il cui l’imputato, sottoposto a misura cautelare, chieda che si proceda nonostante l’astensione del proprio difensore, questa disposizione non si è limitata «a fare il contemperamento tra diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva e i diritti della persona costituzionalmente tutelati, ma introduce una regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà»7.
In questo modo secondo l’argomentare della Corte la disposizione censurata viola la riserva di legge posta dal comma 5 dell’art. 13 Cost. poiché consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella disciplina della libertà personale: «interferenza consistente nella previsione che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento dei termini massimi (di fase) di custodia cautelare». Ciò che non risulta chiaro è se il Giudice delle leggi ritenga censurabile anche la previsione stessa di affidare all’imputato la scelta se prolungare o no il tempo del proprio stato detentivo, come il passaggio appena ricordato sembrerebbe suggerire. Se così fosse si dovrebbe trovare altrove, ossia in altro principio costituzionale, la giustificazione che legittimerebbe una tale impossibilità.
Per concludere alcune considerazioni. La decisione della Corte costituzionale sembra pervasa da una certa ambiguità, non priva di conseguenze per il compito del futuro legislatore. Se il deficit della disciplina censurata risiedesse solo nella violazione della riserva di legge, non vi sarebbero ostacoli all’introduzione, per via legislativa (di normazione primaria), di una previsione analoga a quella caducata che consentirebbe ai difensori di astenersi anche in procedimenti con imputati sottoposti a misura cautelare, qualora, ovviamente, gli stessi acconsentissero ad aderire alla protesta dei propri patroni.
D’altra parte questa non sarebbe l’unica ipotesi in cui si avrebbe una dilatazione dei termini massimi (di fase) di durata della custodia cautelare provocata da una condotta dell’imputato. L’art. 304, co. 1, lett. a) prevede, difatti, che i termini di cui all’art. 303 c.p.p. possono essere sospesi quando nella fase del giudizio il dibattimento è sospeso o rinviato «su richiesta dell’imputato o del suo difensore»: con il conseguente prolungamento dei termini massimi di fase della custodia cautelare.
Naturalmente a questo esito non si potrebbe arrivare qualora si ritenesse di poter leggere nella decisione della Corte costituzionale un monito al legislatore a non introdurre una disposizione che attribuisce all’imputato la possibilità di incidere sulla durata del proprio stato detentivo, in virtù dell’indisponibilità del bene della libertà personale, come si era sostenuto nelle ordinanze di rimessione. Questa, tuttavia, sarebbe una conclusione che finirebbe per ridurre gli spazi di libertà del difensore senza tuttavia avere solidi argomenti a sostegno.
1 Cfr. C. cost., 16.5.1996, n. 171, in Giur. cost., 1996, p. 1582 con nota di A. Di Filippo, Sui rapporti tra l’astensione dalle udienze degli avvocati e il diritto di sciopero alla luce della sent. N. 171 della Corte costituzionale. In precedenza il Giudice delle leggi si era già occupato del tema con C. cost., 31.3.1994, n. 114, in Cass. pen., 1994, p. 2006.
2 Cfr. Cass. pen., S.U., 27.3.2014, n. 40187, Lattanzio, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di I. Guerini, Il diritto del difensore di astensione dalle udienze: la parola delle sezioni unite, 30.10.2014. V. anche in precedenza Cass. pen., S.U., 29.5.2013, n. 26711, Ucciero, in www.penalecontemporaneo.it, 20.6.2013. In tema si deve anche ricordare Cass. pen., S.U., 30.10.2014, n. 15232, Guerrieri, in www.penalecontemporaneo.it, 4.5.2015, le quali nell’affermare il principio che si debba riconoscere il diritto all’astensione degli avvocati anche nei procedimenti camerali a partecipazione facoltativa, hanno sottolineato che tra codice di rito e quello di autoregolamentazione vi sia una relazione di competenza e specificità con la conseguenza che la disposizione regolamentare finisce per rivestire funzione speciale rispetto alle disposizioni generali del codice di rito.
3 La Corte evidenzia al riguardo che solo in questo caso è possibile derogare alla propria giurisprudenza secondo la quale la partecipazione al giudizio incidentale di costituzionalità è circoscritto alle parti del giudizio a quo oltre che al Capo del Governo e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale.
4 Avverso la prima ordinanza di rimessione, datata 23 maggio 2017, le parti private hanno proposto ricorso per Cassazione che è stato accolto da Cass. pen., sez. V., 30.3.2018, n. 25124. Con questa decisione si è ritenuto che il tribunale emiliano non avesse più potestas agendi dopo la proposizione delle questioni di costituzionalità e sino alla definizione di questo. Il Giudice delle leggi, dopo aver sottolineato «l’irrilevanza di ogni vicenda successiva all’ordinanza di rimessione», ha evidenziato come la Cassazione non ha tuttavia annullato l’intera ordinanza di rimessione, facendo venir meno l’atto di promovimento del giudizio di costituzionalità che peraltro «non è suscettibile di alcuna impugnazione, né può essere annullato da alcun giudice, spettando solo a questa Corte di verificarne la ritualità e l’idoneità ad attivare tale giudizio».
5 La Corte costituzionale ha ritenuto corretto eccepire l’incostituzionalità dell’art. 2 bis in quanto è questa la norma primaria che consente a quella subprimaria (art. 4, co. 1. lett. b) di regolare l’esercizio del diritto del difensore di astenersi dalle udienze: «la censura, pertanto, è diretta proprio alla norma primaria che non avrebbe dovuto consentire ciò che poi la norma subprimaria ha regolamentato».
6 Si legge, difatti, nella sentenza come questo modo di regolazione normativa sia «coerente con il sistema delle fonti del diritto». Allo stesso modo si è ritenuto legittimo che la fonte sub primaria possa «originare nell’ambito dell’autonomia privata, se mediata da un atto di ricezione, derivazione o validazione di natura pubblicistica».
7 Giova in proposito osservare che la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 2 bis sia circoscritta alle ipotesi di processi con imputato sottoposto a misura cautelare, e non dunque con imputato detenuto per altra causa estranea al processo in corso.